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Ciro Manca, Introduzione alla storia dei sistemi economici in Europa dal feudalesimo al
capitalismo. Parte prima: gli strumenti dell’analisi
Premessa
Dal ripiegamento vissuto nei secoli prima del Mille, all’espansione dell’età moderna: fasi, cause e
conseguenze
Che confini proporre per l’Europa? Dove comincia e dove finisce, ma anche quali sono i tratti
caratterizzanti dell’Europa. In questo momento si sente tanto parlare della necessità che i paesi
europei sappiano difendere le loro radici culturali e religiosi, ma noi europei per secoli abbiamo
esportato le nostre strutture di potere e sociali, cancellando per sempre intere realtà socio-culturali.
Si pensi per un momento all’attuale società dei paesi del continente americano: credo si possa dire a
pieno titolo che essa, sia del nord quanto del sud, formi parte di un cultura “occidentale”. Fra
Buenos Aires, New York, Parigi o Berlino non ci sono delle grosse differenze: linguaggi comuni,
architettura simile, codici di comportamento condivisibili, sistemi economici uguali. Dunque, in
questo caso, il concetto di “occidentale” si è dilatato, non coincide più con i paesi europei. Ma credo
che se si togliesse la patina abbastanza superficiale che ricopre le città asiatiche e persino africane,
troveremmo anche qui caratteristiche parallele. Tokio, Pechino, … sono in realtà città che
rispondono a un codice puramente occidentale, soprattutto nei quartieri e nei settori che contano,
quelli politico-economici. Il resto ha poca importanza, roba da turisti alla caccia di cose esotiche.
Il ragionamento si potrebbe invertire dicendo che le nostre periferie assomigliano sempre di più a
quelle delle città meno sviluppate e questo produce inquietudine e paura.
In realtà, oggi, a organizzare il mondo non sono tanto i paesi dell’Europa occidentale, quanto un
sistema economico “occidentale” che finisce per non identificarsi con nessun ambito geografico
specifico, ma piuttosto con dei gruppi sociali e di potere dislocati un po’ ovunque. A fungere da
coagulante è il primato acquisito dal capitale finanziario e così noi sentiamo spesso parlare di Fondo
Monetario Internazionale, di Banca Mondiale, o di Banca Centrale Europea, di come questi centri di
potere impongano determinate politiche sociali ed economiche ai singoli paesi tenuti a entrare o dei
debiti contratti con gli stessi paesi che suggeriscono le misure da applicare.
Manca propone una definizione dell’Europa abbastanza limitata: quella romano-germanica
dell’impero carolingio. Per noi si tratta semplicemente di un punto di partenza molto lontano, ma
soprattutto rappresenta la necessità di prendere in considerazione la divisione dello “spazio
geografico” (capitolo terzo, p. 39). Le aree dopo sono soggette a subire dei cambiamenti in funzione
dei processi storici. Ad esempio, fino al 1492 la storia dei popoli precolombiani aveva una
dimensione ridotta, circoscritta ad uno specifico ambito territoriale molto ristretto: da un lato gli
“incas”, e da un’altra parte gli “aztechi”, che non comunicavano; all’arrivo degli europei questi
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territori diventano parte di un’economia mondiale a guida occidentale. Questo fatto, se da un lato
implica la fine di un’evoluzione autonoma, quella portata avanti dagli imperi precolombiani,
dall’altra obbliga a considerare l’evoluzione delle società europee anche nell’ottica del loro
successivo allargamento. Dal 1492 riflettere sull’Europa implica, di fatto, riflettere sulla
configurazione della società americana e sulle relazioni che gli europei stabiliscono con altri
continenti. Di questo parla Fernand Braudel (p. 40) quando cita e commenta un altro importante
storico: Wallerstein.
Una volta acquisita l’idea della relatività dello spazio, cioè di unità di analisi che possono essere più
o meno ampie, o più o meno collegate con altre unità (le famiglie, le aziende fondiarie, le città, le
imprese, gli stati, …) una questione non marginale è suggerire uno schema che sia in grado di
semplificare l’insieme delle relazioni. Da un lato l’esigenza di avere una visione ampia e elastica
dello spazio, dall’altra però la necessità di possedere degli strumenti d’analisi che sappiano
sintetizzare l’insieme di relazioni che si creano fra gli spazi. Uno degli autori che ha provato a
disegnare queste relazioni è appunto Wallerstein (“Il sistema mondiale dell’economia moderna”).
Egli parte dalla prima età moderna, più o meno il XVI secolo, e parla di un’economia-mondo divisa
in tre aree: il centro, la semiperiferia e la periferia. Questo autore colloca il centro nell’area europea
che va dall’Elba fino all’Oceano: da questo punto di vista si verifica una continuità con le tesi di
Bloch. Il secondo livello, la semiperiferia, è integrato da paesi in crisi: l’Italia, la Spagna, la
Polonia. Il terzo anello, la periferia, è composto dalle colonie.
Le tesi di Wallerstein hanno avuto un grande successo e hanno affascinato generazioni di storici:
era un modello perfetto, ideale, che consentiva pure di analizzare le radici storiche del colonialismo,
del rapporto squilibrato fra nord e sud, del dualismo fra paesi sviluppati e paesi non sviluppati. In
questo momento le tesi di Wallerstein sono meno seguite perché si è perso in larga parte il concetto
di centro economico: risulta più difficile indicare i limiti di questo centro economico, ma soprattutto
risulta più difficile identificare il centro economico con un’unica area geografica.
Se lo schema d’analisi da seguire è quello delle grandi unità spaziali (l’economia-mondo) questa
impostazione si scontra con l’idea dell’economia nazionale. Da un lato abbiamo gli stati così come
noi li conosciamo, ma dall’altro la certezza che “i rapporti di produzione sconfinano” e allora
l’unità dell’organizzazione economica si scompone e si ricompone. È un po’ quello che sta
succedendo con l’Unione Europea: i singoli paesi ormai appaiono inseriti in una struttura molto più
ampia che impone e detta le regole, non soltanto economiche ma anche politiche e giuridiche.
Questo può essere un bene o un male, ma una cosa certa è che per fare la storia economica
dell’Italia non basta più guardare al di qua dei confini nazionali i quali, soprattutto dal punto di vista
economico, sono stati in larga parte superati.
Il problema di armonizzare e integrare le singole aree in uno schema interpretativo unico, e
possibilmente coerente, è di grande attualità, dunque porsi la questione dell’unità spaziale di
riferimento non è così banale. Prima ci furono gli stati e si faceva storia economica dei singoli stati;
dopo arrivarono teorie come l’economia-mondo e l’unità di riferimento era l’intera Terra; più tardi
si è arrivati alle organizzazioni sovra-nazionali (UE), ma altri autori hanno ritenuto che l’unità
spaziale d’analisi da prendere in considerazione sono le regioni. Questo è il caso di Sidney Pollard
(La conquista pacifica: l’industrializzazione in Europa dal 1760 al 1970, 1988).
il periodo lungo, invece se uno vuole valutare gli effetti di una rivoluzione forse è meglio il periodo
breve, ma si tratta di scelte e divisioni molto relative. Il periodo breve ci aiuta a vedere le fratture, le
rotture, i tempi lunghi la continuità. Proviamo a fare due esempi.
Arno Mayer nel suo Il potere dell’ancien régime fino alla prima guerra mondiale sostiene che la
fine della società di antico regime si ha soltanto dopo il 1918, cioè non con la Rivoluzione Francese.
La sua tesi è che la società del XIX secolo è ancora una società che guarda indietro, è una società
tradizionale perché i cambiamenti economici legati alla rivoluzione industriale ancora non hanno
inciso in profondità. Si tratta di una tesi che ha generato un ampio dibattito perché in parte obbliga a
rivedere la capacità dell’industrializzazione in corso di modificar in poco tempo le precedenti
strutture sociali.
Un secondo testo che ha avuto un grande successo è Il secolo breve, 1914-1991 di Eric J.
Hobsbawm. In questo caso l’autore sceglie due date politiche: lo scoppio della prima guerra
mondiale e la caduta del muro di Berlino, fatti puntuali, quasi rivoluzionari, che determino l’inizio e
la fine di un periodo.
Le impostazioni sopradescritte sono entrambe valide e rispondo a due grandi storici che utilizzano
la periodizzazione, la cronologia, in funzione degli obiettivi da raggiungere: Mayer il tempo lungo
per verificare la continuità e i lenti cambiamenti, Hobsbawm un tempo più breve per rimarcare la
rottura in seguito a determinanti avvenimenti politici.
Adesso ogni autore è libero di scegliere la cronologia che vuole. Prima non era così perché
bisognava rimanere legati alla storia dei singoli paesi e dunque ogni paese imponeva la sua propria
cronologia. Si pensi al caso del libro di Cohen e Federico: il tema è lo sviluppo economico italiano
ma il loro ragionamento parte prima della nascita dell’Italia. Perché? Perché secondo questi autori
non è possibile capire quello che succede dopo il 1861 senza prendere in considerazione ciò che era
capitato prima. Anche qui prevale la visione della continuità.
Facciamo un altro esempio: Fourquin, Storia economica dell’Occidente medievale, che finisce con
una domanda: “Dal medioevo al rinascimento: continuità o rottura economica?”
Allora non vale più la scoperta dell’America per segnare il passaggio dal Medioevo all’Età
Moderna? Dipende, possiamo interpretare la cosiddetta scoperta in maniera individuale, fattuale, un
singolo evento, importante, o invece inserirlo in una visione più ampia, quella delle scoperte
geografiche che si succedono durante tutto il XV secolo. Quindi non un fatto isolato ma espressione
di un cambiamento generale, di un allargamento degli spazi economici. Non a caso alcuni autori
collocano l’inizio dell’età moderna un po’ prima, nel 1415, anno in cui i portoghesi conquistano
Ceuta, una piccola città nel nord d’Africa ma che segnerebbe l’inizio del colonialismo europeo e
della capacità degli europei di portare avanti una politica di conquista militare.
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A questo punto si potrebbe introdurre una divisione cronologica più legata alla storia economica
come quella che ad esempio utilizza Cipolla nel suo libro Storia economica dell’Europa pre-
industriale: in questo caso si fa una netta distinzione fra un periodo pre-industriale, e uno
industriale (adesso si parla anche di un’Europa post-industriale e questa sarebbe un terzo periodo).
Ma quando si fornisce una divisione cronologica in funzione della storia economica e si adoperano
termini come “industrializzazione” implicitamente stiamo sollevando un’altra questione ancora più
scivolosa: quella dello sviluppo, della crescita, di come si passa da una società tradizionale e
agricola a una società moderna, a una società industrializzata o dei servizi. Il quadro si complica se
si vuole disegnare un modello, un percorso che tutte le società devono seguire per raggiungere uno
stadio avanzato di sviluppo economico e sociale. Su questo ipotetico percorso evolutivo unilineare
le teorie sono tante.
Gli autori classici (Smith, Ricardo) parlavano di un’economia pastorale, agricola, industriale e
commerciale, ovvero economia naturale, monetaria e creditizia.
Per Marx, che continua ad avere una visione evolutiva unilineare, è la dinamica dei rapporti di
produzione a scandire i cambiamenti fra il sistema schiavistico, quello feudale e quello capitalista,
e, a fungere da collante fra questi sistemi, lunghi periodi di transizione. Il feudalesimo, secondo
Marx, sarebbe un’organizzazione sociale per l’uso, mentre il capitalismo sarebbe un’organizzazione
sociale per lo scambio. (uso = autoconsumo, scambio = economia di mercato)
Il nodo sta nella modalità dell’evoluzione e della trasformazione di un sistema per l’uso per la
formazione di una società per lo scambio.
Nella storia si sono succeduti quindi due grandi sistemi economici:
a) il feudalesimo inteso nel senso di un’organizzazione di produzione per l’uso (terra e lavoro
servile come elementi cardine). Si produce per consumare: sistema chiuso.
b) il capitalismo inteso nel senso di un’organizzazione per lo scambio (capitale e lavoro
salariato). Si produce per vendere: sistema aperto.
c) una complessa e lunga fase di transizione fra “a” e “b” che va dal XIII al XVIII secolo.
La lunga durata della fase di transizione determina che l’intera storia economica per il periodo
preindustriale di fatto abbia come obiettivo di studio la transizione fra due sistemi di durata molto
più limitata. Ma parlare di transizione implica affrontare una serie di quesiti divisi nel tempo e nello
spazio: forse sarebbe meglio parlare di transizioni. La fase di transizione così come viene indicata
possiede però la stessa importanza, forse ancora di più, dei due sistemi prima indicati.
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Uno degli autori che ha elaborato una visione evolutiva meno politica è Rostow (1916-2003):
americano anticomunista, economista e sociologo, partitario del capitalismo e del libero mercato.
Nel 1960 pubblica Stadi dello sviluppo economico (in Italia 1962) che rappresenta un modello
teorico sulla teoria dello sviluppo economico. Rostow ipotizza che il passaggio da società agrarie
tradizionali a società industriali si compie attraverso una serie di fasi o stadi; questi mutano da paese
a paese per quanto riguarda i tempi, ma sono ovunque indispensabili per arrivare
all’industrializzazione. Dunque Rostow sostiene che per raggiungere il livello più alto, quello dello
sviluppo e della modernizzazione, i paesi devono seguire cinque stadi:
Quella di Rostow è un’impostazione teorica che prende in considerazione soltanto la strada seguita
da alcuni paesi, quelli che hanno raggiunto l’industrializzazone e dunque la modernizzazione per
primi, ma che si può applicare in qualsiasi circostanza e a qualsiasi paese. Per questo autore fra
industrializzazione, sviluppo e modernizzazione esiste un profondo legame (non si può parlare di
modernizzazione senza sviluppo economico e per raggiungerlo bisogna utilizzare la leva
dell’industrializzazione). Nell’attualità questi tre elementi sono oggetto di un profondo
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ripensamento e alla base si colloca la domanda sul modello di sviluppo: dibattito sul protocollo di
Kioto, sullo sviluppo eco-sostenibile, sulle industrie per la produzione di energia alternativa. Il
limiti i tutti i modelli fino adesso visti è che forniscono un percorso evolutivo dinamico (fasi,
sistemi, stadi) per proporre alla fine un risultato finale statico e questa staticità finale non tiene
conto del carattere dinamico delle strutture sociali. Un altro elemento di fondo della tesi di Rostow
è che l’industrializzazione, e dunque lo sviluppo e la modernizzazione, scaturiscono dal gioco delle
forze interne: qualcosa di endogeno. Una spiegazione non rivoluzionaria che mira soprattutto a
valorizzare le risorse autoctone e richiamare il ruolo dei soggetti produttivi (imprenditori). È una
visione dello sviluppo non-comunista, e negli anni ’60 doveva servire da modello per i paesi in via
di sviluppo i quali non dovevano affidarsi alla via rivoluzionaria ma inseguire i processi di
trasformazione nati al proprio interno.
Leggendo Rostow si arriva ad un’altra questione: abbiamo visto come egli prova a disegnare il
percorso per passare da una società tradizionale ad un’altra sviluppata, identificabile con il consumo
di massa, ma per altri autori il vero nodo da sciogliere è quello di capire come i paesi riescano a
superare l’arretratezza economica. In questo caso l’autore più emblematico è Alexander
Gerschenkron (1904-1979) (Il problema storico dell’arretratezza economica, 1965). La tesi di
fondo è che ogni paese ha il suo proprio percorso verso lo sviluppo a seconda del livello iniziale di
“arretratezza”: la conclusione è che bisogna guardare ogni singola situazione. L’economista
statunitense di origine russa Gerschenkron dedicò una serie di studi economici ai paesi europei di
seconda industrializzazione – i late comers, cioè i “ritardatari” – tra cui l’Italia. Secondo
Gerschenkron, lo sviluppo dei paesi “arretrati”, cioè quelli che vengono dopo, si sarebbe basato su
alcuni importanti elementi, tra cui:
Ma Gerschenkron è famoso perché lanciò l’idea o teoria dei “vantaggi dell’arretratezza”: lo stato di
arretratezza per un paese non è un male assoluto, anzi si può dimostrare un vantaggio perché quello
che viene dopo può copiare quello che hanno fatto gli altri, migliorare innovando, agganciare il
paese più avanzato e persino superarlo. I paesi che socialmente ed economicamente arrivano per
primi allo stadio di sviluppo si dimostrano conservatori, fanno di tutto per difendere lo “status quo”,
non accettano con facilità i cambiamenti e ripiegano su posizioni di maggiore conservatorismo; i
paesi emergenti, molto più dinamici, si trovano nelle condizioni di imprimere una maggiore
accelerazione e di arrivare ad occupare la posizione di paesi leaders. Nasce un conflitto fra paesi
emergenti e paesi leaders che non vogliono perdere il primato.
Con la caduta dell’Unione Sovietica rimane soltanto un unico sistema economico, quello dei
paesi occidentali, che vedono però la veloce avanzata di altre aree geografiche (Asia, nord
d’Africa).
Dalla fine degli anni Sessanta in poi la storiografia dello sviluppo ha progressivamente abbandonato
alcuni dei presupposti tuttora presenti nel lavoro di Gerschenkron, cioè la nazione viene sostituita
dalla regione; non si condivide l’idea sull’esistenza di una discontinuità iniziale e di una causa
unica del processo di sviluppo di ciascun paese. L’idea di discontinuità è stata abbandonata
soprattutto perché non confermata dall’andamento delle serie storiche della contabilità nazionale dei
vari paesi. Gran parte di esse presenta infatti una progressiva accelerazione del ritmo di crescita
(segnata da ampie fluttuazioni cicliche) piuttosto che una discontinuità in un preciso momento del
tempo. Tale risultato non può considerarsi definitivo sia perché le serie stesse sono continuamente
soggette a revisione, sia perché i metodi statistici di analisi diventano sempre più sofisticati (serie
storica). Non si può quindi escludere l’esistenza di una discontinuità in uno o più casi: sembra però
da escludere che essa sia stata una caratteristica intrinseca di tutti i processi di sviluppo. A maggior
ragione va esclusa l’esistenza di una causa unica. Il cambiamento generale di prospettiva fu
stimolato da un più generale ripensamento della teoria economica dello sviluppo, a sua volta frutto
del fallimento pratico delle politiche degli anni Cinquanta o Sessanta. Queste accrebbero la
consapevolezza della complessità dei problemi, rafforzando una tendenza verso la specializzazione
insita nella crescita istituzionale della storia economica come disciplina e nel rafforzamento dei suoi
legami scientifici con l’economia. La ricerca si concentrò su singoli casi nazionali e, all’interno di
ciascuno, su singoli problemi (il commercio estero e lo sviluppo economico, il ruolo degli
intermediari finanziari nella raccolta di capitali per lo sviluppo ecc.). Da allora l’analisi si è avvalsa
di modelli economici sempre più complessi. I risultati conoscitivi a proposito di ciascun problema
sono stati notevoli, ma nel complesso non hanno portato a una nuova sintesi storiografica sul
processo di sviluppo in prospettiva storica comparata.
In breve, risulta una visione dinamica della storia: dagli elementi che compongono un qualsiasi
sistema economico (produzione, distribuzione, scambio, investimento e consumo), alla visione di
Adam Smith o di Rostow quando parla degli ‘stadi dello sviluppo’. Prevale un’impostazione di
lungo periodo (dalla società tradizionale alla società del consumo di massa, dal feudalismo al
capitalismo e da questo, secondo Marx, al socialismo, anche se questo ultimo passaggio non si è
verificato). Si potrebbe dire che siamo passati da economie nazionali a economie sopranazionali
(Unione Europea) per finire a parlare poi di globalizzazione: i “no global” prima erano di sinistra,
adesso è la destra a dire no alla globalizzazione.
popolazione genera ulteriori tensioni e problemi: guerra fra poveri, scontri razziali, …). Non c’è
dubbio che tutto questo dovrà costituire materiale di riflessione e a dover intervenire è la politica,
un’alta politica in grado di programmare e di agire, senza lasciare che le situazioni degenerino
ulteriormente per poi avere un guadagno forse in termini elettorali. Non bisognerebbe solo elencare
i problemi, ma sarebbe necessario anche indicare le soluzioni. Tutte queste riflessioni chiaramente
non compaiono nelle teorie precedenti alla caduta del muro di Berlino (1989): qualcuno ha perfino
detto che con la fine della contrapposizione è finita la storia. Prima c’erano degli obiettivi da
raggiungere in termine di cambiamento della società e l’analisi storica, in molte circostanze, si
faceva in funzione di questa impostazione ideologica; adesso il quadro di riferimento è
completamente cambiato e il futuro sembra essersi ridotto a un presente abbastanza asfittico. La
conseguenza è che bisogna ripensare il modo di fare storia ma soprattutto il modo di guardare
indietro, di porsi il problema dell’evoluzione.
Marx nel Capitale teorizza sull’esistenza di sistemi economici fondati sulla contrapposizioni di
classi sociali:
schiavi-patrizi nell’antichità,
servi-nobili nel medioevo,
proletari-borghesi nel capitalismo,
per finire pronosticando la fine del capitalismo e il trionfo di un sistema sociale senza
contrapposizioni. Con il senso del poi una simile visione si è dimostrata errata perché l’ultima fase
non si è realizzata, anzi sono crollati i regimi che in teoria difendevano tale modello. Marx parlava
delle contraddizioni del capitalismo e che in ragione di queste contraddizioni il capitalismo sarebbe
stato destinato a scomparire.Oggi noi sappiamo che le contraddizioni più pesanti furono quelle dei
paesi socialisti e che il capitalismo, pur fra tante tempeste e crisi, è solido e vegeto, anzi ha
dimostrato una notevole capacità di adattamento. Perché? Forse perché l’unico che ha teorizzato
sulle regole del capitalismo è stato proprio Marx, mentre i fautori del capitalismo non ne parlano,
semplicemente lo applicano.
Capitolo primo
Produzione = lavoro: il sistema economico appare come l’insieme dei rapporti sociali di produzione
(i rapporti tra le persone nel momento di produrre).
I fattori umani ed extraumani, le forze produttive, le istituzioni: “il sistema economico si configura
come una struttura organica d’istituzioni adeguate ai rapporti di produzione”. I rapporti di
produzione vengono codificati dal punto di vista istituzionale. Nel mondo feudale sono i legami
personali derivanti dal feudo, oggi abbiamo il codice civile, il codice di commercio, … i contratti, le
leggi che fissano i rapporti fra le persone che partecipano al processo produttivo.
Il ruolo del lavoro (Richard Cantillon, 1755): “la terra è la fonte o la materia donde si trae la
ricchezza”. Una visione non corrispondente alla realtà posteriore al XIX secolo quando con
l’industria, i servizi e i mercati finanziari cominciarono a svilupparsi altre fonti di ricchezza.
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La distribuzione
“La distribuzione consiste nella ripartizione del prodotto fra i produttori in ragione del contributo
dato”: ciascun individuo che partecipa alla produzione dei beni lo fa perché si aspetta di essere in
qualche modo remunerato.
Remunerazione dei fattori produttivi = reddito dei produttori (salario, rendita e profitto).
La distribuzione di tali redditi consente ai produttori di accedere al mercato e procurarsi tutto ciò
che essi non sono in grado di fabbricarsi da soli, come anche consente loro di fornire beni e servizi a
coloro che sono necessariamente esclusi della partecipazione diretta ai processi produttivi (bambini,
pensionati)
Si confronti le tesi di Adam Smith sulla nascita della proprietà privata e di come dalla produzione
del lavoratore deriva al rendita e il profitto.
La produzione: combinazione di lavoro (mezzi di produzione personali), terra (mezzi di produzione
originari) e capitale (mezzi di produzione derivanti). Uno dei principali problemi è trasferire questa
visione così rigida a sistemi economici sempre più complessi, dove a volte i confini e i ruoli non
sono così ben delimitati come in teoria fa intendere la classica divisione dei fattori di produzione.
Nelle complesse economie contemporanee il fattore terra è ormai trattato alla stregua di un bene
capitale e così la rendita tende a identificarsi col profitto e a diventare insieme a quest’ultimo
un’unica e più complessa forma di reddito.
Lo scambio
La specializzazione e la divisione sociale del lavoro porta allo scambio (“collegare più intimamente
produzione, distribuzione e consumo”). Quanto maggiore è il tasso di divisione del lavoro, in un
sistema economico, tanto maggiore è il livello e il volume degli scambi in esso presenti. E
l’autoconsumo? Tolte le forme sociali più primitive, forse non è esistito mai.
I beni oggetto di scambio prendono il nome di merci, mentre il luogo degli scambi prende il nome
di mercato.
L’investimento
Beni di consumo diretto (mezzi di sussistenza) e beni di consumo indiretto (da impiegare nel
processo produttivo).
La riproduzione del sistema può essere
Investimento, divisione del lavoro e produttività sono condizioni per lo sviluppo del sistema
economico.
Patrimonio monetario/moneta/denaro
Un primo problema: l’origine della ricchezza delle persone. Come si diventa ricchi?
Il denaro = quasi capitale / capitale potenziale (p. 64)
(può diventare capitale in funzione dell’uso, dell’impiego)
percorso A):
INVESTIMENTO (in che settore, quanto, come)
CAPITALE (industria e commercio)
PROFITTO (da trasformare in nuovo investimento, da utilizzare nel mondo dell’arte, della
beneficenza, …) - fattore di crescita, di sviluppo, di modernità: riproduzione allargata
Percorso B):
Spesa inutile, pietrificazione del denaro, parassitismo, spreco, consumo inutile, …
TERRA (agricoltura, edilizia, depositi bancari): le difficoltà sorgono nel momento in cui
collochiamo figura un po’ ibride, come ad esempio il proprietario di un vigneto che produce
del vino per l’esportazione: qui siamo in presenza di un imprenditore.
RENDITA (lusso, vantaggi per un piccolo settore della società come la nobiltà) -
riproduzione semplice.
Il percorso A è quello seguito dagli autori classici, da Marx o da Rostow: senza investimento
nell’industria o nel commercio non si può verificare la crescita e lo sviluppo. Quindi qualsiasi uso
denaro che non favorisca la formazione di capitale e di profitti non è opportuno, anzi è da
condannare. Una visione storica, ma anche culturale, che giudica in maniera negativa la rendita.
Il problema è che così non si ha una visione reale della ricchezza, e forse dell’intera società.
Capitolo secondo
Rappresentazione statica:
Lo status quo coincide con lo stato delle istituzioni in vigore nel sistema economico.
Da qui si potrebbe dedurre che uno dei principali ostacoli al cambiamento di un sistema economico
è proprio il quadro istituzionale: possiamo considerare le istituzioni come fattore di freno? Il ruolo
delle istituzioni nei momenti di cambiamento.
Equilibrio o squilibrio del sistema economico e rapporto fra lo stato delle istituzioni
e le forze produttive.
Visione statica quando istituzioni e rapporti di produzione si equivalgono (le prime rispecchiano in
maniera adeguate i secondi). Il problema sorge nel momento in cui le istituzioni e i rapporti di
produzione non coincidono: i rapporti cambiano più in fretta mentre le istituzioni si modificano
lentamente, nasce una distorsione che crea conflitto, uno squilibrio.
Ogni sistema economico è un’organizzazione sociale tipica del tempo e del luogo ai quali si
riferisce. La rappresentazione è necessariamente schematica, un’approssimazione, una valutazione
media. Aspetti comuni a tempi e luoghi diversi: il feudalesimo nell’Europa occidentale e nel
Giappone (elementi in comune per una rappresentazione statica).
Dinamismo dei sistemi che scaturisce dai ripetuti tentativi d’adattamento dell’organizzazione di
produzione alle esigenze che cambiano e si moltiplicano: di nuovo si pone la questione della
domanda, dei gusti, delle esigenze come fattore principale del cambiamento e del dinamismo.
Contesti istituzionali che favoriscono l’evoluzione nella domanda e quindi attivano un cambiamento
pure dal versante dell’offerta.
Un sistema economico si evolve, dunque, continuamente nel tempo e nello spazio, e questi processi
di evoluzione e di involuzione sono stati definiti “ciclo economico”, proprio a significare che
l’andamento dell’economia è quello di vedere i dati quantitativi di un sistema salire e scendere.
La fase della crisi è sempre apparsa come uno degli elementi essenziali di questo processo ciclico,
perché in essa sono presenti le ragioni che impediscono ad un sistema di espandersi in modo
continuo e senza interruzioni. La durata dei cicli: da 40-50 anni a 10 anni.
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Capitolo terzo
Capitolo quarto
Il modo di produzione
Capitolo quinto
In realtà anche questa è una distinzione un po’ superata perché la terra può diventare capitale.
Si potrebbe proporre una distinzione in base al diritto di proprietà dei fattori: “proprietà collettiva”
e “proprietà privata”.
1. Terra e capitale
La terra, forse meglio parlare adesso di suolo (proprietà del suolo, uso del suolo; suolo urbano e
rurale; suolo industriale): capitale originario.
Capitale: risultato della tecnologia, mezzi e metodi produttivi risultanti dall’ingegno umano e perciò
variabili.
2. Capitale e impresa
L’organizzazione come un quarto fattore indipendente della produzione: il ruolo degli imprenditori
che sono in grado di organizzare il lavoro degli altri. Capitalista / imprenditore
3. Capitale monetario
Mercante (capitalista monetario – titolare di moneta): utilizza la moneta per comperare merci già
finite e rivenderle. Ma non basta avere della moneta per diventare mercante.
Il capitalista si fa imprenditore acquistando mezzi di produzione e organizzandoli.
Il capitalista che cede beni capitali e ottiene una “quasi rendita”.
Il capitalista che finanzia (capitalista monetario): investimento in processi produttivi = profitti.
4. Capitale mercantile
Mercante: moneta – merce – moneta
Mercante-imprenditore: moneta – materie prime – merce – moneta (il mercante entra e organizza il
ciclo della produzione). Capitale monetario / capitale strumentale / capitale merce: il ciclo del
capitale
Il mercante: autonomo potere d’anticipazione, un patrimonio monetario destinato alla compera per
la vendita, una somma di denaro da convertire in merci e riconvertire in denaro (ricchezza mobile
chiamata capitale mercantile).
5. Il fattore lavoro
Il lavoro come merce?, come capitale? Mezzo di produzione originario?
Formazione e evoluzione del mercato del lavoro: il lavoratore, che vende o che affitta?: il tempo, la
forza fisica, le competenze tecniche.