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Fernanda Cavari
Introduzione
Non è il tipo o la cronologia ma il contesto di provenienza a definire la ceramica archeologica. Da
uno scavo possono infatti provenire ceramiche di tutte le tipologie ed epoche, dal momento che
«a partire dagli anni Sessanta lo stesso limite cronologico dell’applicazione delle metodologie
archeologiche si è dilatato all’epoca della rivoluzione industriale, andando a costruire le basi per lo
sviluppo di un’archeologia dell’età moderna e contemporanea…» (FRANCOVICH ET AL. 2000, VI).
L’archeologia, al contrario di quello che succedeva una volta, ha per oggetto quindi tutti i
materiali e le strutture rinvenute sottoterra, indipendentemente dalla loro antichità.
La conservazione archeologica, che ha per oggetto un’ampia gamma di reperti, sia per funzione
che composizione (suppellettili in ceramica, vetro, metallo e in materiali organici di varia natura,
pitture, pavimenti, strutture murarie ecc.), si è sviluppata come una disciplina distinta proprio per
le particolari condizioni di preservazione dei manufatti, conseguenti alla giacitura nel sottosuolo
(per una sintetica storia della conservazione in campo archeologico vedi SEASE 1996). La
ceramica archeologica presenta quindi problemi diversi da quelli delle ceramiche provenienti da
ambienti subaerei (ad esempio bacini in maiolica murati negli edifici) o da collezioni storiche,
pervenute per diretta e ininterrotta trasmissione. Si può dire che solo recentemente si è creata
un’attenzione particolare anche per questi manufatti che nella maggioranza dei casi non hanno un
valore di tipo artistico ma solo di documento storico. Fino agli anni Sessanta si sono spesso
utilizzati per la ceramica metodi impensabili per altri manufatti (HODGES 1975, 37-38) «per un
più tardivo riconoscimento della complessità e della dignità anche materica del reperto
archeologico» (MELUCCO VACCARO, 1989, 285; per una sintesi sullo sviluppo del restauro della
ceramica vedi BUYS ET AL. 1998, 63-73). In questa sede verrà affrontato solamente il tema della
conservazione e del restauro della ceramica rinvenuta in scavi nel sottosuolo, tralasciando l’esame
delle problematiche relative ai materiali provenienti da indagini e recuperi subacquei (per questo
argomento rimandiamo a PEARSON 1987).
Gli attuali principi su cui si basa un intervento di conservazione e restauro sono il frutto di una
teorizzazione codificata nelle cosiddette Carte del restauro. La Carta del Restauro 1987 così definisce
il termine restauro: “qualsiasi intervento che, nel rispetto dei principi della conservazione e sulla
base di previe indagini conoscitive di ogni tipo, sia rivolto a restituire, nei limiti del possibile, la
relativa leggibilità e, ove occorra, l’uso”. La definizione, che si applica a tutti gli oggetti che
rivestano interesse artistico, storico e culturale, indica, con il preciso riferimento alla prassi della
conservazione e delle indagini conoscitive, gli attuali indirizzi nel campo della preservazione e
valorizzazione dei beni culturali. Il termine indica dunque l’insieme delle procedure che rendano
possibile la comprensione dell’oggetto, unitamente alla sua valorizzazione, ottenuta spesso
mediante il rifacimento di parti mancanti. Ne consegue quindi che non si tratta della ricerca di
una “condizione originale” del manufatto, bensì della restituzione del suo significato che deve
comunque rispettare quelle modifiche, tra l’altro difficilmente reversibili, che esso ha subito nel
corso del tempo e che fanno così parte della sua storia. La Carta 1987 della Conservazione e del
Restauro degli oggetti d’arte e cultura è stata redatta nell’ambito del convegno del 1985 sulla tutela,
promosso dal CNR con il Ministero dei Beni Culturali, per integrare e aggiornare la Carta Italiana
del Restauro 1972. Quest’ultima fu emanata dall’allora Ministero della Pubblica Istruzione per
codificare le metodologie di intervento in ciascun settore dei beni culturali e la sua normativa si
basa sui principi contenuti nella Teoria del restauro di C. Brandi pubblicata nel 1963. Precedenti
internazionali dei due documenti citati furono la Carta di Atene del 1931 (seguita nel 1932 dalla
Carta italiana del restauro, rielaborazione a uso interno della precedente) e la Carta del Restauro di
Venezia del 1964, anche se al loro interno sono privilegiati gli aspetti del restauro architettonico.
Si può dire che il termine restauro, pur essendo ancora oggi utilizzato in molte sedi con
significato generico, rappresenta in realtà solo un momento della conservazione, concetto più
generale che indica tutte le attività finalizzate alla preservazione del patrimonio culturale
attraverso un intervento diretto sui manufatti e/o sull’ambiente circostante. Ormai in quasi tutti i
paesi, si fa sempre più ricorso all’espressione “conservazione e restauro”, per indicare che le due
fasi sono complementari e per superare i fraintendimenti che potrebbero sorgere utilizzando uno
solo dei due termini. L’espressione inoltre sottolinea quell’ampiezza progettuale che oggi è
diventata doverosa nel settore dei beni culturali: un intervento di restauro deve essere sempre
affiancato da un progetto di conservazione, prevenzione e manutenzione. Quest’ultima prevede il
controllo periodico delle condizioni dei manufatti su cui si è intervenuti, sia che si trovino esposti
in museo che nei magazzini, della situazione climatica degli ambienti che li ospitano e la
realizzazione, ove necessario, di interventi diretti o indiretti che assicurino l’efficienza delle
procedure messe in atto precedentemente. È da tener presente infatti che un oggetto “restaurato”
ha bisogno di un controlllo forse maggiore per la presenza di elementi estranei al materiale
originario (come consolidanti, adesivi, integranti ecc.) che interagiscono con il manufatto e sono
essi stessi soggetti a degrado in condizioni sfavorevoli, fino a perdere quelle caratteristiche
positive per le quali erano stati utilizzati.
Tutte le procedure e le sostanze utilizzate in un intervento di conservazione e restauro devono
sempre rispondere all’obiettivo di salvaguardare l’integrità del manufatto (JEDRZEJEWSKA 1983).
L’acquisizione del concetto che nessun trattamento è reversibile in senso stretto, unitamente alla
riflessione sulla durata di ogni intervento di conservazione e restauro (alcuni interventi spesso
non durano più di venti anni) e sui danni, riscontrati in diverse occasioni, derivanti
dall’utilizzazione di prodotti e procedure non sufficientemente sperimentate in questo settore,
hanno portato ad adottare metodi che riducano al minimo ogni apporto di materiale estraneo. La
reversibilità, che è un altro dei principi fondamentali del “restauro” (BERDUCOU 1990, 10-13),
consiste nel rendere possibile l’asportazione dei prodotti impiegati e quindi ulteriori trattamenti,
in considerazione del fatto che l’intervento di conservazione e restauro non può essere
considerato come definitivo e che in un futuro possano essere messi a punto sistemi di intervento
più idonei. I materiali introdotti come collanti, consolidanti ecc. devono anche essere stabili e
compatibili con la materia originale, avere cioè caratteristiche chimiche e fisiche analoghe, come i
prodotti utilizzati per le integrazioni di parti mancanti, che devono inoltre essere sempre
riconoscibili dall’originale.
Un corretto prelievo dei manufatti sul cantiere di scavo e l’attuazione delle procedure di “pronto
soccorso” sono le premesse indispensabili alle successive operazioni di conservazione e restauro
in laboratorio, dal momento che il cambiamento delle condizioni ambientali costituisce per i
reperti una fase estremamente rischiosa: si evitano in questo modo la perdita di molte
informazioni, ulteriore deterioramento e un intervento più lungo e complesso.
Le fasi successive al recupero prevedono dopo un approfondito esame del materiale, seguito
eventualmente da indagini di laboratorio, la pulitura/stabilizzazione, il consolidamento, la
ricomposizione, l’integrazione. Il percorso da seguire non ha sempre la stessa successione né tutte
le fasi sono sempre da intraprendere. Ad esempio il consolidamento deve in alcuni casi precedere
la pulitura oppure può non essere necessario. Non si può comunque mai pensare a procedure
generalizzate: ogni oggetto presenta caratteristiche proprie che necessitano di un intervento
specifico.
Il materiale costitutivo
Non si può intervenire su un manufatto ceramico se non se ne conoscono le caratteristiche della
materia prima, le tecniche di fabbricazione relative alle varie tipologie, la composizione dei
rivestimenti e i difetti di produzione. Bisogna ad esempio essere in grado di poter distinguere un
fenomeno di degrado originatosi in giacitura da un difetto che si è prodotto in fase di lavorazione.
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Per la definizione del materiale, delle tecniche e dei difetti, che devono sempre essere registrati
nella documentazione dell’intervento (vedi sotto la “scheda di conservazione e restauro”), si
rimanda al documento Uni Normal 10739.
Per gli aspetti relativi alla composizione del materiale e alle tecniche di esecuzione si veda il
contributo in questa sede di E. Giannichedda e N. Volante. Accenneremo solo ad alcune
caratteristiche che influenzano in modo significativo lo stato di conservazione. Come vedremo la
porosità ha una grande importanza nei processi di deterioramento dal momento che condiziona
la circolazione dell’acqua, che è il fattore principale di degrado sia fisico che chimico. La porosità
può dipendere dalla presenza nell’argilla di sostanze organiche che in cottura bruciano lasciando
spazi vuoti o dal non raggiungimento della temperatura di cottura ottimale per quel tipo di
produzione. La durezza inoltre, che dipende dai minerali presenti, e la granulometria dell’impasto
sono anch’essi fattori che giocano un ruolo importante nella preservazione della ceramica (RICE
1987, 347-369).
Fattori e fenomeni di degrado
Il degrado di una ceramica archeologica è il risultato dell’interazione tra le caratteristiche chimico-
fisiche intrinseche del materiale costitutivo (composizione del corpo ceramico e dei rivestimenti,
porosità, condizioni di cottura), l’uso che ne è stato fatto e l’ambiente di seppellimento.
Quest’ultimo avrà un influenza diversa sugli oggetti ceramici a seconda delle sue proprietà fisico-
chimiche che, conosciute anticipatamente, possono permettere di prevedere in termini generali lo
stato di conservazione dei materiali (BERGERON ET AL. 1991, 7-14) La perdita di certe qualità
originarie della ceramica, ovvero il degrado, può essere imputato a processi fisici e/o chimici
(BUYS ET AL. 1998, 18-28; LEGA ET AL. 1997, 86-95). Il degrado biologico, cioé il deterioramento
provocato da organismi viventi, può essere ricondotto parimenti a processi fisici e chimici
(CANEVA ET AL. 1994)). Non bisogna comunque dimenticare che l’interro, se da un lato è la
causa di certi tipi di deterioramento, dall’altro consente la sopravvivenza dei manufatti,
soprattutto quando è profondo e perciò privo di fluttuazioni di umidità e temperatura (CRONYN
1990, 24-28). Il degrado che interessa maggiormente i manufatti ceramici è soprattutto di tipo
fisico, dal momento che la ceramica tende a fratturarsi in conseguenza di sollecitazioni
meccaniche e presenta invece una buona stabilità chimica, soprattutto rispetto ad altri materiali
come quelli organici e metallici. Vedremo comunque che non è da sottovalutare anche
l’aggressione chimica, in certi casi fortemente distruttiva. Il carico del deposito e le vibrazioni
possono provocare deformazioni, fratturazioni (che possono dar origine ad altre deformazioni
dal momento che viene meno la tensione prodotta dalla contrazione del materiale durante la
cottura), fessurazioni e distacchi di rivestimenti. I rivestimenti tendono a fratturarsi e a scagliarsi
anche se sottoposti a cambiamenti di temperatura, specialmente quando i coefficienti di
dilatazione del rivestimento e del corpo ceramico sono diversi.
L’acqua è il principale fattore di degrado fisico e, come vedremo, anche chimico. È responsabile
di abrasioni se nel terreno il drenaggio è veloce: l’azione abrasiva dell’acqua originata dalla
presenza di particelle in sospensione, provoca difatti una consunzione dei materiali. Le
caratteristiche intrinseche del manufatto, come accennato, hanno una grande influenza sulla
capacità di azione dei fattori di deterioramento e la porosità rende una ceramica particolarmente
sensibile agli effetti dannosi dell’acqua. La cavillatura ad esempio, che si forma o è latente già
durante la fase di raffreddamento dopo la cottura per l’eccessiva contrazione dello smalto rispetto
al corpo ceramico, tende ad aumentare per l’espansione del corpo ceramico esposto all’umidità.
In caso di gelate inoltre, se l’acqua è presente nei pori della ceramica, ne determina la
fratturazione per il suo conseguente aumento di volume; ma soprattutto l’acqua è il veicolo dei
sali solubili che quando cristallizzano esercitano anch’essi una pressione considerevole nei pori
disgregando il materiale dalla superficie verso l’interno. I sali solubili provengono dall’ambiente di
seppellimento nella forma più comune di cloruri ma anche di solfati e nitrati: i cloruri si trovano
in prossimità del mare, i nitrati e i fosfati si formano invece dalla decomposizione di sostanze
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
organiche (PATERAKIS 1987, 67-68). Rivelano subito la loro presenza quando gli oggetti, rimossi
da un deposito umido, cominciano ad asciugarsi. I sali solubili se cristallizzano sotto il
rivestimento provocano il suo distacco e creano scagliature o esfoliazioni nel corpo ceramico (fig.
27).
Fra i processi chimici imputabili all’azione dell’acqua va ricordato il fenomeno di riargillificazione
per assorbimento di acqua in materiali porosi e poco cotti, che li rende teneri e fragili e può
portare alla loro deformazione. Le ceramiche preistoriche in particolare sono le più fragili e
suscettibili di reidratazione per le loro modalità di cottura che non hanno permesso un’omogenea
e irreversibile trasformazione chimica dell’argilla. Gli oggetti presentano in genere una sottile
superficie esterna abbastanza resistente che copre un nucleo interno estremamente friabile.
L’umidità del terreno in cui si vengono a trovare li ammobidisce, la pressione del deposito può
generare deformazioni e in casi estremi si può arrivare alla loro disgregazione totale (SMITH 1998,
3-11). Questo fenomeno si può osservare anche in ceramiche ben cotte, quando l’acqua
circolante nel terreno è di natura acida, per dissoluzione e asportazione delle inclusioni calcaree
presenti o al contrario, se alcalina, per l’attacco della fase vetrosa (CRONYN 1990, 145). Altri
effetti chimici sono l’opacità dei rivestimenti vetrosi, la ricarbonatazione, le incrostazioni, le
macchie; la decoesione e polverulenza del corpo ceramico può essere imputata sia a cause fisiche
che chimiche. L’iridescenza negli smalti può essere causata dalla dissoluzione dei componenti
alcalini (che fanno parte della composizione dello smalto) da parte dell’acqua. Inoltre le soluzioni
di minerali circolanti nel terreno provocano la formazione di depositi, il più frequente dei quali è
quello calcareo, che si può presentare in vario aspetto e misto in genere a terra e grani silicei.
Nello stesso modo si possono formare incrostazioni silicee e il ferro e il manganese presenti nel
terreno possono migrare sulla superficie delle ceramiche lasciando delle caratteristiche macchie
brune. Infine i fattori biologici sono rappresentati dalle radici delle piante che possono causare
degrado fisico e da microrganismi che possono, con i loro processi metabolici, lasciare macchie
sulla superficie o trasformare certi componenti; ad esempio vetrine al piombo possono diventare
nere per l’azione di batteri, che riducono i solfati in solfuro di idrogeno, che a sua volta reagisce
con il rivestimento piombifero per formare solfuro di piombo (LEGA ET AL. 1997).
Recupero e primo intervento sullo scavo
Ogni materiale interrato dopo un iniziale rapido degrado raggiunge quello che viene definito uno
“stato di equilibrio” con l’ambiente di seppellimento. Questa situazione di relativa stabilità
chimica e fisica viene bruscamente turbata dalle azioni di messa in luce e recupero, cioè dallo
scavo archeologico, in quanto le condizioni in cui viene a trovarsi l’oggetto sono estremamente
diverse. Il manufatto sarà quindi sollecitato a ritrovare un nuovo equilibrio a spese spesso della
sua integrità (DE GUICHEN 1986, 25-34). È importante quindi che già all’atto del rinvenimento si
operi seguendo quelle procedure, nella maggior parte dei casi anche piuttosto semplici, che
prevengano processi di sicuro effetto negativo sui manufatti (SEASE 1986, 35-44; SEASE 1988;
WATKINSON 1987).
Sarebbe auspicabile che nella programmazione di uno scavo fosse prevista sin dall’inizio la
presenza del restauratore per ottimizzare i risultati della ricerca (FOLEY 1986, 22; CHAVIGNER
1993, 75-89; VON ELES 1992, 204-207). In mancanza dell’intervento diretto di addetti alla
conservazione, è indispensabile avere un laboratorio di riferimento o un professionista che si
renda disponibile in casi di urgenza e che comunque fornisca, prima dell’inizio dei lavori, tutte le
indicazioni utili ad un corretto prelievo ed immagazzinamento, come era suggerito già nella Carta
del restauro 1972.
Durante la fase di individuazione e messa in luce di un manufatto ceramico bisogna porre grande
attenzione alle variazioni termoigrometriche che si verificano nel manufatto e agli strumenti
meccanici utilizzati per rimuovere la terra. Ad esempio l’uso dell’onnipresente trowel può causare,
se utilizzata in prossimità dell’oggetto, abrasioni e rotture. Si consiglia quindi, via via che ci si
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L’esame autoptico preliminare può dare numerose indicazioni riguardo alla tecnica di esecuzione
(tipo di argilla, cottura, rivestimento) e al tipo di degrado, per poter stabilire il tipo di azioni da
intraprendere: pulitura stabilizzazione, consolidamento ecc. È chiaro che questo esame
presuppone da parte dell’operatore una conoscenza approfondita della ceramica in tutti i suoi
aspetti tecnologici, conservativi, storici e storico-artistici. L’esame con microscopio binoculare è
indispensabile per distinguere depositi estranei, microfratturazioni, alveolizzazioni della
superficie. Semplici indagini chimiche possono rivelare la natura dei depositi estranei: per
distinguere un deposito calcareo da un deposito siliceo ad esempio si utilizza l’acido cloridrico,
che in presenza di carbonato di calcio genera una forte effervescenza. L’esame radiologico invece
può essere utile per indagare una superficie coperta da uno spesso strato di incrostazione o
l’interno di un vaso utilizzato come contenitore funerario oppure per esaminare manufatti
restaurati in precedenza per l’individuazione di eventuali perni. È stata impiegata con esito
soddisfacente anche la tomografia assiale computerizzata (TAC) per esaminare prelievi con pane
di terra contenenti vasi cinerari; l’indagine ha permesso di localizzare prima dell’intervento la
presenza e l’ubicazione dei frammenti ceramici ed escludere la presenza di materiale osteologico
(DAL RÌ ET AL. 1994, 87-91). L’analisi a luce ultravioletta può individuare restauri moderni
invisibili oppure tracce di decorazioni non distinguibili con una normale illuminazione. Esistono
attualmente numerose analisi più complesse, che indagano soprattutto aspetti relativi alle tecniche
di esecuzione e alla provenienza delle materie prime. Sono di tipo mineralogico petrografico
come le analisi al microscopio mineralogico su sezioni sottili e l’analisi per diffrazione a raggi X, e
di tipo chimico eseguite mediante le moderne tecniche strumentali come la spettrometria in
emissione di fiamma, di assorbimento atomico, di fluorescenza a raggi X e le analisi per
attivazione neutronica. Sono però analisi distruttive perché necessitano del prelievo di un
campione; solo le analisi per fluorescenza a raggi X e per attivazione neutronica possono essere
eseguite direttamente su reperti di piccole dimensioni (CUOMO DI CAPRIO 1985, 189). Per la
descrizione delle varie tecniche di analisi e campi di applicazione si rimanda a CUOMO DI CAPRIO
1985;, DIANA ET AL. 1988; FERRETTI 1993.
Le fasi della documentazione
Fasi fondamentali che devono precedere e seguire parallelamente qualsiasi intervento di
conservazione e restauro sono quelle relative alla documentazione. La documentazione è la
registrazione dei fenomeni osservati e di tutte le procedure utilizzate durante l’intervento per
mezzo di schede analitiche, rilievi grafici e fotografici ecc. (BUYS ET AL. 1998, 52-59).
L’informatica propone a questo riguardo molte applicazioni interessanti e offre inoltre la
possibilità di realizzare ipotesi ricostruttive diversificate, per poter valutare la soluzione migliore.
La documentazione deve iniziare sullo scavo dove devono essere registrate tutte quelle
informazioni che possono risultare utili ai procedimenti successivi: le condizioni di giacitura, la
composizione del terreno e gli eventuali trattamenti (pulitura, consolidamento ecc.). Questa prima
fase di documentazione dovrebbe essere registrata su una scheda di scavo da consegnare al
laboratorio insieme al manufatto. In laboratorio, prima di procedere all’intervento di
conservazione e restauro, progettato sulla base dell’esame diagnostico e delle finalità, dovranno
essere registrate su un’apposita scheda tutte le informazioni utili alla connotazione dell’oggetto e
dell’intervento. Un’accurata documentazione fotografica, e in alcuni casi anche grafica, registrerà
lo stato di conservazione prima, durante e dopo l’intervento. La compilazione della scheda
seguirà passo passo l’esecuzione dell’intervento. Si propone qui un modello di scheda elaborata
espressamente per la ceramica proveniente da scavo (fig. 30). La scheda è divisa in quattro
sezioni: la prima contiene i dati anagrafici (provenienza, numero di inventario, riferimenti grafici e
fotografici), la seconda riguarda invece la caratterizzazione tecnica, la terza lo stato di
conservazione, la quarta infine gli interventi eseguiti e i materiali utilizzati per le operazioni di
conservazione e restauro. Anche successivamente, durante la sua permanenza in ambienti
espositivi o magazzino, l’oggetto dovrebbe avere un’ulteriore scheda di riferimento, che vada a
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preferibile l’uso di impacchi di materiali assorbenti come polpa di cellulosa o argille, che vengono
applicati preferibilmente su uno strato di carta giapponese. Per la rimozione dei depositi calcarei
che sono assai comuni sulle ceramiche archeologiche, è da evitare l’uso di acidi che oltre ad
attaccare anche la componente calcarea dell’impasto ceramico, causano una disgregazione
dell’argilla per la violenta effervescenza prodotta dalla reazione chimica, che crea
microfessurazioni nel corpo ceramico e nei rivestimenti (HODGES 1987, 146-147), oltre a causare
la formazione di sali solubili. Efflorescenze di sali solubili, originate dalla trasformazione dei
depositi carbonatici o addirittura della tempera calcarea presente nell’argilla stessa della ceramica,
sono state riscontrate in manufatti puliti con acido cloridrico neutralizzato poi con ammoniaca
(WHEELER ET AL. 1993, 55-62). Questo metodo di pulitura continua comunque a essere usato in
alcuni laboratori per depositi molto tenaci, mediante applicazioni locali (FABBRI ET AL. 1993,
183). Si utilizzano generalmente agenti chelanti come l’EDTA (acido etilendiamminotetracetico),
che rimuove carbonati e ossidi di ferro, nella forma di sale bisodico o tetrasodico (CREMONESI
2001, 36-39) che necessitano successivamente di un accurato risciacquo per allontanare i prodotti
di risulta delle reazioni. Bisogna ricordare comunque che i depositi calcarei non rappresentano un
pericolo per i manufatti ceramici e, se non oscurano dettagli importanti della decorazione
possono anche non essere rimossi (BRACHERT 1990, 158). Per rimuovere le incrostazioni
vengono utilizzati anche impacchi di acqua distillata e Desogen in polpa di cellulosa (FABBRI ET
AL. 1993, 171). Questo prodotto ha proprietà soprattutto battericida in quanto contiene sali di
benzalconio, ma può avere anche un’azione detergente se utilizzato in opportuna concetrazione
(CREMONESI 2001, 43). Per le macchie di colorazione scura causata dalla presenza di composti
del ferro e del manganese o da resti organici si possono utilizzare solo sistemi di pulitura chimica;
per le cosiddette “macchie nere”, costituite da ossidi e idrossidi di manganese, ad esempio si può
utilizzare un prodotto a base di idrazina idrossido e idrossilammonio cloruro, di pronta efficacia e
che non produce effetti dannosi sui materiali (BANDINI ET AL. 1988).
Consolidamento
Il consolidamento, che ha lo scopo di rendere più resistente un manufatto fragile e decoeso, viene
intrapreso solo in casi di assoluta necessità e mai come prassi generalizzata, perché oltre a
interferire spesso con l’aspetto del manufatto, può presentare problemi di completa reversibilità.
Il consolidamento di un materiale, che ha perduto la propria coesione microstrutturale, consiste
nella sua impregnazione con una sostanza ausiliaria liquida che una volta penetrata possa passare
allo stato solido e riempire quindi i vuoti che sono alla base della fragilità del manufatto
(MATTEINI ET AL. 1989, 217-228). A questo scopo si utilizzano soluzioni o emulsioni di resine
organiche o prodotti inorganici (LAZZARINI ET AL. 1986, 184-231). Se l’immersione, dopo aver
imbibito l’oggetto con il solvente per rimuovere l’aria dai pori, è il sistema più idoneo per
ottenere una completa impregnazione, le ceramiche particolarmente fragili non possono
sopportare questo metodo e devono essere consolidate mediante imbibizioni a pennello o a
percolazione. Gli oggetti sono in genere consolidati da asciutti; nel caso in cui la loro asciugatura
implichi il loro sgretolamento si rende necessario l’uso di un’emulsione (resina sospesa in acqua),
che può presentare però lo svantaggio di diventare con il tempo meno solubile e degradarsi per la
presenza di additivi che la stabilizzano. Fra i consolidanti organici uno dei più utilizzati è il
Paraloid B72, un copolimero di acrilato di metile e metacrilato di etile, perché è una delle migliori
resine dal punto di vista della stabilità. Si utilizza in genere una soluzione di Paraloid B 72 in alcol
e acetone (50:50); la scelta del solvente è importante per assicurare una buona penetrazione della
resina, dal momento che ognuno presenta gradi diversi di volatilità e miscibilità. Per avere una
impregnazione profonda e omogenea bisogna utilizzare solventi poco volatili e rallentare
l’evaporazione. È utilizzato anche il il Paraloid B67, che rispetto al 72 è solubile solo in alcol o
essenza di petrolio e perciò assicura una migliore penetrazione per la lenta evaporazione del
solvente, e il Mowital B 30 H, una resina polivinilbutirralica, che cambia impercettibilmente il
colore della ceramica senza produrre brillantezza (con il tempo però può ingiallire e perdere
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dimensioni considerevoli, dove è necessario un adesivo con forte potere coesivo che altre resine
termoplastiche non hanno (SHASHOUA ET AL. 1992, 114); possono avere però problemi di
instabilità se esposti a radiazioni di ultravioletti, elevata umidità e temperatura; si producono
cambiamenti di colore e ritiro e le proprietà meccaniche peggiorano notevolmente (KOOB 1982,
31-34). Studi condotti presso il British Museum sottoponendo i campioni a prove di
invecchiamento artificiale hanno dimostrato che almeno il tipo commerciale utilizzato nel museo
da almeno 40 anni (H.M.G., H. Marcel Guest Ltd.), in condizioni di temperatura e umidità non
estreme, tipiche di un ambiente museale, ha una stabilità dai 50 ai 100 anni (SHASHOUA ET AL.
1992, 118). È usato anche per le ceramiche cotte a bassa temperatura perché ritenuto da taluni
meno forte del Paraloid (SMITH 1998, 9). In ambiente non controllato è però sconsigliabile l’uso
perché effettivamente si sono verificati ingiallimenti, ritiro e perdita di adesione. Fra le resine
acriliche il Paraloid B-72, resina generalmente usata per il consolidamento e ben conosciuta per la
sua grande stabilità, trasparenza, resistenza meccanica e reversibilità, può trovere impiego anche
come adesivo di ceramiche porose. Come adesivo il solvente da utilizzare è l’acetone (1:1
resina/solvente) che offre un’ottima lavorabilità e velocità di presa (KOOB 1986, 7-14). Nel caso
di impasti polverulenti o fragili con tendenza a sgretolarsi, l’applicazione di un adesivo può
provocare il distacco della zona superficiale delle fratture; è necessario quindi un preventivo
consolidamento generale dell’oggetto. Agli adesivi termoindurenti appartiene la categoria delle
resine epossidiche (ad es. Araldite, Ablebond, Plastogen EP ecc.), delle resine poliesteri (ad es.
Sintolit) e i cianocrilati; questi ultimi hanno la caratteristica di fare presa rapidamente senza creare
spessore. Le resine epossidiche hanno una contrazione minima, quando fanno presa, ma hanno la
tendenza a ingiallire con il tempo. Bisogna quindi utilizzare solo quei prodotti che sono stati
testati e sono risultati stabili in ambiente museale (DOWN 1984, 63-76; DOWN 1986, 159-170).
Quando si applica l’adesivo, le fratture devono risultare prive di terra e di incrostazioni; perché un
incollaggio sia resistente è necessario che le due parti siano perfettamente in contatto, che il film
sia omogeneo e che i due frammenti siano serrati con forza perché non rimangano bolle d’aria tra
le superfici e allineati senza che si producano “scalini” (il controllo deve essere d tipo tattile,
passando il polpastrello sul giunto). Dal momento che l’adesivo per fare presa, sia che si tratti di
adesivi termoplastici che termoindurenti, ha bisogno di un certo lasso di tempo, i frammenti
devono essere tenuti insieme dal nastro adesivo, fissato in posizione ortogonale rispetto alla
frattura (cerotto micropore da chirugo che non lascia impronte e non intacca le superfici), il cui
uso però è interdetto nel caso di superfici fragili o consolidate, rivestimenti (vernici o smalti)
sensibili, dorature, pitture a freddo. Il nastro comunque deve essere sempre rimosso con l’aiuto
del solvente e mai solo meccanicamente. In alternativa si può utilizzare un contenitore con sabbia
dove mantenere l’oggetto nella giusta posizione fino a completa presa dell’adesivo. Nel caso di
molti frammenti deve essere fatta una ricomposizione provvisoria per poter stabilire l’ordine di
assemblaggio; si inizia dalla base del manufatto o, in mancanza di essa, dall’orlo aggiungendo un
frammento alla volta, evitando di ricomporre separatamente gruppi da riunire in seguito. È
importante ricordare che il nastro adesivo, sia nel caso di ricomposizioni provvisorie sia nel caso
di ricomposizione definitive, non deve essere lasciato per molto tempo sul corpo ceramico,
perché può provocare, rilasciando il collante, macchie difficilmente rimovibili. In caso di errori
l’adesivo può essere rimosso con il solvente opportuno stando attenti a non far penetrare
l’adesivo in soluzione nel corpo ceramico perché può anch’esso provocare macchie.
Integrazione
Si ricorre all’integrazione per esigenze statiche/strutturali e di leggibilità/valorizzazione
dell’oggetto. L’integrazione deve essere sempre distinguibile dalle parti originali, qualunque sia il
tipo di ricostruzione giudicata idonea, che può andare da un’integrazione minima di tipo statico al
completamento sia formale che pittorico del manufatto (CASADIO 1993, 49). Se la finalità
dell’intervento è limitata alla conservazione e allo studio del manufatto, sarà sufficiente
un’integrazione che ne assicuri la stabilità. La mancanza di integrazione in un oggetto lacunoso
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
può rivelarsi addirittura dannosa per l’impossibilità da parte del solo adesivo di sostenere parti
incomplete; anche se al momento può sembrare una ricomposizione solida, con il tempo si può
verificare il collasso di una o più parti, che può provocare il distacco di materiale lungo la frattura
o creare addirittura nuove rotture. In certi casi si può comunque decidere di smontare il
manufatto ricomposto precedentemente, dopo averlo accuratamente documentato; questo
metodo assicura infatti una preservazione senz’altro migliore. Se la finalità è invece di tipo
espositivo si può valutare la possibilità del completamento formale e in certi casi anche pittorico.
Un oggetto molto lacunoso però, generalmente non viene integrato in tutte le sue parti mancanti,
anche nel caso esistano elementi sicuri e sufficienti alla sua ricostruzione, in quanto il rifacimento
prevarrebbe sulla parte originale. Non mancano comunque casi in cui, per valorizzare al massimo
un manufatto e restituirgli l’integrità artistica (questi interventi in genere hanno interessato
ceramiche greche con figurazioni complesse e di grande livello pittorico), si è proceduto al
rifacimento di una replica del vaso con prodotti epossidici in cui sono stati poi inseriti i
frammenti originali (BAROV 1988, 165-177; ELSTON 1990, 69-80).
L’integrante deve rispondere a una serie di requisiti come inerzia chimico-fisica e biologica,
resistenza all’invecchiamento, reversibilità, facile lavorabilità, resistenza meccanica appropriata,
aspetto finale in accordo con l’originale ecc. (PRUNAS ET AL. 1989, 17-34). Al momento attuale
non esiste un prodotto che soddisfi pienamente tutti questi requisiti e tra gli addetti al settore vi
sono discordanze di giudizio sui vari materiali da integrazione. Si usano prodotti come gessi
tradizionali, gessi dentistici, polyfille, impasti a base di cera, resine poliesteri ed epossidiche
(PEDELÌ ET AL. 1994, 131-170). Il gesso è ancora il materiale integrante più utilizzato, dal
momento che presenta un densità simile a quella della terracotta e ha un coefficiente di
espansione termica più vicino se comparato ad altri tipi di materiali (BAROV ET AL. 1984, 1-4).
Trovano impiego diffuso anche altri prodotti commerciali a base di solfato di calcio come la
Polyfilla o l’Hydrocal. Ad esempio, rispetto al gesso la Polyfilla (solfato di calcio e etere di
cellulosa) ha il vantaggio di poter essere modellata plasticamente e non solamente colata, non
ritira e ha un tempo di lavorazione più lunga (un’ora circa); inoltre, utilizzato da molti anni, ha
dimostrato notevole prova di inerzia (LARSON 1980, 44-45). Le integrazioni in gesso o polyfilla
vengono poi impregnate con una resina per operare un leggero consolidamento e per impedire
eventuali attacchi microbiologici. La presenza di una resina cellulosica nella polyfilla non sembra
costituire una fonte di nutrimento per microrganismi, come ha evidenziato uno studio condotto
con prove sperimentali (NUGARI 1989, 34-38) Tutti i materiali a base di gesso sono inoltre
facilmente reversibili con l’uso di acqua e mezzi meccanici. Il materiale a base di cera, gesso e altri
componenti, denominato I 76 e messo a punto dal Centro di Restauro di Firenze (DEL FRANCIA
1991, 157-164) non ha dato invece buoni risultati nel tempo, pur avendo indubbie doti di facile
lavorabilità e reversibilità. Sono state quindi apportate modifiche nella composizione dell’impasto
che attualmente è commercializzato già pronto per l’uso (MICCIO 1998, 131-133). Vengono
utilizzate anche resine epossidiche che, rispetto ai materiali citati precedentemente, presentano
una maggiore resistenza meccanica: sono utilizzate soprattutto per maioliche resistenti (GROSSI
ET AL. 1994, 126-130) e porcellane (JORDAN 1999, 138-145) o per rifare, come già detto, forme
complete su cui inserire i frammenti (ELSTON 1990; BAROV 1988). I materiali a base di solfato di
calcio sono infatti abbastanza fragili e inclini a rottura in conseguenza di sollecitazioni
meccaniche. Nello stesso tempo però, essendo meno resistenti della ceramica, in caso di urto si
rompono preferenzialmente; bisogna valutare inoltre che in molti casi è la sinergia tra la
ricomposizione, il consolidamento e l’integrazione ad assicurare la stabilità del manufatto e non
tanto le proprietà meccaniche dell’integrante. Inoltre, soprattutto la Polyfilla è facilmente
lavorabile dopo la presa, il che consente di evitare accidentali abrasioni della ceramica durante le
operazioni di finitura della superficie. Le resine invece sono molto dure dopo la presa e perciò
difficili da lavorare. Si è utilizzato recentemente, per ceramiche preistoriche, un integrante
costituito da Paraloid B 72, disciolto in alcol e acetone (50:50), mescolato a microsfere di vetro.
Questo materiale può essere velocemente rimosso con acetone e lisciato con acetone o alcol,
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
nel caso ad esempio di colorazioni differenti nello stesso esemplare, dovute a fenomeni di
cottura. In questo caso infatti, un colore unico dell’integrazione inserita in una zona di colore
variabile può provocare degli stridenti contrasti; questa tecnica permette invece di assecondare in
modo eccellente le varie sfumature di colore consentendo una visione unitaria del manufatto, pur
restando perfettamente distinguibile dall’originale. Si usano generalmente colori acrilici opachi,
che presentano la giusta densità necessaria a creare punti che abbiano corpo e nitidezza e
uniformità di colore in asciugatura. Accanto a questa tendenza non mancano comunque casi in
cui si impone un rigoroso intervento minimo, soprattutto per evitare integrazioni arbitrarie
(BANDINI 1990, 102, fig. 87), per mezzo di supporti in materiale trasparente o proposte di
rinuncia alla ricomposizione dei frammenti (VIDALE-LEONARDI 1994, 96-99) e di adozione di
tecniche grafiche e videofotografiche per la ricostruzione della forma e del decoro (MELUCCO
VACCARO 1989, 11).
Conservazione a lungo termine: immagazzinamento ed esposizione
La ceramica, dopo essere stata sottoposta a un intervento di conservazione e restauro, come del
resto ogni manufatto, deve comunque essere periodicamente controllata, qualunque sia la sua
destinazione definitiva (magazzino o esposizione in museo); bisogna inoltre dotare l’edificio che
la ospita di quei correttivi che assicurino idonei parametri di conservazione e strumenti di
controllo (THOMSON 1986, DE GUICHEN 1984). Anche se rispetto ad altri materiali presenta una
maggiore inerzia rispetto a fattori come la temperatura e l’umidità, è comunque importante
assicurare un ambiente in cui questi fattori siano stabili e l’umidità relativa non superi il 65%
(BODDI 1999, 10-35, CHILD 1999, 36-87). La presenza di materiali come adesivi, consolidanti e
integranti impone un’attenzione maggiore nei confronti di queste indicazioni di massima, dal
momento che dovranno essere tenuti sotto controllo fattori che non avrebbero una grande
influenza sul materiale ceramico di per sé (BERDUCOU 1990, 119). Bisogna inoltre evitare
un’erronea manipolazione che è spesso causa di nuove rotture (un oggetto restaurato rimane
comunque fragile) e l’accumulo di polvere sulla superficie. Si raccomanda quindi di manipolare
l’oggetto sempre con due mani, evitando la presa per le anse per gli orli e comunque una presa
non equilibrata ecc. (come invece purtroppo si vede fare a chi studia, disegna o fotografa i
manufatti) e di conservare gli oggetti in vetrine possibilmente ermetiche, nel caso di esposizione
museale, oppure in contenitori o sacchetti di polietilene, nel caso di conservazione in magazzino.
È comunque doveroso pianificare interventi di controllo e manutenzione ordinaria, qualunque sia
la destinazione definitiva: a scadenze regolari dovranno essere controllati gli oggetti e le
condizioni generali dei contenitori, siano essi museali o di deposito.
Interventi del passato
Fin dall’antichità abbiamo testimonianze di interventi di “restauro” soprattutto per ripristinare la
funzione d’uso del manufatto. Già a partire dal VII sec. a.C. si praticava il sistema di
ricomposizione con fori e graffe di bronzo o di piombo (BRACHERT 1990), ma la tecnica è ancora
più antica, come testimoniano ad esempio una ciotola rinvenuta a Tell Hassan in Mesopotamia,
in cui l’assenza di tracce metalliche può indicare che la connessione era assicurata da materiali
organici deperibili (FABBRI ET AL. 1993, 2) e un vaso in pietra cicladico presso il Museo
Archeologico di Naxos. Fori e graffe di piombo sono state rinvenute in ceramiche greche e
romane (ZANELLI 1997, 53-54); in un recente scavo di una statio romana a Bomarzo è stato
rinvenuto ed è ancora in situ un grande dolio riparato con graffe in piombo (fig. 35), mentre al
Museo Archeologico di Colle Val d’Elsa (sala 8) è esposta una ceramica attica che presenta i fori
della puntatura. Successivamente la tecnica della puntatura è stata utilizzata in tutte le epoche fino
ai nostri giorni. Per il Medioevo abbiamo testimonianze in esemplari di maiolica arcaica, ad
esempio in un catino proveniente da un pozzo di butto rinvenuto a Siena nella Contrada della
Civetta, nei cui fori rimangono i carbonati di rame che testimoniano l’utilizzo di un filo di questo
materiale (fig. 36). Abbiamo testimonianze di riparazioni coeve al materiale eseguite anche con
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
altri metodi; interessante a questo proposito la foderatura con argilla a scopo di consolidamento
di un contenitore, in origine estremamente friabile, in una sepoltura dell’età del Bronzo (SMITH
1998, 5) e un’integrazione eseguita con pece in un’urna cineraria dell’VIII secolo (ZANELLI 1997,
53). L’importanza di tali testimonianze storiche impone ovviamente la loro conservazione
(BRACHERT 1990, 162) che deve verificarsi sempre quando ci troviamo di fronte a restauri coevi e
deve indurre a una riflessione nel caso di interventi successivi, che fanno sempre comunque parte
della storia del manufatto e costituiscono un documento materiale di un modo diverso di
intendere il restauro. Quando ci si trova di fronte a vecchi restauri inoltre, bisogna sempre
valutare se la loro rimozione può causare ulteriore deterioramento del materiale originale, dal
momento che spesso i prodotti o il tipo di intervento sono difficilmente reversibili. Nel caso
quindi che il vecchio restauro non costituisca una fonte di degrado per il manufatto e non ne
impedisca la leggibilità è preferibile non intervenire e limitarsi alla sua manutenzione. Le prime
fonti scritte su sistemi di riparazione utilizzati per le ceramiche risalgono al Rinascimento, ma i
primi trattati specifici sul tema sono della seconda metà dell’Ottocento (FABBRI ET AL.1993, 13-
25). Nel 1868 in Francia venne pubblicato un manuale sul restauro della ceramica di Thiaucourt,
L’Art de restaure les faiences et les porcelaines, seguito nel 1876 da L’Art de restaurer soi-memes les faiences,
porcelaines, cristaux….. di O.E. Ris-Paquot. Del resto lo sviluppo nel XVIII e XIX secolo del
collezionismo ceramico e del conseguente mercato antiquario dettero impulso a interventi di
restauro inteso come rifacimento mimetico e falsificatorio (BERTINI 1998, 149-161), mediante i
quali si arrivava addirittura a ricomporre forme intere con frammenti provenienti da esemplari
diversi della stessa tipologia (FABBRI ET AL. 1993). Tali metodi sono testimoniati in molti
esemplari provenienti da collezioni pubbliche e private; talvolta sono stati evidenziati solo in
occasione di nuovi restauri, dal momento che il fine dell’intervento era restituire completezza
all’oggetto senza che fosse possibile distinguere il rifacimento; il restauro cioè era tanto più
apprezzato quanto più risultava invisibile (ZANELLI 1997, 54-55). Riguardo agli interventi eseguiti
negli ultimi due secoli abbiamo una numerosa casistica di danneggiamenti prodotti durante gli
interventi: rivestimenti e impasti danneggiati per l’uso di prodotti chimici impropri, abrasione dei
bordi dei frammenti per uno scorretto ordine di ricomposizione, abrasione da levigature
effettuate nelle zone a contatto con le integrazioni, incisioni praticate sul corpo ceramico per far
meglio aderire le stuccature del rivestimento (FABBRI ET AL. 1993, 154-159). Esistono anche casi
di integrazioni con altri materiali come cotto, legno, metallo che, utilizzati a fini strutturali, non
sono risultati dannosi per gli oggetti (FABBRI ET AL. 1993, 21-38) oppure casi in cui i frammenti
mancanti erano stati riprodotti fedelmente in ceramica imitando con grande perizia anche smalto
e decoro (KOOB 1999, 156-166). Nel Ris-Paquot si descrive la pratica della puntatura, tecnica
come abbiamo visto ben più antica, che consisteva nel praticare dei fori con un trapano ad
archetto su ciascun lato del frammento nei quali veniva poi inserito un filo di ottone. Le
indicazioni di Ris-Paquot trovano riscontro pratico in tanti esemplari in cui si è intervenuti
nell’Ottocento ed anche in tempi molto più recenti, soprattutto in ambito privato. Invece del filo
si potevano utilizzare graffe di ferro inserite dopo aver applicato nei fori gesso, gommalacca o
mastici di varia composizione per ancorare meglio il raccordo metallico all’oggetto.
Queste riparazioni, come accennato, possono porre di fronte a una scelta di tipo etico: conservare
il restauro come testimonianza storica o sostituirlo con gli attuali metodi e materiali? Nel caso
delle graffe di ferro che, spesso ossidate, causano pressioni meccaniche con il loro conseguente
aumento di volume, sono lo stato di conservazione generale del manufatto e una valutazione di
tipo estetico a guidare nella scelta dell’intervento: si può procedere quindi o alla loro
stabilizzazione con inibitori della corrosione oppure alla loro rimozione. Questo intervento è
abbastanza rischioso perché possono verificarsi scagliature o rotture del materiale. Al Musée
National de Céramique a Sèvres viene utilizzato un metodo elettrolitico che permette l’estrazione
delle graffe senza alcun danno; successivamente le ceramiche sono ricomposte e stuccate secondo
i metodi in uso attualmente e le graffe stabilizzate e conservate come testimonianza del
precedente restauro (LACOUDRE ET AL.1988, 23-28). Riguardo alle integrazioni invece, il Ris-
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
Paquot propone uno stucco a base di gesso e colla forte da applicare su un’armatura di fili
metallici, metodo anch’esso documentato in molti esemplari. Del resto ancora oggi questo
sistema viene usato da “restauratori” del mercato antiquario, come è ancora considerato un
sistema da utilizzare il cosiddetto “inchiavardaggio”, che consiste nell’inserire dei perni dopo aver
praticato dei fori nelle parti da unire (SCOTTI 1992, 66-67). Il Thiaucourt consiglia invece gomma
arabica e bianco di Spagna o polvere di alabastro; per l’incollaggio suggerisce la gomma lacca
sciolta in alcol e riscaldata sul fuoco, metodo utilizzato in certi ambienti fino a non molti anni fa.
È chiaro che prima dell’avvento delle resine sintetiche si avevano a disposizione solo resine
naturali o collanti animali, che venivano utilizzati anche mescolati agli integranti, che erano quasi
sempre a base di gesso. L’incollaggio poteva essere rafforzato anche con bende di stoffa; ad
esempio grosse bende di tela robusta aderivano mediante un collante al retro di una coppa
rinascimentale (FABBRI ET AL. 1993, 11).
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
Fig. 27a-d – Effetti della cristallizzazione dei sali solubili in una ceramica invetriata.
Fig. 28a-d – Prelievo di una forma ceramica mediante fasciatura con garze di cotone di uso medico.
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
Fig. 29a-d – Recupero di tre forme ceramiche sovrapposte mediante bende gessate del tipo usato in ortopedia.
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
Fig. 30 – Modello di scheda elaborata per il Dipartimento di Archeologia di Siena (elaborazione F. Cavari).
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
Fig. 32 – Integrazione delle lacune in un boccale Fig. 33a-b – Ricomposizione e integrazione pittorica delle lacune di un boccale di maiolica
di maiolica arcaica con materiale che si accorda arcaica con il metodo “puntinato”..
al colore dell’impasto ceramico.
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
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INTRODUZIONE ALLO STUDIO DELLA CERAMICA IN ARCHEOLOGIA
Fig. 36 –Restauro coevo di un catino di maiolica arcaica con il sistema della puntatura.
Fig. 37 – Sistema di restauro ancora in uso sul mercato antiquario mediante armatura di fili metallici.
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