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Orientamenti della giurisprudenza di legittimità in tema di responsabilità da reato

degli enti collettivi.

Premessa. L’elaborazione giurisprudenziale della normativa in materia di responsabilità da


reato degli enti collettivi presenta ancora un orizzonte limitato. E ciò innanzi tutto in ragione
della doverosa (trattandosi di diritto punitivo) configurazione dell’irretroattività delle nuove
disposizioni, che dunque si applicano esclusivamente agli illeciti consumati
successivamente all’entrata in vigore del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231.
Ma non può nascondersi che si sia registrato qualche ritardo nell’assimilazione della novità
legislativa e che certamente una sua più diffusa applicazione abbia incontrato un argine
nell’iniziale contenimento dei cataloghi dei reati che coinvolgono la responsabilità dei
soggetti collettivi, cataloghi ampliati nel tempo ed estesi fino a ricomprendere le lesioni e
gli omicidi colposi legati agli infortuni sul lavoro addirittura solo nel 2007.
Non deve sorprendere, dunque, che a tutt’oggi il numero delle pronunzie del giudice di
legittimità in questa materia sia assai contenuto. E se si escludono gli interventi sui profili di
natura squisitamente processuale, le decisioni assunte dalla Suprema Corte sulla
responsabilità da reato degli enti risultano addirittura meno di una decina.
Ne consegue che molti dei profili salienti della materia non sono stati ancora oggetto di
elaborazione in sede di legittimità, ma ciononostante la Corte ha avuto modo di intervenire
con tempestività su alcuni nodi fondamentali della nuova disciplina ed appare dunque
opportuno evidenziare gli approdi interpretativi raggiunti, soprattutto in ragione del fatto
che alcuni di essi si sono già rapidamente consolidati.

1. I profili di diritto sostanziale. Sul piano della componente sostanziale del d.lgs. n. 231
del 2001 è forse più evidente la natura frammentaria dell’attività di esegesi compiuta dai
giudici di legittimità.
Così, ad esempio, la Corte non si è occupata della natura e dell’effettivo profilo che devono
assumere i modelli organizzativi, alla cui adozione, a determinate condizioni e con diverse
sfumature, gli artt. 6 e 7 del decreto legislativo fanno seguire l’esenzione dell’ente da ogni
responsabilità (l’argomento è stato solo sfiorato da Sez. VI 23 giugno 2006 (dep. 2 ottobre
2006), n. 32627, La Fiorita soc. coop. a.r.l., rv 235638, la quale si è limitata ad affermare
come non sia consentito al giudice imporre l’adozione coattiva dei suddetti modelli all’ente
al momento della revoca delle misure cautelari interdittive precedentemente applicate al
medesimo.
Nè è ancora stato richiesto alla Suprema Corte di pronunziarsi direttamente sulla natura
della nuova forma di responsabilità, per stabilire se quello imputabile all’ente sia un vero e
proprio illecito penale o meno e, dunque, se agli enti debbano o meno essere estesi i principi
e le garanzie dettati in materia penale dalla Costituzione.
Sul punto si registrano solo affermazioni incidentali, il cui tenore contraddittorio rivela, in
realtà, come la Corte non abbia sostanzialmente ancora assunto una vera e propria posizione
in merito. Ad esempio, Sez. II 20 dicembre 2005 (dep. 30 gennaio 2006), n. 3615, D’Azzo
(non massimata sul punto), ipotizza in un passaggio della motivazione che la formale
qualificazione dell’illecito come “amministrativo” operata dal legislatore cerchi, in realtà, di
“dissimulare” la natura sostanzialmente penale della responsabilità dell’ente per non aprire
«delicati conflitti con i dogmi personalistici dell’imputazione criminale». Per converso nella
ricostruzione del sistema svolta di recente da Sez. Un. 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008),
n. 26654, Fisia Italimpianti s.p.a. (non massimata sul punto), la qualificazione formale
dell’illecito non viene messa in discussione e il medesimo approccio è stato seguito in
precedenza anche da Sez. VI 23 giugno 2006 (dep. 2 ottobre 2006), n. 32627, La Fiorita
soc. coop. a.r.l., cit. (non massimata sul punto), la quale, trattando della materia cautelare,
ha posto in evidenza l’autonomia strutturale della responsabilità dell’ente rispetto a quella
della persona fisica autrice del reato-presupposto. Nondimeno Sez. II 12 dicembre 2006
(dep. 31 gennaio 2007), n. 3629, Ideal Standard Italia s.r.l. (non massimata sul punto) ha
sottolineato come la scelta di rendere autonoma la responsabilità dell’ente rispetto a quella
dell’autore del reato-presupposto trova il suo fondamento proprio nell’intenzione di
legislatore « di salvaguardare il nuovo modello di responsabilità da censure di
incostituzionalità con riferimento al rispetto del principio di personalità della responsabilità
penale e della sanzione».
Né può ritenersi risolutiva sul punto la posizione assunta dalla Corte in merito
all’impossibilità di configurare la responsabilità degli enti collettivi per gli illeciti commessi
prima dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 231 del 2001, atteso che tale asserzione si fonda
espressamente sull’autonoma affermazione del principio di irretroattività da parte dell’art. 2
del decreto (in questo senso si vedano Sez. II 20 dicembre 2005, n. 3615 (dep. 30 gennaio
2006), D’Azzo, rv 232956; Sez. II 12 dicembre 2006 (dep. 31 gennaio 2007), n. 3629,
Ideal Standard Italia s.r.l., rv 235814; Sez. II 21 dicembre 2006 (dep. 10 gennaio 2007),
n. 316, Spera, rv 235363, le quali si sono tutte occupate di fattispecie ad oggetto il
sequestro preventivo del profitto di reati-presupposto consumati prima dell’entrata in vigore
del decreto legislativo).
La giurisprudenza di legittimità ha invece chiarito come la responsabilità da reato non
riguardi le imprese individuali, ma solamente gli enti collettivi (in questo senso Sez. VI 3
marzo 2004, n. 18941 (dep. 22 aprile 2004), p.m. in proc. Soc. Ribera, rv 228833) ed ha
provveduto a ricostruire il profilo strutturale dell’illecito di cui questi ultimi possono essere
chiamati a rispondere ai sensi del d. lgs. n. 231 del 2001.
In proposito Sez. VI 23 giugno 2006 (dep. 2 ottobre 2006), n. 32627, La Fiorita soc.
coop. a.r.l., rv 235637 ha confermato – in linea con l’orientamento della dottrina dominante
- come quella da cui scaturisce la responsabilità dell’ente sia una fattispecie complessa,
nella cui economia il fatto di reato costituisce un mero presupposto che non esaurisce
l’orizzonte degli elementi costitutivi dell’illecito, per la cui perfezione è ugualmente
necessario che lo stesso sia stato consumato nell’interesse o a vantaggio dell’ente e
commesso materialmente da un soggetto legato al medesimo da uno dei rapporti qualificati
tassativamente individuati dall’art. 5 del decreto (coerentemente con questa ricostruzione
dell’illecito, la sentenza La Fiorita ha dunque precisato come, per l’applicazione in sede
cautelare delle misure interdittive, sia necessario che il requisito di gravità indiziaria risulti
soddisfatto in relazione ad ognuno degli elementi sopra menzionati).
Affrontando specificamente il tema dei criteri di attribuzione della responsabilità all’ente,
Sez. II 20 dicembre 2005 (dep. 30 gennaio 2006), n. 3615, D’Azzo, rv 232957 ha avuto
modo di precisare come l’espressione normativa per cui l’ente risponde dei reati commessi
“nel suo interesse o a suo vantaggio” evochi concetti distinti. In proposito, i giudici di
legittimità hanno respinto la tesi formulata da parte della dottrina, secondo cui la formula
legislativa contenga una endiadi, dovendosi in realtà individuare nell’interesse dell’ente alla
consumazione del reato l’unico effettivo elemento oggettivo dell’illecito. Per converso, la
Corte ha evidenziato come quelli eletti dal secondo comma dell’art. 5 del d. lgs. n. 231 del
2001 ad esclusivi parametri di imputazione oggettiva dell’illecito siano presupposti
autonomi, potendosi ipotizzare un interesse dell’ente alla consumazione del reato incapace
di tradursi in un concreto vantaggio a posteriori, come anche il conseguimento di un
vantaggio non preventivato ex ante e prodotto da un reato la cui esecuzione non corrisponde
ad un riconoscibile interesse della persona giuridica o di altri.
Non è dubbio, peraltro, che sino ad ora il più rilevante contributo fornito dalla
giurisprudenza di legittimità all’elaborazione dei contenuti del d. lgs. n. 231 del 2001 abbia
riguardato la confisca del profitto del reato. Del resto, nella prassi da subito è emerso come
l’ablazione del vantaggio economico ricavato dall’ente dalla consumazione del reato
rappresenti il vero momento cruciale dell’applicazione del nuovo sistema punitivo, in
sintonia non solo con le intenzioni del legislatore nazionale, ma altresì con l’aspirazione
degli atti internazionali cui quest’ultimo ha dato attuazione di spostare con sempre maggior
decisione il contrasto alla criminalità economica sul piano dello spossessamento dei
proventi illeciti, ritenuta condizione necessaria per l’efficacia della risposta repressiva.
In tale ottica Sez. Un. 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654, Fisia Italimpianti
s.p.a., rv 239925 ha riconosciuto come il decreto legislativo abbia assegnato allo strumento
della confisca una natura polifunzionale, culminante nella configurazione della stessa negli
artt. 9 e 19 come vera e propria sanzione principale, obbligatoria ed autonoma, in grado di
esprimere nella maniera più efficace i contenuti punitivi del sistema. Ed in tal senso la Corte
ha altresì precisato come l’ablazione del profitto del reato prevista dall’art. 6, comma
quinto, del decreto come obbligatoria anche nel caso non venga riconosciuta la
responsabilità dell’ente, non può parimenti assumere carattere di sanzione, ma deve essere
invece qualificata come uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal
reato-presupposto in ragione del fatto che lo stesso ente ne ha comunque tratto vantaggio.
La sentenza Fisia Italimpianti ha poi evidenziato come l’altra ipotesi di confisca configurata
dal d. lgs. n. 231 del 2001 – e cioè quella relativa al profitto ricavato dall’ente in seguito alla
gestione commissariale di cui all’art. 15 del decreto – si differenzi a sua volta dalle due
precedenti, atteso che il suo oggetto non è il provento illecito del reato, bensì il frutto di
un’attività lecita (ed anzi addirittura autorizzata dal giudice) per di più svolta
successivamente alla consumazione dell’illecito. Per le Sezioni Unite la misura in questione
assume dunque evidente natura di sanzione sostitutiva, destinata a privare l’ente del profitto
generato dalla gestione commissariale sostituita dal giudice all’applicazione delle sanzioni
interdittive nei casi ammessi dal citato art. 15.
Ma la Corte si è soprattutto confrontata con la non agevole ricostruzione della nozione
evocata con l’utilizzazione del termine “profitto”.
In proposito Sez. VI 23 giugno 2006 (dep. 2 ottobre 2006), n. 32627, La Fiorita soc.
coop. a.r.l., rv 235636 ha innanzi tutto precisato come lo stesso termine sia stato utilizzato
dal legislatore in contesti diversi nell’ambito del sistema normativo tracciato dal d. lgs. n.
231 del 2001. In tal senso la nozione di “profitto di rilevante entità” impiegata nell’art. 13
del decreto legislativo e che l’ente deve aver conseguito perché risultino applicabili tanto in
via cautelare che definitiva le sanzioni interdittive, presenta per la Corte un contenuto più
ampio del profitto oggetto di confisca, comprendendo anche i vantaggi non immediati
comunque conseguiti dall’ente attraverso la realizzazione dell’illecito, non potendo invece
essere limitato al valore del contratto o del fatturato ottenuto a seguito della consumazione
del reato-presupposto.
Sez. VI 19 ottobre 2005 (dep. 7 dicembre 2005), n. 44992, Piccolo, rv 232623 ha altresì
precisato che il menzionato art. 13 richiede la certezza e la rilevanza del profitto, ma non la
sua esatta quantificazione, cosicchè la sua rilevante entità può essere legittimamente dedotta
dalla natura e dal volume dell’attività d’impresa, non occorrendo che i singoli introiti che
l’ente ha conseguito dall’attività illecita siano specificamente individuati (nel caso di specie
il profitto di rilevante entità era stato, ad esempio, dedotto dal giudice di merito, ai fini
dell’applicazione delle misure cautelari interdittive, dal fatto che l’ente risultasse essere
stato assegnatario di numerosi appalti pubblici grazie alla consumazione dei reati
contestati). Sez. II 20 dicembre 2005 (dep. 30 gennaio 2006), n. 3615, D’Azzo, rv
232958, ha chiarito che il conseguimento di un profitto di rilevante entità da parte dell’ente
– e dunque il perfezionamento del presupposto richiesto dall’art. 13 per l’applicazione delle
sanzioni interdittive – si realizza non appena si registra l’ingresso dei proventi illeciti nel
patrimonio dell’ente, risultando del tutto irrilevante l’eventuale strumentalità di tale ingresso
e che successivamente gli stessi vengano stornati in favore della persona fisica autrice
materiale del reato-presupposto.
Quanto alla nozione di profitto oggetto della confisca, sanzione principale, si registra invece
una recente e importante decisione della Corte a Sezioni Unite, con la quale sono stati fissati
alcuni fondamentali principi in materia di confisca di proventi illeciti.
Sul punto, infatti, Sez. Un. 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654, Fisia
Italimpianti s.p.a., rv 239924 ha respinto la tesi, di matrice dottrinale, per cui il profitto
dovrebbe identificarsi con l’utile netto ricavato dall’illecito, soprattutto quando la
consumazione di quest’ultimo risulti strumentale allo svolgimento di una lecita attività
d’impresa. In sostanza la Corte ha negato che nella determinazione del profitto confiscabile
possa farsi ricorso ai tipici criteri della contabilità aziendalistica, sottolineando come nella
lettera della legge non vi sia alcun appiglio che consenta di distinguere tra “profitto lordo” e
“profitto netto” e men che meno per legittimare lo scomputo dei costi sostenuti per la
consumazione dell’illecito.
In proposito i giudici di legittimità hanno anzi sottolineato come l’ispirazione del legislatore
vada ricercata nella normativa comunitaria di più recente elaborazione e nella sua evidente
intenzione di accogliere una nozione sempre più ampia di “provento illecito” destinato ad
essere sottratto al suo percettore.
Per la Corte, dunque, l’unico effettivo criterio di identificazione del profitto confiscabile è
quello tradizionale dell’accertamento del vincolo di pertinenzialità con l’illecito del bene
che si intende sottoporre alla misura ablativa, dovendosi per l’appunto individuare il profitto
in ogni vantaggio economico direttamente prodotto dal reato.
Solo sulla base di questa solida premessa è poi possibile, per le Sezioni Unite, distinguere
l’ipotesi dell’impresa illecita (dedita cioè esclusivamente alla commissione di reati) da
quella dell’impresa impegnata in attività del tutto lecite nel cui ambito occasionalmente
viene consumato il reato. Anche in quest’ultimo caso l’area del profitto rilevante deve
coincidere con quella dei vantaggi economici di diretta derivazione illecita, ma è possibile
scomputare il valore delle prestazioni lecite rese dall’ente in esecuzione di un contratto alla
cui stipulazione o svolgimento ha contribuito la consumazione del reato imputabile allo
stesso ente. Conclusione cui la Corte è giunta rilevando come altrimenti il contenuto
sanzionatorio della confisca verrebbe ingiustamente dilatato fino a ricomprendere anche
l’arricchimento conseguito non già dall’ente cui è attribuita la responsabilità dal reato, bensì
dal soggetto passivo dello stesso reato, controparte nel rapporto contrattuale menzionato.
Da ultimo Sez. VI 11 giugno 2008 (dep. 17 luglio 2008), n. 30001, Holiday Residence
s.r.l., rv 240168, ha invece precisato che, nel caso di cessione dell’azienda, i beni dell'ente
cessionario non possono essere sottoposti alla confisca per equivalente del profitto del reato
commesso in precedenza dagli amministratori dell'ente cedente, atteso che, ai sensi dell'art.
33 del d. lgs. n. 231 del 2001, l'ente cessionario risponde in solido con quello cedente
esclusivamente del pagamento della sanzione pecuniaria comminata per l'illecito a
quest'ultimo addebitabile. E non essendo applicabile la confisca-sanzione, ha concluso la
sentenza Holiday Residence, a maggior ragione non è possibile nel corso del procedimento
sottoporre i beni del cessionario al sequestro preventivo ai sensi dell’art. 53 del decreto
legislativo.

2. I profili di natura processuale. Sul versante processuale, il limitato numero di


procedimenti giudiziari in materia di responsabilità da reato degli enti collettivi e il ritardo
con cui gli stessi sono stati promossi hanno fatto sì che la giurisprudenza di legittimità si sia
occupata fino ad ora soprattutto delle norme che disciplinano l’applicazione delle misure
cautelari.
Sui profili generali posti dal d. lgs. n. 231 del 2001 in materia processuale la Corte è in
realtà intervenuta, fino ad ora, in una sola occasione, peraltro affrontando uno degli elementi
che più caratterizzano la procedura di accertamento della responsabilità amministrativa da
reato e cioè la disciplina della partecipazione dell’ente al procedimento. In proposito,
Sez. VI 5 novembre 2007 (dep. 23 novembre 2007), n. 43642, Quisqueyana s.p.a., rv
238322, ha ritenuto – in linea con le posizioni espresse dalla dottrina dominante – che
l’esercizio da parte di quest’ultimo dei diritti di difesa non è subordinato all’atto formale di
costituzione nel procedimento previsto dall’art. 39 del decreto legislativo, norma che detta
la modalità di intervento dell'ente nel procedimento e risulta funzionale ad individuare il
soggetto deputato a manifestare la volontà del soggetto collettivo, la cui disciplina non trova
alcuna applicazione al di fuori di tali limitate previsioni. Per la sentenza Quisqueyana,
dunque, la mancata formale costituzione dell’ente impedisce la sua completa partecipazione
al procedimento, nei limiti stabiliti dal d. lgs. n. 231 del 2001, e comporta nella fase
processuale che si proceda in sua contumacia, ma certo non congela i diritti di difesa, tanto
più quando questi possono essere esercitati anche dal difensore ai sensi del codice di rito, la
cui disciplina sul punto deve intendersi richiamata attraverso i meccanismi di etero
integrazione previsti dall’art. 34 del decreto legislativo.
Con riguardo alle misure cautelari, invece, già si è accennato come Sez. VI 23 giugno
2006 (dep. 2 ottobre 2006), n. 32627, La Fiorita soc. coop. a.r.l., rv 235637, abbia
precisato che i gravi indizi della sussistenza della responsabilità dell’ente richiesti dall’art.
45 del d. lgs. n. 231 del 2001 per legittimare l’applicazione in sede cautelare delle sanzioni
interdittive debbano essere riferiti ad ognuno degli elementi costitutivi della fattispecie da
cui la suddetta responsabilità scaturisce. La Corte ha voluto sottolineare soprattutto
l’autonomia della responsabilità amministrativa dell’ente rispetto alla responsabilità penale
della persona fisica autrice del reato-presupposto, autonomia che si riflette innanzi tutto
nella diversità strutturale degli illeciti di cui i due soggetti sono chiamati a rispondere. In tal
senso la stessa sentenza La Fiorita (rv 235639) ha ricordato come la motivazione del
provvedimento cautelare emesso nei confronti dell’ente non può limitarsi a mutuare per
relationem quella dell’ordinanza adottata nei confronti dell’autore del reato, se non che per
assolvere il relativo obbligo in relazione al comune presupposto della sussistenza dei gravi
indizi di quest’ultimo.
Circa l’altro requisito posto dalla norma da ultima menzionata – e cioè il fondato pericolo di
reiterazione dell’illecito – Sez. VI 23 giugno 2006 (dep. 2 ottobre 2006), n. 32626,
Duemila s.p.a., rv 235634, ha invece precisato come il suo accertamento – analogamente a
quanto richiesto dall’art. 274 lett. c) cod. proc. pen., per l’applicazione delle misure cautelari
personali nel procedimento penale - implichi un doppio ordine di valutazioni: uno di
carattere oggettivo, riferito alle modalità del fatto e alla sua gravità, tenuto conto degli stessi
elementi eletti dallo stesso art. 13 del decreto legislativo a presupposti di legittimazione
dell’intervento cautelare, e uno di carattere soggettivo, riferito alla “personalità” dell’ente,
desumibile dalla politica d’impresa attuata nel corso degli anni, dagli eventuali precedenti
da cui lo stesso risulta gravato e, soprattutto, dalla stato della sua organizzazione e cioè dalla
capacità dell’ente di agevolare o evitare la commissione di reati.
Quanto al tipo di sanzioni interdittive applicabili all’ente già in sede cautelare, Sez. II 26
febbraio 2007 (dep. 12 marzo 2007), n. 10500, D’Alessio, rv 235845, ha poi ricordato che
il giudice può selezionare soltanto quella irrogabili in via definitiva all’esito del processo in
relazione alla tipologia del reato-presupposto contestato (così è stata ritenuta illegittima
l’applicazione a titolo cautelare dell’interdizione dall’esercizio dell’attività, che non è
specificamente prevista dall’art. 24 del d. lgs. n. 231 del 2001 tra le sanzioni irrogabili in
relazione al reato di truffa aggravata, ipotizzato nel caso di specie).
Sui profili formali dell’ordinanza applicativa delle misure cautelari interdittive, l’unico
intervento della Corte riguarda fino ad ora l’omessa indicazione nel provvedimento del
nominativo del legale rappresentante dell’ente indagato, che Sez. VI 23 giugno 2006 (dep.
2 ottobre 2006), n. 32627, La Fiorita soc. coop. a.r.l., rv 235635, ha escluso dia luogo ad
una nullità, non prevista da alcuna disposizione del d. lgs. n. 231 del 2001 e nemmeno
mutuabile – attraverso il rinvio operato dall’art. 45, comma secondo, del decreto legislativo
– dall’art. 292 cod. proc. pen., giacchè quest’ultimo sanziona l’ordinanza cautelare priva dei
riferimenti sufficienti ad identificare il destinatario della misura, fattispecie che non ricorre
se il soggetto collettivo cui quest’ultima deve essere applicata risulta individuato anche solo
attraverso la sua denominazione.
Sul versante delle misure cautelari reali Sez. II 16 febbraio 2006 (dep. 22 marzo 2006),
n. 9829, p.m. in proc. Miritello, rv 233373 – ribadendo sostanzialmente i principi
consolidatisi nella giurisprudenza di legittimità con riferimento all’art. 321, comma
secondo, cod. proc. pen. – ha precisato che il sequestro preventivo dei beni costituenti il
profitto del reato, risultando il provvedimento strumentale all’obbligatoria confisca di tali
beni ai sensi dell’art. 19 del decreto legislativo, non richiede la sussistenza dei gravi indizi
dell’illecito, né la prova del periculum in mora, ma solo l’astratta sussumibilità del fatto in
una determinata ipotesi di reato. E sempre in tema di sequestro preventivo ex art. 53 del d.
lgs. n. 231 del 2001, Sez. II 25 maggio 2005 (dep. 20 giugno 2005), n. 23189, Zanettin, rv
232007, ha precisato che il relativo decreto non deve essere preceduto, a pena di nullità,
dall’informazione sul diritto di difesa prevista dall’art. 369-bis, cod. proc. pen., trattandosi
di atto a “sorpresa” per il quale non è previsto il previo avviso al difensore. In realtà la
sentenza Zanettin precisa anche che tale avviso sarebbe necessario qualora per l’adozione
della misura cautelare reale dovesse ricorrersi alla procedura in contraddittorio dettata
dall’art. 47 del decreto legislativo per l’applicazione delle misure interdittive. Ma la Corte
nega possa seguirsi tale impostazione, rilevando come invece dal tenore dell’art. 46 del d.
lgs. n. 231 del 2001 emerga implicitamente che tale procedura sia per l’appunto riservata
alle sole misure interdittive, evidenziando come il rinvio operato dall’art. 53 dello stesso
decreto agli artt. 321 e ss. del codice di rito ulteriormente dimostri l’autonomia della
disciplina dedicata a quelle reali. Conclusione che è stata successivamente ribadita da Sez.
Un. 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654, Fisia Italimpianti s.p.a., rv 239923,
che dall’affermata autonomia delle due procedure applicative ha fatto discendere il principio
per cui deve ritenersi sempre possibile la contestuale irrogazione di misure cautelari
interdittive e reali, rilevando come il divieto di cumulabilità delle misure cautelari contenuto
nel quarto comma del menzionato art. 46 del decreto, riguardi, per l’appunto,
esclusivamente le prime.
Con riguardo al regime delle impugnazioni dei provvedimenti cautelari emessi nei
confronti degli enti collettivi, sin dai suoi primi interventi la Corte ha affermato che nei
confronti delle ordinanze applicative delle misure cautelari è proponibile esclusivamente
l’appello ai sensi dell’art. 52 del d. lgs. n. 231 del 2001, rimanendo invece esclusa
l’ammissibilità del ricorso immediato in cassazione. In questo senso Sez. II 18 giugno 2004
(dep. 23 luglio 2004), n. 32382, p.m. in proc. Focus s.r.l., rv 229674 e Sez. VI 22
settembre 2004 (dep. 27 settembre 2004), n. 37985, Soc. Siemens, rv 228835, hanno
rilevato come lo stesso art. 52 citato contempli il ricorso al giudice di legittimità
esclusivamente avverso le ordinanze adottate dal tribunale decidendo l’appello presentato
avverso i provvedimenti cautelari, derogando alla disciplina codicistica dell’impugnazione
dei provvedimenti cautelari, talchè il richiamo, contenuto nello stesso art. 52, dell’art. 325
cod. proc. pen. deve essere inteso come rinvio alla sola disciplina delle modalità e degli
effetti del ricorso per cassazione dettata da quest’ultima disposizione nei commi terzo e
quarto. In proposito va altresì ricordato che Sez. II 20 dicembre 2005 (dep. 30 gennaio
2006), n. 3615, D’Azzo, cit. – non massimata sul punto – ha per altro verso sottolineato
come la giurisdizione del giudice di legittimità sull’ordinanza che ha deciso l’appello
presentato avverso il provvedimento cautelare, è limitata, per espressa volontà del
menzionato art. 52 del decreto legislativo, alla sola violazione di legge e non ricomprende
pertanto i vizi inerenti alla motivazione del provvedimento.
Sul rigetto dell’istanza di riesame presentata avverso il decreto di sequestro preventivo a fini
di confisca, Sez. Un. 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654, Fisia Italimpianti
s.p.a., rv 239922, ha ritenuto invece ammissibile il ricorso per cassazione ai sensi dell’art.
325 cod. proc. pen., non espressamente contemplato dall’ art. 53 d. lgs. n. 231 del 2001,
rilevando come per le misure cautelari reali, contrariamente a quanto previsto per l’appunto
per quelle interdittive, il legislatore non abbia dettato alcuna disciplina speciale,
consentendo dunque il rinvio a quella generale del codice di rito.
Infine, va ricordato che Sez. IV 5 febbraio 2008 (dep. 10 aprile 2008), n. 15157, La
Fiorita soc. coop. a.r.l., ha avuto modo di precisare che, in caso di commissariamento
dell’ente nella fase cautelare a norma dell’art. 45 d. lgs. n. 231 del 2001, l’acconto sul
compenso liquidato al commissario non può essere posto a carico dell’ente medesimo fino
alla sua eventuale definitiva condanna, dovendo la relativa spesa nel frattempo essere
anticipata dall’erario ai sensi dell’art. 4 d.P.R. n. 115 del 2002, norma che secondo la Corte
trova applicazione anche nel procedimento per l’accertamento della responsabilità
amministrativa da reato.
Cass. Sez. Un. 27 marzo 2008 (dep. 2 luglio 2008), n. 26654

Omissis

3- La questione centrale portata all’attenzione delle Sezioni Unite può essere così sintetizzata: come
debba configurarsi il “profitto del reato” nel sequestro preventivo funzionale alla confisca disposto,
ai sensi degli art. 19 e 53 d. lgs. 8/6/2001 n. 231, nei confronti di una società indagata per un
illecito amministrativo dipendente da reato.
4- Il d. lgs. 8/6/2001 n. 231 disciplina la responsabilità degli enti collettivi “per gli illeciti
amministrativi dipendenti da reato” e rappresenta l’epilogo di un lungo cammino volto a contrastare
il fenomeno della criminalità d’impresa, attraverso il superamento del principio, insito nella
tradizione giuridica nazionale, societas delinquere non potest e nella prospettiva di omogeneizzare
la normativa interna a quella internazionale di matrice prevalentemente anglosassone, ispirata al c.d.
pragmatismo giuridico.
La legge delega n. 300/2000, infatti, ha ratificato e dato attuazione alla Convenzione OCSE
17/12/1997 (sulla lotta contro la corruzione dei funzionari pubblici stranieri), che -all’art. 2-
obbligava gli Stati aderenti ad assumere “le misure necessarie [conformemente ai propri principi
giuridici] a stabilire la responsabilità delle persone morali” per i reati evocati nella stessa
Convenzione.
Questa, peraltro, non è l’unico strumento internazionale al quale si è ispirato il legislatore delegante
nel formulare il testo dell’art. 11 della citata legge n. 300. Egli ha ritenuto, al di là delle generiche
indicazioni offerte dalla Convenzione OCSE, di dovere dare attuazione al secondo protocollo della
Convenzione PIF, il cui art. 3 dettava, in tema di responsabilità degli enti, direttive più puntuali,
distinguendo due ipotesi, a seconda che il reato fosse stato commesso da soggetti in una posizione
dominante (basata sul potere di rappresentanza, sull’autorità di prendere decisioni, sull’esercizio del
controllo in seno alla persona giuridica) ovvero da soggetti in posizione subordinata (che, per
carenza di sorveglianza o controllo da parte dei soggetti apicali, avessero reso possibile la
perpetrazione del reato a beneficio della persona giuridica). L’art. 11 della legge delega, pur nel
recepimento delle indicazioni degli strumenti internazionali, ha dotato il nuovo illecito di un volto
dai contorni ancora più precisi, contemperando i profili di generalprevenzione, primario obiettivo
della responsabilità degli enti, con “le garanzie che ne devono rappresentare il necessario
contraltare”. Sulla stessa linea d’ispirazione si è mantenuto il legislatore delegato del decreto n.
231/’01.
Ne è risultata un’architettura normativa complessa che, per quanto farraginosa e -sotto alcuni
aspetti- problematica, evidenzia una fisionomia ben definita, con l’introduzione nel nostro
ordinamento di uno specifico ed innovativo sistema punitivo per gli enti collettivi, dotato di
apposite regole quanto alla struttura dell’illecito, all’apparato sanzionatorio, alla responsabilità
patrimoniale, alle vicende modificative dell’ente, al procedimento di cognizione e a quello di
esecuzione, il tutto finalizzato ad integrare un efficace strumento di controllo sociale. Una
innovazione legislativa particolarmente importante, dunque, che segna il superamento del principio
societas delinquere et puniri non potest.
Il sistema sanzionatorio proposto dal d. lgs. n. 231 fuoriesce dagli schemi tradizionali del diritto
penale -per così dire- “nucleare”, incentrati sulla distinzione tra pene e misure di sicurezza, tra pene
principali e pene accessorie, ed è rapportato alle nuove costanti criminologiche delineate nel citato
decreto. Il sistema è “sfaccettato”, legittima distinzioni soltanto sul piano contenutistico, nel senso
che rivela uno stretto rapporto funzionale tra la responsabilità accertata e la sanzione da applicare,
opera certamente sul piano della deterrenza e persegue una massiccia finalità specialpreventiva.
La tipologia delle sanzioni, come si chiarisce nella relazione al decreto, si presta ad una distinzione
binaria tra sanzione pecuniaria e sanzioni interdittive; al di fuori di tale perimetro, si collocano
inoltre la confisca e la pubblicazione della sentenza.
Il decreto legislativo riserva, poi, grande attenzione alle misure cautelari, che hanno una importanza
strategica per garantire l’effettività del sistema di responsabilità degli enti collettivi nella fase
strumentale del processo, momento particolarmente delicato e determinante per la stessa vita del
soggetto collettivo e per la tutela degli interessi pubblicistici che possono essere coinvolti.
Per quanto qui specificamente interessa, deve soffermarsi l’attenzione sulla misura cautelare reale
del sequestro preventivo, previsto e disciplinato dall’art. 53 in relazione all’art. 19 del d. lgs. n. 231,
in prospettiva della futura confisca, anche per equivalente, del profitto del reato.
Stante la stretta connessione tra la cautela reale e la confisca, è opportuna una breve analisi di
quest’ultimo istituto, per individuarne la collocazione e la natura che esso assume nell’ambito del
decreto legislativo; seguirà, quindi, l’approfondimento della nozione di “profitto”, punto focale
della questione controversa.
5- La confisca ha costantemente conservato, nell’ordinamento italiano, una natura “proteiforme”.
Nel codice Zanardelli del 1889, era elencata tra gli “effetti penali della condanna”, anche se erano
contemplate ipotesi in assenza di questa, che anticipavano in qualche maniera gli sviluppi della
disciplina dell’istituto.
Il codice Rocco ha catalogato la confisca di cui all’art. 240 c.p. tra le misure di sicurezza, pur
prescindendo dall’accertamento della pericolosità dell’autore del reato, come accade per
l’applicazione delle misure di sicurezza personali (l’art. 236 c.p., che disciplina le misure di
sicurezza patrimoniali, non richiama -infatti- l’art. 202 dello stesso codice).
La giurisprudenza ha sempre riconosciuto nella confisca disciplinata dal codice penale, in linea con
la scelta del legislatore, una effettiva misura di sicurezza patrimoniale, fondata sulla pericolosità
derivante dalla disponibilità di cose servite o destinate a commettere il reato ovvero delle cose che
ne sono il prodotto o il profitto e finalizzata a prevenire la commissione di ulteriori reati, anche se i
corrispondenti effetti ablativi si risolvono sostanzialmente in una sanzione pecuniaria (cfr. Cass.
S.U. 22/1/1983, Costa).
Successivamente sono state introdotte nell’ordinamento, in maniera sempre più esponenziale,
ipotesi di confisca obbligatoria dei beni strumentali alla consumazione del reato e del profitto
ricavato, le quali hanno posto in crisi le costruzioni dommatiche elaborate in passato e la
identificazione, attraverso il nomen iuris, di un istituto unitario, superando così i ristretti confini
tracciati dalla norma generale di cui all’art. 240 c.p. (si pensi esemplificativamente alla confisca di
cui agli art. 322ter, 600septies, 640quater, 644, 648quater c.p., 2641 c.c., 187 d. lgs. n. 58/’98,
44/2° dpr n. 380/’01).
A conferma della determinazione con cui il legislatore ha inteso e intende perseguire l’obiettivo di
privare l’autore del reato soprattutto del profitto che ne deriva, non va sottaciuta la progressiva
moltiplicazione delle ipotesi di confisca nella forma per equivalente, che va ad incidere cioè, di
fronte all’impossibilità di aggredire l’oggetto “principale”, su somme di denaro, beni o altre utilità
di pertinenza del condannato per un valore corrispondente a quello dello stesso profitto. L’obiettivo
perseguito, non più incentrato sull’equivoca pretesa della pericolosità delle cose, tende a superare la
rigida catalogazione codicistica dell’istituto. La confisca c.d. di valore è stata introdotta in molte
norme del codice penale (artt. 322ter, 600septies, 640quater, 644, 648quater) e in disposizioni
della legislazione speciale (artt. 187 T.U.F., 2641 c.c., 11 legge n. 146/’06).
Vi sono, poi, ipotesi di confisca c.d. “speciale”, come quella prevista dall’art. 12sexies della legge
n. 356/’92 (avente ad oggetto i valori di cui il condannato per determinati reati non è in grado di
giustificare la legittima provenienza e comunque sproporzionati rispetto alla capacità reddituale del
medesimo condannato) o quella prevista in materia di prevenzione dall’art. 2ter della legge n.
575/’65.
Sulla base della tracciata evoluzione normativa, appare assai arduo, oggi, catalogare l’istituto della
confisca nel rigido schema della misura di sicurezza, essendo agevole per esempio riconoscere, in
quella di valore, i tratti distintivi di una vera e propria sanzione e, in quella “speciale”, una natura
ambigua, sospesa tra funzione specialpreventiva e vero e proprio intento punitivo. Con il termine
“confisca”, in sostanza, al di là del mero aspetto nominalistico, si identificano misure ablative di
natura diversa, a seconda del contesto normativo in cui lo stesso termine viene utilizzato. D’altra
parte, la stessa Corte Costituzionale, sin dagli anni sessanta (cfr. sentenze 25/5/1961 n. 29 e
4/6/1964 n. 46), avvertiva che “la confisca può presentarsi, nelle leggi che la prevedono, con varia
natura giuridica” e che “il suo contenuto…è sempre la…privazione di beni economici, ma questa
può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varie finalità, sì da assumere, volta per volta,
natura e funzione di pena o di misura di sicurezza ovvero anche di misura giuridica civile e
amministrativa”, con l’effetto che viene in rilievo “non una astratta e generica figura di confisca,
ma, in concreto, la confisca così come risulta da una determinata legge”.
L’istituto della confisca previsto dal d. lgs. n. 231/’01 sulla responsabilità degli enti si connota in
maniera differenziata a seconda del concreto contesto in cui è chiamato ad operare.
L’art. 9/1° lett. c) prevede la confisca come sanzione, il cui contenuto e i cui presupposti applicativi
sono precisati nell’art. 19/1°, che testualmente recita: “Nei confronti dell’ente è sempre disposta,
con la sentenza di condanna, la confisca del prezzo o del profitto del reato, salvo che per la parte
che può essere restituita al danneggiato…”. Il secondo comma di quest’ultima disposizione
autorizza la confisca anche nella forma per equivalente, replicando lo schema normativo di
disposizioni già presenti nel codice penale o in leggi penali speciali. Chiara, quindi, la
configurazione della confisca come sanzione principale, obbligatoria e autonoma rispetto alle altre
pure previste nel decreto in esame.
L’art. 6/5° prevede, però, la confisca del profitto del reato, commesso da persone che rivestono
funzioni apicali, anche nell’ipotesi particolare in cui l’ente vada esente da responsabilità, per avere
validamente adottato e attuato i modelli organizzativi (compliance programs) previsti e disciplinati
dalla stessa norma.
In questa ipotesi, riesce difficile cogliere la natura sanzionatoria della misura ablativa, che si
differenzia strutturalmente da quella di cui all’art. 19, proprio perché difetta una responsabilità
dell’ente. Una parte della dottrina ha ritenuto di ravvisare in tale tipo di confisca una finalità
squisitamente preventiva, collegata alla pericolosità del profitto di provenienza criminale. Ritiene la
Corte che, in questo specifico caso, dovendosi -di norma- escludere un necessario profilo di
intrinseca pericolosità della res oggetto di espropriazione, la confisca assume più semplicemente la
fisionomia di uno strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato-presupposto,
i cui effetti, appunto economici, sono comunque andati a vantaggio dell’ente collettivo, che
finirebbe, in caso contrario, per conseguire (sia pure incolpevolmente) un profitto geneticamente
illecito. Ciò è tanto vero che, in relazione alla confisca di cui all’art. 6/5°, non può disporsi il
sequestro preventivo, considerato che a tale norma non fa riferimento l’art. 53 del decreto, che
richiama esclusivamente l’art. 19.
L’art. 15/4° prevede che, in caso di commissariamento dell’ente, “il profitto derivante dalla
prosecuzione dell’attività” debba essere confiscato. La nomina del commissario è disposta, in base
alla previsione della citata norma, dal giudice in sostituzione della sanzione interdittiva che
determinerebbe l’interruzione dell’attività dell’ente, con grave pregiudizio per la collettività
(interruzione di un servizio pubblico o di pubblica necessità) o per i livelli occupazionali (avuto
riguardo alle dimensioni dell’ente e alle condizioni economiche del territorio). In questo caso, la
confisca ha natura di sanzione sostitutiva e tanto emerge anche dalla Relazione allo schema del
decreto legislativo, nella quale si precisa che “è intimamente collegata alla natura comunque
sanzionatoria del provvedimento adottato dal giudice: la confisca del profitto serve proprio ad
enfatizzare questo aspetto, nel senso che la prosecuzione dell’attività è pur sempre legata alla
sostituzione di una sanzione, sì che l’ente non deve essere messo nelle condizioni di ricavare un
profitto dalla mancata interruzione di un’attività che, se non avesse avuto ad oggetto un pubblico
servizio, sarebbe stata interdetta”.
La confisca, infine, si atteggia nuovamente come sanzione principale nell’art. 23/2°, che configura
la responsabilità dell’ente per il delitto di cui al primo comma della stessa norma, commesso
nell’interesse o a vantaggio del medesimo ente.
6- Quanto al profitto, oggetto della misura ablativa, osserva la Corte che non è rinvenibile in alcuna
disposizione legislativa una definizione della relativa nozione né tanto meno una specificazione del
tipo di “profitto lordo” o “profitto netto”, concetti questi sui quali s’incentra la principale doglianza
delle società ricorrenti, ma il termine è utilizzato, nelle varie fattispecie in cui è inserito, in maniera
meramente enunciativa, assumendo quindi un’ampia “latitudine semantica” da colmare in via
interpretativa.
Nel linguaggio penalistico il termine ha assunto sempre un significato oggettivamente più ampio
rispetto a quello economico o aziendalistico, non è stato cioè mai inteso come espressione di una
grandezza residuale o come reddito di esercizio, determinato attraverso il confronto tra componenti
positive e negative del reddito.
In particolare, il profitto del reato a cui fa riferimento il primo comma dell’art. 240 c.p. va
identificato col vantaggio economico ricavato in via immediata e diretta dal reato e si contrappone
al “prodotto” e al “prezzo” del reato. Il prodotto è il risultato empirico dell’illecito, cioè le cose
create, trasformate, adulterate o acquisite mediante il reato; il prezzo va individuato nel compenso
dato o promesso ad una determinata persona, come corrispettivo dell’esecuzione dell’illecito.
Carattere onnicomprensivo si attribuisce -poi- alla locuzione “provento del reato”, che
ricomprenderebbe “tutto ciò che deriva dalla commissione del reato” e, quindi, le diverse nozioni di
“prodotto”, “profitto” e “prezzo” (S.U. 28/4/1999 n. 9, Bacherotti).
La nozione di profitto come “vantaggio economico” ritratto dal reato è tradizionalmente presente
nella giurisprudenza di questa Suprema Corte (cfr. S.U. 3/7/1996 n. 9149, Chabni; S.U. 24/5/2004
n. 29951, Curatela fall. in proc. Focarelli), che, però, ha avuto modo anche di precisare che
all’espressione non va attribuito il significato di “utile netto” o di “reddito”, ma quello di “beneficio
aggiunto di tipo patrimoniale”, a superamento quindi dell’ambiguità che il termine “vantaggio” può
ingenerare (cfr. S.U. 24/5/2004 n. 29952, Curatela fall. in proc. Romagnoli; sez. VI 6/5/2003 n.
26747, Liguori).
Altro principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità e che qui va ribadito è che il profitto
del reato presuppone l’accertamento della sua diretta derivazione causale dalla condotta dell’agente.
Il parametro della pertinenzialità al reato del profitto rappresenta l’effettivo criterio selettivo di ciò
che può essere confiscato a tale titolo: occorre cioè una correlazione diretta del profitto col reato e
una stretta affinità con l’oggetto di questo, escludendosi qualsiasi estensione indiscriminata o
dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale, che possa comunque scaturire, pur
in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito (cfr. le citate sentenze Focarelli e Romagnoli
delle S.U.; sez. II 14/6/2006 n. 31988, Chetta; sez. VI 4/11/2003 n. 46780, Falci).
A tale criterio di selezione s’ispira anche la recente pronuncia delle Sezioni Unite 25/10/2007 n.
10280 (ric. Miragliotta), che, con riferimento alla confisca-misura di sicurezza del profitto della
concussione, ha privilegiato -è vero- una nozione di profitto in senso “estensivo”, ricomprendendovi
anche il bene acquistato col denaro illecitamente conseguito attraverso il reato, ma ha sottolineato
che tale reimpiego è comunque casualmente ricollegabile al reato e al profitto “immediato” dello
stesso. Si ribadisce in tale decisione, quindi, la necessità di un rapporto diretto tra profitto e reato, si
nega, però, che l’autore di quest’ultimo possa sottrarre il profitto alla misura ablativa ricorrendo
all’escamotage di trasformare l’identità storica del medesimo profitto, che rimane comunque
individuabile nel frutto del reimpiego, anch’esso causalmente ricollegabile in modo univoco, sulla
base di chiari elementi indiziari evincibili dalla concreta fattispecie, all’attività criminosa posta in
essere dall’agente.
6a- La validità di tale approdo interpretativo, maturato nell’ambito della previsione di cui all’art.
240 c.p. e riferito al profitto tratto da condotte totalmente illecite, va verificata anche in relazione
alle previsioni di cui al d. lgs. n. 231/’01.
Il termine “profitto” è menzionato in diverse disposizioni del decreto, che disciplinano situazioni
eterogenee.
Il profitto del reato è, innanzi tutto, come si è detto, l’oggetto della confisca-sanzione di cui agli art.
9, 19 e 23, nonché di quella, diversa sotto il profilo classificatorio, di cui all’ultimo comma dell’art.
6.
Il profitto è oggetto di confisca anche ai sensi dell’art. 15/4°, ma in questo caso non si tratta del
profitto ricavato dal reato, bensì di quello conseguito dalla gestione commissariale disposta in
sostituzione delle sanzioni o delle misure cautelari interdittive.
L’art. 13 /1° lett. a) individua nel “profitto di rilevante entità” la condizione, alternativa alla
recidiva, per l’applicazione nei confronti dell’ente delle sanzioni interdittive ed analoga previsione è
contenuta nel primo comma dell’art. 16 per l’applicazione delle medesime sanzioni in via
definitiva.
Alla messa a disposizione del “profitto conseguito ai fini della confisca” fa riferimento l’art. 17 lett.
c) quale oggetto di una delle condotte “riparatorie” che l’ente deve porre in essere, prima della
dichiarazione di apertura del dibattimento, per evitare l’applicazione delle sanzioni interdittive.
Negli art. 24/2°, 25/3°, 25ter/2° e 25sexies/2°, infine, il conseguimento di un profitto di rilevante
entità integra una circostanza aggravante degli illeciti connessi ai reati-presupposto rispettivamente
contemplati da dette norme.
Pur in assenza, anche nel sistema delineato dal d. lgs. n. 231/’01, di una definizione della nozione di
profitto, è indubbio che questa assume significati diversi in relazione ai differenti contesti normativi
in cui è inserita.
Il profitto di rilevante entità richiamato nell’art. 13 (ma anche negli art. 16, 24/2°, 25/3°, 25ter/2°,
25sexies/2°), che ha tradotto il criterio di delega (“casi di particolare gravità”) contenuto nella
direttiva di cui all’art. 11 lett. L) della legge 29/9/2000 n. 300, evoca un concetto di profitto
“dinamico”, che è rapportato alla natura e al volume dell’attività d’impresa e ricomprende vantaggi
economici anche non immediati (cfr. Cass. sez. VI 23/6/2006 n. 32627, La Fiorita) ma, per così
dire, di prospettiva in relazione alla posizione di privilegio che l’ente collettivo può acquisire sul
mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi apicali o da persone
sottoposte alla direzione o alla vigilanza di questi.
Per quanto qui interessa, deve, invece, farsi riferimento al profitto collegato alle ipotesi di confisca
di cui agli art. 6, 15, 17 e 19, che si preoccupano di assicurare allo Stato quanto conseguito in
concreto dall’ente, sia pure in situazioni diverse, per effetto della commissione dei reati-
presupposto.
La ratio sottesa a queste ultime norme, ad eccezione -come si dirà- dell’art. 15, e alcuni passaggi
della Relazione allo schema del decreto legislativo additano all’interprete, per l’individuazione
dell’oggetto della confisca e della cautela reale ad essa funzionale (ove prevista), sempre la
pertinenzialità del profitto al reato quale unico criterio selettivo, essendo il primo definito “come
una conseguenza economica immediata ricavata dal fatto di reato”.
Interessante è il passaggio della Relazione che chiarisce il disegno sotteso alle condotte riparatorie
di cui all’art. 17 e il ruolo svolto in tale contesto dalla messa a disposizione del profitto da parte
dell’ente. Si legge testualmente: “come terzo concorrente requisito, si prevede che l’ente metta a
disposizione il profitto conseguito. La ratio della disposizione è trasparente: visto che il profitto
costituisce, di regola, il movente che ispira la consumazione dei reati, l’inapplicabilità della
sanzione interdittiva postula inevitabilmente che si rinunci ad esso e lo si metta a disposizione
dell’autorità procedente…In definitiva le contro-azioni di natura reintegrativa, riparatoria e
riorganizzativa sono orientate alla tutela degli interessi offesi dall’illecito e, pertanto, la
rielaborazione del conflitto sociale sotteso all’illecito e al reato avviene non solo attraverso una
logica di stampo repressivo ma anche, e soprattutto, con la valorizzazione di modelli compensativi
dell’offesa”. L’esplicito riferimento alla natura “compensativa” delle condotte riparatorie accredita,
al di là di ogni ambiguità, una funzione della confisca del profitto come strumento di riequilibrio
dello status quo economico antecedente alla consumazione del reato, il che contrasta con la tesi del
profitto quale “utile netto”.
Nella parte della Relazione dedicata alla confisca di valore si legge: “la confisca <per equivalente>,
già conosciuta nel nostro ordinamento, ha invece ad oggetto somme di denaro, beni o altra utilità di
valore equivalente al prezzo o al profitto del reato. Essa opera, ovviamente, quando non è possibile
l’apprensione del prezzo o del profitto con le forme della confisca tradizionale e permette così di
evitare che l’ente riesca comunque a godere illegittimamente dei proventi del reato ormai
indisponibili per un’apprensione con le forme della confisca ordinaria”. L’esplicito riferimento alla
necessità di evitare l’illegittimo godimento da parte dell’ente dei “proventi del reato” induce a
ritenere che con tale espressione si sia inteso evocare quanto complessivamente percepito dall’ente
in seguito alla consumazione del reato, prescindendo da qualunque raffronto tra profitto lordo e
profitto netto.
La sentenza della Sesta Sezione penale 23/6/2006 n. 32627 (ric. La Fiorita), sulla quale i ricorsi
fanno leva, non si è posta il problema, perché estraneo alla sua indagine, di definire la nozione di
profitto oggetto di confisca, ma ha evocato tale nozione solo incidentalmente e, peraltro, in maniera
perplessa, nell’economia di un discorso giustificativo attinente al diverso problema
dell’applicazione delle misure interdittive, sicché non offre alcun argomento idoneo a contrastare la
tesi qui seguita.
Anche gli Atti internazionali ai quali la legge delega n. 300 del 2000 ha inteso dare esecuzione
(Convenzione 26/7/1995 sulla tutela degli interessi finanziari delle Comunità europee e relativi
protocolli; Convenzione 26/5/1997 relativa alla lotta contro la corruzione; Convenzione OCSE
17/12/1997) impegnano gli Stati aderenti ad adottare misure idonee alla confisca o comunque alla
“sottrazione” dei “proventi” dei reati di cui si occupano.
Il termine ”proventi” è, nella versione italiana delle menzionate Convenzioni, la traduzione del
corrispondente termine “proceeds” utilizzato nel testo ufficiale inglese delle medesime. Nel
Rapporto esplicativo alla Convenzione OCSE, però, si precisa che con quest’ultimo termine devono
intendersi “i profitti o gli altri benefici derivanti al corruttore dalla transazione o gli altri vantaggi
ottenuti o mantenuti attraverso la corruzione”; tale precisazione chiarisce, in definitiva, che con il
termine “proventi” (proceeds) si sono voluti indicare tutti i vantaggi ricavati dalla commissione dei
reati.
Sulla stessa linea è anche la più recente decisione quadro 24/2/2005 relativa alla confisca di beni,
strumenti e proventi di reato (2005/212/GAI). Con legge 25/2/2008 n. 34, si è conferita delega al
Governo per l’attuazione della decisione quadro della U.E. e l’art. 31, primo comma lett. b) n. 1,
chiarisce che per “proventi del reato” dovranno intendersi il prodotto e il prezzo del reato, nonché il
“profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato” o il suo impiego; la stessa disposizione,
al n. 3, impone la previsione della confisca per equivalente dei beni costituenti il prodotto, il prezzo
o il profitto del reato; la lett. f) del primo comma dell’art. 31, infine, delega il Governo ad adeguare
anche le disposizioni del d. lgs. n. 231/’01 alle medesime direttive.
E’ agevole rilevare che il legislatore, ancora una volta, nel disciplinare la confisca del profitto del
reato, non opera alcuna distinzione fondata sul margine di guadagno “netto” tratto dal reato e, anzi,
nel menzionare specificamente il “profitto indiretto”, dà rilievo, ai fini dell’applicazione della
misura ablativa, anche ai vantaggi indotti dal profitto direttamente acquisito per effetto della
consumazione dell’illecito.
La strategia internazionale, quindi, in maniera sempre più esponenziale, affida alla confisca dei
“proventi del reato”, intesi in senso sempre più ampio e onnicomprensivo, il ruolo di contrasto alla
criminalità economica e a quella organizzata e, a tal fine, elabora strumenti funzionali alla
promozione dell’armonizzazione delle legislazioni nazionali in materia. La citata legge delega n.
34/2008 si muove proprio in questa direzione.
La Repubblica Federale Tedesca, per esempio, sin dal 1992, a superamento di ogni incertezza
interpretativa, ha adottato una normativa interna che orienta chiaramente la misura ablativa verso il
“profitto lordo” tratto dall’attività illecita (il termine usato è etwas, che significa “qualsiasi cosa”
conseguita attraverso il reato).
La vigente normativa italiana, invece, utilizzando un lessico che sotto il profilo semantico lascia
ampi spazi, affida all’interprete il compito d’individuare, nell’ambito del complessivo sistema, il
contenuto e la portata dell’oggetto della confisca.
Il profitto del reato, in definitiva, va inteso come complesso dei vantaggi economici tratti
dall’illecito e a questo strettamente pertinenti, dovendosi escludere, per dare concreto significato
operativo a tale nozione, l’utilizzazione di parametri valutativi di tipo aziendalistico.
La confisca del profitto di cui all’art. 19 d. lgs. n. 231/’01, concepita come misura afflittiva che
assolve anche una funzione di deterrenza, risponde sicuramente ad esigenze di giustizia e, al
contempo, di prevenzione generale e speciale, generalmente condivise. Il crimine non rappresenta
in alcun ordinamento un legittimo titolo di acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e il
reo non può, quindi, rifarsi dei costi affrontati per la realizzazione del reato. Il diverso criterio del
“profitto netto” finirebbe per riversare sullo Stato, come incisivamente è stato osservato, il rischio di
esito negativo del reato ed il reo e, per lui, l’ente di riferimento si sottrarrebbero a qualunque rischio
di perdita economica.
Soltanto nell’ipotesi di confisca del profitto della gestione commissariale di cui all’art. 15 d. lgs. n.
231/’01, misura concepita come sanzione sostitutiva, il profitto s’identifica con l’utile netto,
conclusione -questa- legittimata dalla lettura combinata della citata norma e di quella di cui al
successivo art. 79/2°. In questo caso la confisca, come si è sopra precisato, ha una funzione diversa,
essendo collegata ad un’attività lecita che viene proseguita -sotto il controllo del giudice- da un
commissario giudiziale nell’interesse della collettività (garantire un servizio pubblico o di pubblica
necessità ovvero i livelli occupazionali) e non può che avere ad oggetto, proprio per il venire meno
di ogni nesso causale con l’illecito, la grandezza contabile residuale, da assicurare comunque alla
sfera statuale, non potendo l’ente beneficiare degli esiti di un’attività dalla quale, in luogo
dell’applicazione della corrispondente sanzione interdittiva, è stato estromesso.
Né può farsi leva su quest’ultima disposizione, per accreditare la tesi -sostenuta nei ricorsi- che il
profitto del reato tratto dall’ente collettivo debba sempre essere inteso come “utile netto”, e ciò sulla
base del rilievo della sostanziale coincidenza tra l’attività proseguita sotto la gestione commissariale
e quella oggetto di incriminazione. Si omette, invero, di considerare che l’intervento del
commissario giudiziale determina una netta cesura della pregressa attività illecita e non si pone in
continuità con questa. Significativamente, peraltro, il quarto comma dell’art. 15 citato si riferisce al
“profitto derivante dalla prosecuzione dell’attività” e non al “profitto derivante dal reato”.
Le stesse ragioni inducono a ritenere priva di consistenza l’ulteriore argomentazione dei ricorrenti,
con riferimento specifico al caso in esame, circa la prosecuzione del servizio di smaltimento dei
rifiuti nella regione Campania sotto la direzione e il coordinamento esclusivi del Commissario
delegato, dopo la risoluzione dei contratti d’appalto disposta con d.l. n. 245/’05 convertito nella
legge n. 21/’06, per inferirne che proprio la prosecuzione dell’attività in tutto omogenea a quella
oggetto dei contratti di appalto stipulati con l’ATI confermerebbe che i corrispondenti profitti non
possono che essere calcolati, nell’uno e nell’altro caso, sulla base del principio economico-
contabile.
6b- La delineata nozione di profitto del reato s’inserisce -certo- validamente, senza alcuna
possibilità di letture più restrittive, nello scenario di un’attività totalmente illecita.
Può anche accadere, però, di dovere distinguere da quest’ultima, specialmente nel settore della
responsabilità degli enti coinvolti in un rapporto di natura sinallagmatica, l’attività lecita d’impresa
nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il reato.
E’ di agevole intuizione, infatti, la diversità strutturale tra l’impresa criminale -la cui attività
economica si polarizza esclusivamente sul crimine (si pensi ad una società che opera nel solo
traffico di droga)- e quella che opera lecitamente e soltanto in via episodica deborda nella
commissione di un delitto.
Deve, inoltre, considerarsi che un comportamento sanzionato penalmente, dal quale derivi
l’instaurazione di un rapporto contrattuale, può avere riflessi diversi sul medesimo.
Più nel dettaglio, nel caso in cui la legge qualifica come reato unicamente la stipula di un contratto a
prescindere dalla sua esecuzione, è evidente che si determina una immedesimazione del reato col
negozio giuridico (c.d. “reato contratto”) e quest’ultimo risulta integralmente contaminato da
illiceità, con l’effetto che il relativo profitto è conseguenza immediata e diretta della medesima ed è,
pertanto, assoggettabile a confisca.
Se invece il comportamento penalmente rilevante non coincide con la stipulazione del contratto in
sé, ma va ad incidere unicamente sulla fase di formazione della volontà contrattuale o su quella di
esecuzione del programma negoziale (c.d. “reato in contratto”), è possibile enucleare aspetti leciti
del relativo rapporto, perché assolutamente lecito e valido inter partes è il contratto (eventualmente
solo annullabile ex artt. 1418 e 1439 c.c.), con la conseguenza che il corrispondente profitto tratto
dall’agente ben può essere non ricollegabile direttamente alla condotta sanzionata penalmente.
E’ il caso proprio del reato di truffa di cui si discute, che non integra un “reato contratto”,
considerato che il legislatore penale non stigmatizza la stipulazione contrattuale, ma esclusivamente
il comportamento tenuto, nel corso delle trattative o della fase esecutiva, da una parte in danno
dell’altra. Trattasi, quindi, di un “reato in contratto” e, in questa ipotesi, il soggetto danneggiato, in
base alla disciplina generale del codice civile, può mantenere in vita il contratto, ove questo, per
scelta di carattere soggettivo o personale, sia a lui in qualche modo favorevole e ne tragga
comunque un utile, che va ad incidere inevitabilmente sull’entità del profitto illecito tratto
dall’autore del reato e quindi dall’ente di riferimento.
Sussistono, perciò, ipotesi in cui l’applicazione del principio relativo all’individuazione del profitto
del reato, così come illustrato al punto che precede, può subire, per così dire, una deroga o un
ridimensionamento, nel senso che deve essere rapportata e adeguata alla concreta situazione che
viene in considerazione.
Ciò è evidente, in particolare, come si è detto, nell’attività d’impresa impegnata nella dinamica di
un rapporto contrattuale a prestazioni corrispettive, in cui può essere difficile individuare e
distinguere gli investimenti leciti da quelli illeciti.
V’è, quindi, l’esigenza di differenziare, sulla base di specifici e puntuali accertamenti, il vantaggio
economico derivante direttamente dal reato (profitto confiscabile) e il corrispettivo incamerato per
una prestazione lecita eseguita in favore della controparte, pur nell’ambito di un affare che trova la
sua genesi nell’illecito (profitto non confiscabile).
S’impone, pertanto, la scelta di sottrarre alla confisca quest’ultimo corrispettivo che, essendo
estraneo all’attività criminosa a monte, è distonico rispetto ad essa.
In sostanza, non può sottacersi che la genesi illecita di un rapporto giuridico, che comporta obblighi
sinallagmatici destinati anche a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota di illiceità l’intera
fase evolutiva del rapporto, dalla quale, invece, possono emergere spazi assolutamente leciti ed
estranei all’attività criminosa nella quale sono rimasti coinvolti determinati soggetti e, per essi,
l’ente collettivo di riferimento.
Più concretamente, in un appalto pubblico di opere e di servizi, pur acquisito a seguito di
aggiudicazione inquinata da illiceità (nella specie truffa), l’appaltatore che, nel dare esecuzione agli
obblighi contrattuali comunque assunti, adempie sia pure in parte, ha diritto al relativo corrispettivo,
che non può considerarsi profitto del reato, in quanto l’iniziativa lecitamente assunta interrompe
qualsiasi collegamento causale con la condotta illecita. Il corrispettivo di una prestazione
regolarmente eseguita dall’obbligato ed accettata dalla controparte, che ne trae comunque una
concreta utilitas, non può costituire una componente del profitto da reato, perché trova titolo
legittimo nella fisiologica dinamica contrattuale e non può ritenersi sine causa o sine iure.
D’altra parte, non va sottaciuto che, in base alla previsione di cui all’art. 19 del d. lgs. n. 231/’01, la
confisca del profitto del reato non va disposta per quella “parte che può essere restituita al
danneggiato”. Costui quindi ha diritto di riottenere, fatte salve le ulteriori pretese risarcitorie, ciò di
cui è stato privato per effetto dell’illecito penale subito. Nella peculiarità che caratterizza il rapporto
sinallagmatico, si verifica una situazione speculare alla citata previsione normativa, nel senso che la
parte di utilità eventualmente conseguita ed accettata dalla vittima va inevitabilmente ad incidere,
per l’equivalenza oggettiva delle prestazioni, sulla destinazione da riservare al relativo corrispettivo
versato alla controparte, la quale, proprio per avere fornito una prestazione lecita pur nell’ambito di
un affare illecito, non ha conseguito, in relazione alla medesima, alcuna iniusta locupletatio, con la
conseguenza che anche in questo caso deve essere sottratta alla confisca (e quindi alla cautela reale)
la controprestazione ricevuta, perché non costituente profitto illecito.
Diversamente opinando, vi sarebbe un’irragionevole duplicazione del sacrificio economico imposto
al soggetto coinvolto nell’illecito penale, che si vedrebbe privato sia della prestazione
legittimamente eseguita e comunque accettata dalla controparte, sia del giusto corrispettivo
ricevuto, dal che peraltro conseguirebbe, ove la controparte fosse l’Amministrazione statale, un
ingiustificato arricchimento di questa.
7- Alla luce di tutte le argomentazioni sin qui svolte, deve essere enunciato, ai sensi dell’art. 173/3°
disp. att. c.p.p., il seguente principio di diritto: “il profitto del reato nel sequestro preventivo
funzionale alla confisca, disposto -ai sensi degli art. 19 e 53 del d. lgs. n. 231/’01- nei confronti
dell’ente collettivo, è costituito dal vantaggio economico di diretta e immediata derivazione causale
dal reato ed è concretamente determinato al netto dell’effettiva utilità eventualmente conseguita dal
danneggiato, nell’ambito del rapporto sinallagmatico con l’ente”.
8- Altra doglianza articolata nei ricorsi concerne la mancata imputazione, nel provvedimento di
cautela reale, ad ognuno degli enti coinvolti nella vicenda della sola porzione di profitto a ciascuno
rispettivamente attribuibile.
Osserva la Corte che il rilievo non ha pregio.
Ed invero, si è precisato che la confisca per equivalente del profitto di cui all’art. 19 del d. lgs. n.
231/’01 ha natura di sanzione principale e autonoma. Non v’è, peraltro, rapporto di sussidiarietà o
di concorso apparente tra la detta disposizione e le norme del codice penale che prevedono la stessa
misura ablativa a carico delle persone fisiche responsabili del reato, fermo restando logicamente che
l’espropriazione non potrà, in ogni caso, eccedere nel quantum l’entità complessiva del profitto.
La responsabilità della persona giuridica è aggiuntiva e non sostitutiva di quella delle persone
fisiche, che resta regolata dal diritto penale comune. Il criterio d’imputazione del fatto all’ente è la
commissione del reato “a vantaggio” o “nell’interesse” del medesimo ente da parte di determinate
categorie di soggetti. V’è, quindi, una convergenza di responsabilità, nel senso che il fatto della
persona fisica, cui è riconnessa la responsabilità anche della persona giuridica, deve essere
considerato “fatto” di entrambe, per entrambe antigiuridico e colpevole, con l’effetto che
l’assoggettamento a sanzione sia della persona fisica che di quella giuridica s’inquadra nel
paradigma penalistico della responsabilità concorsuale. Pur se la responsabilità dell’ente ha una sua
autonomia, tanto che sussiste anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è
imputabile (art. 8 d. lgs. n. 231), è imprescindibile il suo collegamento alla oggettiva realizzazione
del reato, integro in tutti gli elementi strutturali che ne fondano lo specifico disvalore, da parte di un
soggetto fisico qualificato.
Non va sottaciuto, inoltre, che, nel caso in esame, viene in considerazione un raggruppamento
temporaneo di imprese, nel quale il legame tra le medesime si sostanzia in un rapporto contrattuale
basato su un mandato con rappresentanza, gratuito e irrevocabile, conferito collettivamente da più
imprese ad altra “capogruppo-mandataria” legittimata a compiere, nei rapporti con la stazione
appaltante, ogni attività giuridica connessa all’appalto e produttiva di effetti giuridici direttamente
nei confronti delle imprese mandanti sino all’estinzione del rapporto. Non costituendo l’ATI un
nuovo e autonomo soggetto giuridico, ciascuna delle imprese che vi partecipano conserva la propria
autonomia anche se, sotto il profilo civilistico, tutte sono solidalmente responsabili nei confronti
dell’appaltante. Gli effetti positivi del rapporto d’appalto sono voluti e perseguiti non dall’una o
dall’altra società coinvolta nell’operazione, ma da tutte le società del gruppo.
Va aggiunto, per quanto specificamente qui interessa, che è postulata la responsabilità di ciascuna
impresa partecipante al raggruppamento temporaneo per reati commessi da soggetti apicali o
sottoposti, che funzionalmente hanno operato nell’interesse dell’ente di rispettiva appartenenza,
sicché è innegabile la convergenza di responsabilità, da inquadrarsi nell’ottica del concorso.
Di fronte ad un illecito plurisoggettivo deve applicarsi il principio solidaristico che informa la
disciplina del concorso nel reato e che implica l’imputazione dell’intera azione delittuosa e
dell’effetto conseguente in capo a ciascun concorrente. Più in particolare, perduta l’individualità
storica del profitto illecito, la confisca di valore può interessare indifferentemente ciascuno dei
concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato (entro logicamente i limiti quantitativi
dello stesso), non essendo esso ricollegato, per quello che emerge allo stato degli atti,
all’arricchimento di uno piuttosto che di un altro soggetto coinvolto, bensì alla corresponsabilità di
tutti nella commissione dell’illecito, senza che rilevi il riparto del relativo onere tra i concorrenti,
che costituisce fatto interno a questi ultimi (cfr. Cass. sez. II 14/6/2006 n. 31989, Troso; 20/9/2007
n. 38599, Angelucci; 21/2/2007 n. 9786, Alfieri; 20/12/2006 n. 10838, Napoletano; 6/7/2006 n.
30729, Carere).
Sul punto si registra un orientamento giurisprudenziale solo apparentemente contrastante, secondo
cui, in caso di pluralità di indagati, il sequestro preventivo funzionale alla confisca per equivalente
non può eccedere per ciascuno dei concorrenti la misura della quota di profitto del reato a lui
attribuibile, sempre che tale quota sia individuata o risulti chiaramente individuabile (cfr. Cass. sez.
VI 23/6/2006 n. 25877; sez. VI 5/6/2007 n. 31690; sez. VI 14/6/2007 n. 30966). E’ chiaro quindi
che, ove la natura della fattispecie concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non
consenta d’individuare, allo stato degli atti, la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun
concorrente o la sua esatta quantificazione, il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero
importo del profitto nei confronti di ciascuno, logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto
dei canoni della solidarietà interna tra i concorrenti.
9- Non ha fondamento l’ulteriore argomento introdotto dalla ricorrente “Impregilo spa” che,
facendo leva sul disposto di cui al quarto comma dell’art. 46 del decreto n. 231/’01, sostiene la non
praticabilità della contestuale applicazione della misura cautelare interdittiva e di quella reale.
E’ vero che la richiamata norma, in deroga alla regola generale posta dall’art. 14, prevede
espressamente la non cumulabilità delle “misure cautelari”. Deve, però, ritenersi che tale
espressione, in base a una lettura sistematica e coordinata della normativa, sia riferita alle sole
misure interdittive e non coinvolga anche la cautela reale.
L’impianto della sezione IV del decreto n. 231/’01, avuto riguardo all’aspetto contenutistico delle
relative norme, può essere diviso in due parti: la prima è costituita dalle norme contenute negli
articoli dal 45 al 52, che disciplinano chiaramente le misure interdittive, quanto ai presupposti che
le legittimano, ai criteri di scelta, al procedimento di applicazione, agli adempimenti esecutivi,
all’eventuale revoca o sostituzione, alla durata, alle impugnazioni; la seconda parte (artt. 53 e 54)
disciplina, in maniera esaustiva ed autonoma, anche attraverso l’espresso richiamo delle
corrispondenti norme codicistiche, i sequestri (preventivo e conservativo) e non è -pertanto-
estensibile al sequestro preventivo la norma di cui al quarto comma del precedente art. 46.
Quest’ultima disposizione è raccordata alle altre che la precedono nello stesso articolo, a quelle
dell’art. 45 e, sia pure in deroga, a quella di cui al terzo comma dell’art. 14, disposizioni tutte queste
che, in modo chiaro, disciplinano le cautele o le sanzioni interdittive.

Omissis

Il profitto oggetto di confisca ex art. 19 d. lgs. n. 231 del 2001 nell’interpretazione delle Sezioni
Unite della Cassazione.

1.Premessa. Con la sentenza in commento le Sezioni Unite della Cassazione per la prima volta si
sono occupate della responsabilità amministrativa da reato degli enti collettivi.
La questione rimessa al Supremo Collegio concerneva l’esatta delimitazione della nozione di
profitto oggetto di confisca ai sensi dell’art. 19 del d. lgs. n. 231 del 2001 ed in particolare la Corte
era chiamata ad esprimersi sull’alternativa per cui il provvedimento ablativo (e conseguentemente
quello di sequestro preventivo finalizzato alla confisca adottato ai sensi dell’art. 53 dello stesso
decreto legislativo) si estenda esclusivamente all’utile tratto dall’attività illecita, al netto dei costi
sostenuti, ovvero all’intero ricavo lordo conseguito dalla suddetta attività.
L’intervento dei giudici di legittimità riguardava, dunque, un aspetto apparentemente secondario
della normativa introdotta dal 2001, non consentendo una riflessione sulle questioni più dibattute
dalla dottrina, come quelle relative alla reale natura del nuovo modello di responsabilità ovvero
all’effettivo ruolo ricoperto nella struttura dell’illecito dai modelli organizzativi.
In realtà, nella prassi applicativa sin da subito è emerso come l’ablazione del vantaggio economico
ricavato dall’ente dalla consumazione del reato rappresenti il vero momento cruciale
dell’applicazione del nuovo sistema punitivo, in sintonia non solo con le intenzioni del legislatore
nazionale, ma altresì con l’aspirazione degli atti internazionali cui quest’ultimo ha dato attuazione
di spostare con sempre maggior decisione il contrasto alla criminalità economica sul piano dello
spossessamento dei proventi illeciti, ritenuta condizione necessaria per l’efficacia della risposta
repressiva. In tal senso i rigorosi presupposti che condizionano l’irrogazione delle sanzioni
interdittive e la modesta efficacia dissuasiva di quelle pecuniarie (la cui contenuta entità appare
facilmente metabolizzabile come un costo di gestione, soprattutto dalle imprese di una certa
dimensione)1 hanno immediatamente rivelato come la confisca del profitto, eletta dal d. lgs. n. 231
del 2001 a sanzione principale, costituisca la preoccupazione maggiore degli enti nei cui confronti
sia stata aperta una indagine e come dunque risulti essenziale individuare gli esatti confini della
nozione evocata, attraverso una terminologia tanto generica, dal legislatore.
In proposito non si registrava, in realtà, alcun contrasto in atto nella giurisprudenza di legittimità,
che pervero non si era nemmeno mai occupata direttamente dello specifico profilo controverso.
Circostanza registrata anche nel provvedimento di rimessione alle Sezioni Unite, che peraltro, sulla
base delle profonde divergenze interpretative manifestatesi sul punto in dottrina, nonché in
relazione all’apparente indirizzo seguito in una pronunzia della Corte2, ha ritenuto opportuno
investire comunque il Supremo Collegio della questione in via preventiva.

2.La problematica ricostruzione della nozione di profitto. In effetti la nozione di “profitto” risulta
non poco sfuggente, sia che si consideri l’utilizzo del termine effettuato dalla legge penale, che
quello svolto nell’ambito del d. lgs. n. 231 del 2001.
In proposito è innanzi tutto doveroso ricordare che in alcun testo normativo il legislatore ha fornito
la nozione generale di “profitto” (né tanto meno ha mai proceduto a specificazioni del tipo “profitto
lordo” o “profitto netto”), apparentemente utilizzando il termine come semplice elemento
descrittivo nelle fattispecie in cui è inserito e rinviando altrettanto apparentemente al significato
lessicale dello stesso termine. Il che pone un primo problema, atteso che il medesimo presenta
indubbiamente uno spazio semantico “aperto”.
Nel linguaggio penalistico il termine ha tradizionalmente assunto un significato oggettivamente
ampio ed è stato tralaticiamente utilizzato - in modo assai poco impegnativo sul piano descrittivo -
in ambiti normativi assai diversi, tanto da confermare la sua evidente attitudine polisemica3.
In proposito viene innanzi tutto in conto il profitto del reato (rectius: le cose che costituiscono il
profitto del reato) menzionato nel primo comma dell’art. 240 c.p. come uno degli oggetti della
confisca-misura di sicurezza. In tal senso, sul piano dell’esegesi, il profitto del reato è stato
tendenzialmente identificato nel generico vantaggio economico ricavato dall’illecito, in
contrapposizione al “prodotto” e al “prezzo” del reato, il primo inteso come il risultato empirico

1
Per la problematica rivelatasi da tempo negli ordinamenti anglosassoni in riferimento ai rispettivi modelli di
responsabilità delle persone giuridiche v. DE MAGLIE, L’etica e il mercato, Milano, 2002, p. 162.
2
Si tratta di Cass. Sez. VI 23 giugno 2006 n. 32627, La Fiorita soc. coop. a r.l., in CED 235636, dalla cui motivazione
effettivamente emerge un indiretto riferimento alla possibile identificazione del profitto a fini di confisca con “l’utile
netto” tratto dal reato.
3
In questo senso v. ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, in Studi in onore di Giorgio
Marinucci a cura di Dolcini – Paliero, Milano, 2006, III, p. 2103.
dello stesso illecito e il secondo come il compenso dato o promesso per indurre, istigare o
determinare qualcuno a commettere il reato.
Va ancora segnalato in proposito l’occasionale utilizzo in giurisprudenza della formula di sintesi
“proventi” (termine che non trova riscontro nel linguaggio normativo) per individuare il complesso
di ciò che sia stato ricavato dal reato, intendendosi in tal senso tanto il profitto che il prodotto
dell’illecito4.
Il “profitto” è poi assunto all’interno del dolo specifico o dell’evento dei reati contro il patrimonio.
Ed in questo ambito in alcuni casi (artt. 628, 629, 630, 632, 640 ter e 646 c.p.) il profitto vincolante
sul piano della tipizzazione della fattispecie si vuole necessariamente “ingiusto”, mentre in altri
(artt. 624, 624 bis, 633 e 648 c.p.) tale caratterizzazione non viene richiesta5.
Nell’interpretazione giurisprudenziale il significato che tradizionalmente il termine assume in
questo contesto trascende la sua dimensione più prettamente economica, diventando sinonimo di
vantaggio, patrimoniale o non patrimoniale, il che ha portato la dottrina a criticare la scelta del
codice di incentrare sul profitto questa categoria di delitti, etichettandola come uno dei passaggi
fondamentali nell’opera (ritenuta scarsamente compatibile con i principi costituzionali in materia
penale) di soggettivizzazione delle fattispecie incriminatrici6.
Analogamente il profitto caratterizza il nesso paratattico tra reato-mezzo e reato-fine
nell’aggravante comune di cui all’art. 61 n.2 c. p., nonchè il dolo specifico di alcune fattispecie
contemplate dalla legislazione speciale: così è, ad esempio, per alcuni reati societari come le false
comunicazioni sociali (artt. 2621 e 2622 c.c.), l’infedeltà patrimoniale (art. 2634 c.c.) e l’illecita
influenza sull’assemblea (art. 2636 c.c.), ovvero per i reati in materia di favoreggiamento
dell’immigrazione clandestina previsti dall’art. 12, comma terzo e quinto, del d. lgs. n. 286 del 1998
(e con riguardo alla prima delle due fattispecie menzionate è interessante sottolineare il ricorso da
parte del legislatore all’inedita allocuzione «profitto anche indiretto») o, ancora, per il delitto di
abusiva duplicazione di programmi informatici (art. 171 bis l. n. 633 del 1941).
Ben altra funzione è assegnata al profitto (e al prodotto) del reato nell’ambito dei delitti in materia
di intermediazione finanziaria (abuso di informazioni privilegiate e abuso di mercato: artt. 184 e
185 T.U.F.), dove viene utilizzato per parametrare la sanzione pecuniaria (determinata per l’appunto
in ragione di un moltiplicatore del valore del profitto) nell’ambito di speciale aggravanti fondate
sulla rilevante offensività del fatto, sulle qualità personali del colpevole ovvero sull’entità dello
stesso profitto.
Nel d. lgs. n. 231 del 2001, l’uso del termine diviene, se possibile, ancor più promiscuo, atteso che
il “profitto” è menzionato in ben quattordici disposizioni diverse - e cioè negli artt. 6 comma quinto,
9 comma primo lett. c), 13 comma primo lett. a), 15 comma quarto, 16 comma primo, 17 lett. c), 19,
23 commi secondo e terzo, 24 comma secondo, 25 comma terzo, 25 ter comma secondo, 25 sexies
comma secondo, 74 comma primo lett. d) e 79 comma secondo – ed in contesti assai eterogenei.
Come già accennato nel paragrafo precedente, infatti, il profitto è innanzi tutto, congiuntamente al
prezzo del reato, l’oggetto della confisca-sanzione di cui agli artt. 9, 19 e 23, ma è al tempo stesso
anche l’oggetto della più ambigua (sul piano della classificazione) confisca di cui all’ultimo comma
dell’art. 6. Provvedimenti che si differenziano per il fatto che nel primo caso la misura ablativa
segue alla condanna dell’ente, mentre nel secondo alla sua assoluzione (ed in proposito può essere
utile evidenziare ancora una volta la diversa formula utilizzata dal legislatore: nel primo caso «la
confisca del prezzo o del profitto del reato», nel secondo «la confisca del profitto che l’ente ha
tratto dal reato»).

4
V. ad es. Cass. Sez. Un. 3 luglio 1996, Chabni, in CED 205707.
5
In tal senso val la pena evidenziare per completezza come nell’art. 633 c.p. (Invasione di terreni o edifici) il dolo
specifico richiesto per il perfezionamento della fattispecie tipica sia individuato in maniera originale rispetto alle altre
disposizioni richiamate in quello di occupare l’immobile «o di trarne altrimenti profitto».
6
V. SGUBBI, Patrimonio (reati), in Enc. Dir., XXXII, Milano, 1982, p. 383.
Ma il profitto è oggetto di confisca anche ai sensi dell’art. 15, comma quarto, del decreto. In questo
caso non si tratta però del profitto ricavato dal reato, bensì di quello emerso dalla gestione
commissariale disposta in sostituzione delle sanzioni (o delle misure cautelari) interdittive.
Nell’art. 13, comma primo, lett. a) il profitto «di rilevante entità» diviene invece la condizione
alternativa alla recidiva per l’irrogazione nei confronti dell’ente delle sanzioni interdittive, in
aggiunta a quelle pecuniarie ed alla confisca e, analogamente, nell’art. 16, comma primo, uno dei
presupposti per l’applicazione delle stesse sanzioni in via definitiva. Mentre nell’art. 17 lett. c)
sempre il profitto (rectius: la messa “a disposizione” del profitto ai fini della confisca) diviene
l’oggetto di una delle condotte “riparatorie” che consentono all’ente di evitare l’applicazione delle
sanzioni interdittive.
Infine, negli artt. 24, comma secondo, 25, comma terzo, 25 ter, comma secondo, e 25 sexies,
comma secondo, il conseguimento di un profitto di «rilevante entità» (in alcuni casi in alternativa
alla causazione di un danno di particolare gravità) costituisce il fondamento di altrettante
circostanze aggravanti dell’illecito relativo ai reati-presupposto contemplati dalle norme
menzionate.
La polifunzionalità del profitto nel “sistema” costituito dal decreto rende certamente problematica la
definizione della sua esatta nozione o anche solo stabilire se si abbia a che fare con un concetto
unitario.
Se indubbiamente il dato testuale non offre che modesti spunti per la ricostruzione della nozione di
profitto, nemmeno dall’indagine sulla volontà “storica” del legislatore si ricavano indicazioni
risolutive. Infatti, nella Relazione allo schema di decreto legislativo (p. 37), trattando della confisca-
sanzione, il profitto viene definito «come una conseguenza economica immediata ricavata dal fatto
di reato». Definizione poco impegnativa sul piano descrittivo (la quale certamente non solo non
consente di “scegliere” tra profitto lordo o netto, ma nemmeno, più semplicemente, di affermare che
la tematica sia stata oggetto di specifica riflessione nel corso della redazione del testo normativo),
ma che se non altro indica all’interprete un possibile percorso e cioè quello della pertinenzialità
della cosa confiscata al reato quale unico vero criterio selettivo dell’area di applicazione della
sanzione ablativa.
Nemmeno analizzando la l. 29 settembre 2000, n. 300 (la legge delega che ha originato il d. lgs. n.
231 del 2001) è possibile ritrarre elementi decisivi al fine di definire la nozione di profitto rilevante
ai presenti fini. Infatti, l’art. 11 lett. i) della summenzionata legge si limita testualmente a
commissionare «la confisca del profitto o del prezzo del reato, anche nella forma per equivalente».
Va peraltro menzionato il riferimento «all’ammontare dei proventi del reato» effettuato nella
precedente lett. g) del medesimo articolo trattando dei parametri cui ancorare la dosimetria della
sanzione pecuniaria. In proposito è peraltro necessario evidenziare che il legislatore delegato non ha
ripreso alla lettera l’indicazione del Parlamento, limitandosi nell’art. 11 del decreto ad un più
generico riferimento alla «gravità del fatto».
Conclusivamente una certa attenzione deve essere riservata anche gli Atti internazionali ai quali la l.
n. 300 del 2000 ha inteso dare esecuzione e cioè la Convenzione sulla tutela degli interessi
finanziari delle Comunità europee (Bruxelles 26 luglio 1995) e i relativi protocolli; la Convenzione
europea relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari delle Comunità
Europee o degli Stati membri dell’Unione Europea (Bruxelles 26 maggio 1997); la Convenzione
OCSE sulla lotta alla corruzione di pubblici ufficiali stranieri nelle operazioni economiche
internazionali (Parigi 17 dicembre 1997).
Ebbene tutte le fonti menzionate impegnano gli Stati aderenti ad adottare nelle rispettive
legislazioni nazionali misure idonee alla confisca o comunque alla “sottrazione”, tra l’altro, dei
«proventi» dei reati di cui si occupano (oltre a configurare, per l’appunto, la responsabilità delle
persone giuridiche per gli illeciti commessi nel loro ambito).
“Proventi” è, nella versione italiana delle menzionate convenzioni, la traduzione dei termini
“proceeds” e “produit”, utilizzati nel testo ufficiale, rispettivamente inglese e francese, delle
medesime7. Entrambi i termini vantano un significato lessicale, nei rispettivi ambiti linguistici, ben
più ampio di “utile netto” (individuando sostanzialmente i ricavi monetari di una determinata
attività), tanto che, ad esempio, nel Rapporto esplicativo alla citata Convenzione OCSE è precisato
che con il termine “proceeds” devono intendersi «i profitti o gli altri benefici derivanti al corruttore
dalla transazione o gli altri vantaggi ottenuti o mantenuti attraverso la corruzione»8.
Sembra dunque che il senso tradizionale del termine “proventi”, da intendersi come mera formula di
sintesi di prodotto e profitto, non sia quello accolto nella traduzione degli strumenti internazionali
citati, che si occupano di reati che non appaiono idonei a generare un “prodotto”, propriamente
inteso, bensì solo “profitti”. In definitiva il termine “proventi” sembra essere stato scelto per rendere
il concetto omnicomprensivo di vantaggi ricavati dalla commissione del reato9.
E sempre con riguardo al quadro normativo internazionale può essere opportuno ricordare come
anche la più recente Decisione quadro relativa alla confisca di beni, strumenti e proventi di reato
(2005/212/GAI) del 24 febbraio 2005, abbia previsto all'art. 2, dedicato alla confisca, l'adozione da
parte di ciascuno Stato membro, entro il 15 marzo 2007, delle «misure necessarie per poter
procedere alla confisca totale o parziale di strumenti o proventi di reati punibili con una pena
privativa della libertà superiore ad un anno o di beni il cui valore corrisponda a tali proventi»,
confermando l’utilizzo di una terminologia dallo spettro lessicale assai ampio e scarsamente
selettivo10.
Da ultimo, atteso che dalla rassegna del diritto positivo non emerge anche solo l’effettiva
rappresentazione della dicotomia tra profitto “lordo” e profitto “netto” sulla quale si fondano invece
le lamentele dei ricorrenti, può essere utile ricordare come il tema - a lungo sostanzialmente
ignorato dalla giurisprudenza e dalla dottrina - sia divenuto attuale in conseguenza dell’introduzione

7
Ad esempio l’art. 3 par. 3 della Convenzione OCSE recita: «Each Party shall take such measures as may be necessary
to provide that the bribe and the proceeds of the bribery of a foreign public official, or property the value of which
corresponds to that of such proceeds, are subject to seizure and confiscation or that monetary sanctions of comparable
effect are applicable». Nella stessa direzione si pongono anche il Secondo protocollo della convenzione relativa alla
tutela degli interessi finanziari delle comunita' europee del 19 giugno 1997, e la Convenzione sulla corruzione, aperta
alla firma dal Consiglio d'Europa il 27 gennaio 1999, peraltro entrambi non ancora ratificati dall'Italia. Il primo, all'art.
5, stabilisce che ciascuno Stato membro dell'Unione europea adotti le misure che gli consentano il sequestro e la
confisca o comunque di ordinare la privazione degli strumenti e dei «proventi della frode, della corruzione attiva o
passiva e del riciclaggio di denaro o di proprieta' del valore corrispondente a tali proventi». La seconda, all'art. 19, fa
parimenti carico agli Stati aderenti della previsione nei sistemi nazionali di misure di confisca per colpire i “proventi”
dei reati ivi contemplati o i beni di valore ad essi corrispondente.
8
«The "proceeds" of bribery are the profits or other benefits derived by the briber from the transaction or other
improper advantage obtained or retained through bribery».
9
Cfr. FONDAROLI, Le ipotesi speciali di confisca nel sistema penale, Bologna, 2007, p. 65.
10
Ed in proposito va ricordato che l’art. 28 della legge 25 febbraio 2008, n. 34 (Legge comunitaria 2007) ha conferito
al Governo la delega per l’attuazione, tra l’altro, proprio della decisione quadro 2005/212/GAI citata nel testo. Il
successivo art. 31 della legge menzionata delega la predisposizione di una norma generale in grado di rendere
obbligatoria la confisca delle cose che servirono o furono destinate alla commissione del reato e dei proventi del reato.
Circa questi ultimi, la lett. b) n.1 del primo comma dell’articolo menzionato, chiarisce che tali dovranno intendersi il
prodotto e il prezzo del reato, nonché il «profitto derivato direttamente o indirettamente dal reato» o dal suo impiego. La
stessa disposizione, ma al n.3, impone poi la previsione di una disposizione parimenti generale concernente la confisca
per equivalente dei beni costituenti il prodotto, il prezzo o il profitto del reato. Infine la lett. f) del primo comma dell’art.
31 delega il Governo ad adeguare anche le disposizioni del d. lgs. n. 231 del 2001 alle medesime direttive. La l. n. 34
del 2008, in linea con le intenzioni degli strumenti internazionali cui intende dare attuazione, accoglie dunque una
nozione assai ampia ed omnicomprensiva del “provento” di reato e in particolare introduce una inedita –a livello
normativo – distinzione tra “profitto diretto” e “ profitto indiretto” del reato, da non confondere con quella tra “profitto
immediato” e “profitto mediato”, implicitamente richiamata nella stessa lett. b) dell’art. 31, laddove viene esteso
l’obbligo di confisca anche ai beni che costituiscono l’impiego del profitto. Il legislatore non ha precisato ulteriormente
le nozioni richiamate, ma ciò che si può evidenziare a prima lettura – e nell’attesa di vedere come il legislatore delegato
interpreterà i principi di delega - è che ancora una volta non viene operata a livello normativo alcuna distinzione fondata
sul margine di guadagno “netto” tratto dal reato, mentre la specifica menzione del “profitto indiretto” sembra riferirsi
alla necessità di considerare, ai fini dell’applicazione della misura ablativa, anche i vantaggi indotti dal profitto diretto
acquisito attraverso la consumazione dell’illecito (senza peraltro chiarire ancora una volta se tra questi debbano
considerarsi anche quelli “immateriali”).
della confisca di valore, la quale, consentendo di superare il tradizionale problema
dell’individuazione “storica” dei beni costituenti il profitto del reato, ha indubbiamente reso più
agevole e diffusa l’applicazione della misura ablativa con riguardo a determinati tipi di illeciti11.

3.”Profitto lordo” e “profitto netto”. La scarsa elaborazione che la nozione di profitto ha avuto nei
testi normativi si riflette nella scarsa attenzione riservata alla sua definizione in passato da parte
della giurisprudenza. Nella giurisprudenza di legittimità in particolare la nozione di profitto non è
stata oggetto di organica e specifica analisi, anche perché per lungo tempo l’interesse si è
concentrato sull’applicazione della sola misura di sicurezza di cui all’art. 240 cod. pen. ed ai
proventi di condotte totalmente illecite, circostanza che ben poche perplessità ha generato in ordine
all’identificazione dell’oggetto della misura ablativa o alla “deducibilità” delle spese sostenute per
la consumazione del reato (profilo mai posto all’attenzione della giurisprudenza di legittimità fino a
tempi recentissimi), tanto più che, come si ricordava precedentemente, fino all’avvento della
confisca di valore, era tutto sommato sporadica nella prassi l’ablazione dei proventi monetari del
reato, a causa dell’ovvia difficoltà incontrata nella loro individuazione nel patrimonio del reo.
E gli angusti ambiti di applicazione che nella prassi l’istituto della confisca del profitto del reato ha
conosciuto per lungo tempo, non hanno certo favorito l’approfondimento scientifico della materia,
tanto che anche la dottrina si è solo sporadicamente occupata nel passato del tema.

11
Ed è altrettanto opportuno ricordare che il profilo della “deducibilità” dal profitto dei costi dell’attività illecita è stato
in qualche modo mutuato nel dibattito dottrinario dall’esperienza maturata in proposito in alcuni ordinamenti stranieri,
il che rende opportuna una breve analisi comparatistica, peraltro in parte svolta anche nella sentenza in commento.
Negli Stati Uniti, ad esempio, il RICO Act (Racketeer Influenced and Corrupt Organizations, sorta di Testo Unico in
materia di criminalità organizzata) del 1970 prevedeva come sanzione la confisca (“criminal forfeiture”) dei “profits”
tratti dalle attività illecite. Ciò aveva creato notevoli incertezze interpretative e orientamenti giurisprudenziali favorevoli
ad identificare l’oggetto della sanzione ablativa con l’utile netto dei reati contemplati dal provvedimento normativo. Le
notevoli difficoltà nell’accertamento di quest’ultimo (non disgiunte dalla riprovazione verso una norma che consentiva,
ad esempio, al trafficante di stupefacenti di dedurre i costi sostenuti per l’importazione della droga) portarono nel 1984
ad una riforma della disposizione e per ovviare al gravoso onere di provare l’utile netto il termine “profit” venne
sostituito con il più generico “proceed”11, espressione riutilizzata nel 1986 nel Money Laundering Act (in proposito
ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, cit., p. 2140 evidenzia come l’interpretazione rigorosa
fornita dalla giurisprudenza - nel senso dell’espropriazione del profitto lordo - delle norme contenute nelle leggi
ricordate, ha comunque subito un temperamento nella necessità di coniugare l’attitudine espansiva della confisca con il
principio di proporzionalità delle sanzioni pecuniarie contenuto nell’ottavo emendamento della Costituzione americana
(Excessive Fines Clause)). Parabola non dissimile ha seguito la confisca del profitto in Germania, dove nel 1992 il
legislatore ha sostituito l’originaria espressione Vermögensvorteil (vantaggio economico, profitto patrimoniale tratto
dal reato) utilizzata nel § 73 stGB, la cui ambiguità aveva generato indirizzi giurisprudenziali inclini a riconoscere
l’imputabilità al profitto dei costi sostenuti per la commissione dell’illecito, con il più generico termine etwas
(“qualsiasi cosa” conseguita attraverso il reato), che ha definitivamente orientato la misura ablativa verso il “profitto
lordo” tratto dall’attività illecita (v. in proposito ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, cit., p.
2137 e ss; FORNARI, La confisca del profitto nei confronti dell’ente responsabile di corruzione: profili problematici,
in Riv. trim. dir. pen. ec., 2005, p. 77 e ss. e MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e
garantismo, Milano, 2001, p. 566; quest’ultimo Autore ricorda altresì come il criterio del “profitto lordo”
(Bruttoprinzip) sia sostanzialmente seguito anche da Argentina e Svizzera (dove questa è l’interpretazione fornita dalla
Corte Federale dell’espressione “valori patrimoniali” utilizzata nel codice penale elvetico), e come, invece, siano ispirati
all’opposto criterio del “profitto netto” (Nettoprinzip) gli ordinamenti di Spagna, Austria, Colombia, Egitto, Serbia,
Slovenia, Brasile, Bulgaria e Australia prevedano che il prelievo a fini di confisca del profitto del reato avvenga al netto
delle spese sostenute dal reo). Menzione merita anche la vicenda della confisca del profitto nel Regno Unito, dove il
tradizionale favore verso l’espropriazione del “gross profit” ha trovato definitiva sistemazione nel recente Proceeds of
Crime Act del 2002, il quale sostanzialmente trasforma la misura ablativa in una sorta di sanzione patrimoniale la cui
base è costituita da tutti i beni dell’imputato, qualora il beneficio tratto dal reato risulti superiore a quello attualmente
ancora nella sua disponibilità (e che dunque presenta qualche affinità con la confisca di valore). In Francia, infine, la
situazione si presenta – come spesso avviene – affine a quella italiana. Infatti, in assenza di indicazioni normative,
scarso è stato l’approfondimento sulla nozione di “profitto” oggetto della confisca, anche dopo la configurazione della
responsabilità penale delle persone giuridiche, cui la misura è stata estesa. In proposito basti ricordare come la
giurisprudenza si limiti a selezionare ciò che costituisce profitto sulla base del criterio di pertinenzialità, identificando i
beni che lo rappresentano in forza del saldo legame con il fatto illecito nella sua specificità oggettiva.
Negli ultimi tempi l’argomento ha iniziato ad attrarre invece l’attenzione degli studiosi, chiamati a
confrontarsi, dopo la scelta del legislatore di affidare alla confisca di prevenzione e a quella di
valore un ruolo centrale nella strategia repressiva dei fenomeni criminali, con problematiche spesso
inedite per l’Italia.
Ciò non toglie che il tentativo di elaborare in maniera organica il tema del profitto sia stato
promosso in pochissime occasioni e non a caso la questione sottoposta alle Sezioni Unite è stata
sino ad ora trattata da pochissimi autori, ancor più raramente in modo approfondito e per lo più
mutuando gli esiti del dibattito svoltosi in quegli ordinamenti dove il tema vanta una maggior
tradizione a causa delle vicende normative di cui si è brevemente dato conto in precedenza12.
Prevale, in ogni caso, nelle trattazioni che non si fermano alla superficie dell’argomento, una certa
diffidenza verso il termine profitto e la sua indeterminatezza concettuale, rilevandosi come quella
proposta dal legislatore, nei pur diversi ambiti in cui è utilizzata, sia, comunque la si guardi, una
nozione «ampia e disponibile».
Ciò premesso la dottrina maggioritaria vuole sottolineare come l’indefinita nozione di vantaggio
economico complessivo tratto dal reato - di conio giurisprudenziale – si adatti esclusivamente allo
scenario dell’attività totalmente illecita, segnalando l’esigenza di distinguere da quest’ultima
l’attività lecita d’impresa nel cui ambito occasionalmente e strumentalmente viene consumato il
reato.
In proposito, ad esempio, autorevole dottrina13 sostiene vi sia radicale diversità strutturale tra
l’impresa criminale – orientata alla commissione di crimini quali mezzi ordinari di esercizio
dell’attività economica – e quella lecita, che solo in via episodica deborda nella commissione di un
reato. Sulla base di questa distinzione (che ovviamente suggerisce una interpretazione della realtà,
prima ancora che del diritto positivo, il quale di tale realtà non registra traccia evidente nel testo
delle norme che si occupano della confisca del profitto) la medesima dottrina edifica il rigetto di
una nozione di profitto confiscabile che ecceda il margine residuale di effettivo guadagno tratto dal
reato commesso per favorire lo svolgimento dell’attività (lecita d’impresa).
E’ stato altresì sottolineato14 che «l’ablazione del ricavo complessivo, e non solo del margine di
guadagno, rischia di rivelarsi una misura eccessiva rispetto allo scopo», giacchè nell’ambito della
criminalità d’impresa il reato è una scelta razionale e l’impulso a reiterare il reato è data dal
conseguimento di un saldo attivo e non dalla dimensione complessiva dell’affare15, dovendosi
dunque distinguere tra quanto realizzato per consumare il reato e quanto speso per fornire una
prestazione lecita pur nell’ambito di un affare illecito.
Ben più radicale, invece, la critica di chi ritiene che l’accoglimento di una nozione ampia di profitto
sarebbe animata da valutazioni di politica criminale estranee alla rigorosa interpretazione del dato
normativo16. Scopo della confisca del profitto sarebbe infatti esclusivamente quello di espropriare le
cose provenienti dall’illecito per deprimere l’attrattiva del reato: in breve la ratio che assisterebbe la
misura ablativa in ogni sua manifestazione sarebbe sintetizzabile nell’aforisma “il crimine non
paga”, compatibile proprio con il guadagno effettivo ricavato dal reato, cioè l’utile netto (mentre
andare oltre la confisca dell’arricchimento del reo significherebbe affermare che “il crimine costa”).
Su queste premesse non sarebbe dunque soddisfacente per identificare il profitto confiscabile un
criterio fondato sulla distinzione tra quanto consumato per commettere il reato in sé, da quanto
speso per fornire prestazioni lecite, pur nell’ambito di un affare illecito, e propone invece il criterio
alternativo del divieto di “doppia ablazione”. In tal senso perché un costo sia ritenuto deducibile
sarebbe cioè irrilevante la sua natura intrinsecamente illecita (ad esempio il costo della tangente per

12
V. supra nota 10.
13
V. ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, cit., p. 2028 e ss.
14
V. FORNARI, op. cit., p. 80 e ss.
15
Conclusione che secondo il medesimo Autore troverebbe conforto nello stesso meccanismo della premialità che
pervade il patteggiamento, il quale sarebbe totalmente vanificato dall’ablazione del profitto ben oltre il limite
dell’effettivo guadagno residuale tratto dal reato.
16
V. LUNGHINI, Commento a Trib. Milano 22 ottobre 2007, in Corriere del Merito, 2008, n. 1, p. 88 e ss..
il corruttore), ma conterebbe esclusivamente il fatto che lo stesso sia stato sostenuto, provocando
all’autore del reato non già un guadagno, bensì una perdita.
Un differente approccio al problema emerge invece in altro orientamento dottrinario17 che riporta la
confisca del profitto illecito al concetto di “riparazione”, nel senso di meccanismo socialmente
costruttivo di superamento del fatto illecito. In tale ottica la restituzione del lucro illecito
assumerebbe, dunque, un concreto significato di riparazione del conflitto non solo nei confronti del
diretto danneggiato, i cui diritti lesi vanno innanzitutto risarciti, ma nei confronti della società con
cui l’autore dell’illecito si è posto in contrasto. In definitiva la misura ablativa si limiterebbe
comunque a sottrarre al reo quanto indebitamente ottenuto dal reato, qualcosa rispetto alla quale il
medesimo non può rivendicare alcun legittimo titolo di godimento18: la confisca del profitto
risponderebbe cioè ad una finalità di compensazione dell’ordine economico violato, riportando la
situazione patrimoniale del reo nelle condizioni in cui si trovava prima della consumazione del reato
e così impedendogli di godere del frutto della sua attività19.
Secondo questa impostazione il criterio del “profitto netto” finirebbe per riversare sullo Stato il
rischio di esito negativo del reato, giacchè il reo perderebbe ogni rischio di perdita economica:
l’agente rischierebbe solo di non guadagnare, ma non certo di subire una perdita economica. Ma la
sottrazione del profitto illecito corrisponde ad esigenze di giustizia, innanzitutto, e, quindi, di
prevenzione generale e speciale, da tutti condivise. Non sembrerebbero, invece, così indiscutibili le
esigenze che dovrebbero imporre l’adozione del principio del prelievo netto, atteso che il reo nel
momento in cui intraprende l’attività illecita si assume un rischio consapevole di “perdere”20. In
definitiva il profitto del reato – inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito -
non gli spetta, in quanto il crimine non rappresenta in alcun ordinamento un legittimo titolo di
acquisto della proprietà o di altro diritto su un bene e, quindi, il reo non può rifarsi delle perdite
subite per la realizzazione del reato con qualcosa a cui non ha diritto21.
Per converso, secondo la dottrina illustrata, accettare il criterio del “lordo” non significa trasformare
tout court la confisca da strumento di compensazione in pena, giacchè non si limita o cancella alcun
diritto dell’autore del reato. Infatti, una sanzione punitiva non si limita a ricostituire l’equilibrio
violato dall’infrazione attraverso il risarcimento del danno o la sottrazione del vantaggio
indebitamente tratto dalla violazione della legge, ma deve infliggere un plus di carattere punitivo
che nella confisca del profitto lordo manca, assistendo la medesima ad una funzione compensativa
simile a quella svolta nell’ordinamento civilistico dalle disposizioni sull’arricchimento
ingiustificato (artt. 2033 – 2040 cod. civ.)22. Conclusivamente, per garantire la compensazione della
collettività, secondo questo orientamento, deve essere sottratto all’autore del reato una somma o
delle cose corrispondenti al valore dello spostamento patrimoniale che si è avuto, a causa
dell’illecito, dalla collettività al reo, e non vengono, invece, in rilievo gli spostamenti patrimoniali
in senso inverso, e, quindi, le eventuali spese sostenute23. Ciò non toglie, sempre secondo questo
Autore, che il principio del lordo possa subire delle deroghe o un ridimensionamento quando il
profitto non è del tutto illecito: ciò sarebbe necessario, in particolare, in relazione alle imprese,
nell’ambito della cui attività può essere difficile distinguere gli investimenti leciti da quelli illeciti.
L’esigenza sarebbe, ancora una volta, quella di distinguere quanto realizzato per consumare il reato
in sé e quanto speso per fornire una prestazione lecita, pur nell’ambito di un affare illecito (ed in tal
senso secondo l’Autore si tratterebbe di sottrarre alla confisca i costi diretti delle prestazioni lecite
fornite nell’ambito di un affare illecito, ma non le spese generali che rientrano nello svolgimento

17
V. MAUGERI, Le moderne sanzioni patrimoniali tra funzionalità e garantismo, cit.
18
MAUGERI, op. cit., p. 504.
19
MAUGERI, op. cit., p. 517.
20
MAUGERI, op. cit., p. 569.
21
MAUGERI, op. cit., p. 570.
22
Per FORNARI, op. cit., p. 82 invece, solo la confisca del “netto” assumerebbe valenza compensativa, mentre quella
del lordo vanterebbe un più evidente significato di deterrenza.
23
MAUGERI, op. cit., p. 571.
dell’attività d’impresa funzionalizzata alla consumazione dell’affare illecito, fermo comunque
l’onere che grava su chi li reclama di fornire la prova dei costi “diretti”)24.

4.La nozione di profitto elaborata dalle Sezioni Unite. Affrontando, dunque, per la prima volta la
materia della responsabilità da reato degli enti collettivi, le Sezioni Unite, dopo aver ripercorso la
genesi del d. lgs. n. 231 del 2001, hanno svolto un'articolata panoramica dell’istituto della confisca,
prima di approdare all’analisi della nozione di profitto.
In proposito la sentenza in commento ha avuto modo di ribadire alcune conclusioni già presenti
nella giurisprudenza di legittimità, evidenziando come il composito panorama delle fonti
(codicistiche e speciali) che utilizzano la misura ablativa ne impediscano una ricostruzione in
termini unitari e soprattutto l’esclusiva catalogazione entro il rigido schema della misura di
sicurezza patrimoniale25. Osservazione che secondo il Supremo Collegio si ripropone anche con
riguardo alla confisca contemplata dall’autonoma disciplina della responsabilità degli enti.
La Corte – del tutto condivisibilmente - respinge infatti i tentativi di ricondurre ad unum le tre
figure di confisca previste, rispettivamente, dagli artt. 6, quinto comma, 15, quarto comma, e 19 del
d. lgs. n. 231 del 2001, che pure hanno caratterizzato alcune impostazioni dottrinarie e i motivi di
alcuni dei ricorsi esaminati dal Supremo Collegio26.
In proposito la Sezioni Unita puntualizzano come la prima forma di confisca, conseguente non già
all’affermazione, bensì alla negazione della responsabilità dell’ente, non possa che essere concepita
come strumento volto a ristabilire l’equilibrio economico alterato dal reato-presupposto, i cui effetti
sono comunque andati a vantaggio dell’ente collettivo, che finirebbe dunque per conseguire
altrimenti (e seppure incolpevolmente) «un profitto geneticamente illecito». Quanto alla seconda (e
cioè la confisca del profitto generato dalla gestione commissariale dell’ente) la Corte sottolinea la
evidente natura di sanzione sostitutiva che assume la misura ablativa, chiamata a privare l’ente del
profitto generato dalla gestione posteriore alla consumazione dell’illecito sostituita dal giudice
all’applicazione delle sanzioni interdittive.
Quanto alla terza forma di confisca, la sentenza in commento conclude trattarsi di una sanzione
principale, obbligatoria ed autonoma rispetto alle altre sanzioni riservate all’ente dall’art. 9 del d.
lgs. n. 231 del 2001, in ciò accordandosi con l’unanime opinione manifestata sino ad ora dalla
giurisprudenza di legittimità27.
Affrontando lo specifico tema del profitto del reato, anche la Corte sottolinea innanzi tutto come in
nessuno dei contesti normativi in cui viene menzionato sia offerta la relativa nozione. E la
genericità del dettato normativo non è, per le Sezioni Unite, terreno di coltura per l’antinomia

24
MAUGERI, op. cit., p. 572.
25
Sostanzialmente nello stesso senso si v. in dottrina COMPAGNA, L’interpretazione della nozione di profitto nella
confisca per equivalente, in Dir. Pen. proc., 2007, p. 1638, per il quale è “azzardata” l’individuazione di una ratio
unitaria delle diverse ipotesi di confisca e LOTTINI, Il sistema sanzionatorio, in Responsabilità degli enti per illeciti
amministrativi dipendenti da reato a cura di G. Garuti, Padova, 2002, p. 166, per il quale la confisca in generale è
oramai un nomen iuris attribuito a vari istituti sempre meno riconducibili ad un unico comune denominatore. Sul punto
va ricordato poi che già in epoca risalente la Corte Costituzionale avvertiva come «la confisca può presentarsi, nelle
leggi che la prevedono, con varia natura giuridica» e che «il suo contenuto, infatti, è sempre la stessa privazione di beni
economici, ma questa può essere disposta per diversi motivi e indirizzata a varie finalità, si da assumere, volta per volta,
natura e funzione di pena, o di misura di sicurezza, ovvero anche di misura giuridica civile e amministrativa», talchè ciò
che viene in considerazione «non è una astratta e generica figura di confisca, ma, in concreto, la confisca così come
risulta da una determinata legge»: v. Corte Cost. sent. 25 maggio 1961, n. 29; nello stesso senso anche sent. 4 giugno
1964, n. 46, entrambe citate anche nella sentenza in commento.
26
V. ALESSANDRI, Criminalità economica e confisca del profitto, cit., p. 2134, che pone per l’appunto l’accento sul
presunto carattere unitario della nozione di profitto accolta negli artt. 6, 12, 13, 16, 19, 23, 25 e 25 ter del decreto,
identificando lo stesso nel beneficio economico residuale ricavato dal reato.
27
Si vedano in questo senso Cass. Sez. II, 14 giugno 2006, n. 31989, Troso, in CED 235128; Cass Sez. II, 21 dicembre
2006, n. 316, Spera ed altri, in CED 235363; Cass. Sez. II, 12 dicembre 2006, n. 3629, Ideal Standard Italia srl, in CED
235814.
“profitto lordo” - ”profitto netto”, che, come si è visto, è invece promossa dalla dottrina
maggioritaria.
In proposito la Corte afferma, anzi, come la mancanza di specificazioni a livello normativo
consente, sul piano definitorio, solo di ribadire al tradizionale orientamento accolto dalla
giurisprudenza di legittimità 28 in relazione al profitto oggetto di confisca ai sensi dell’art. 240 cod.
pen., secondo cui lo stesso si identificherebbe nel vantaggio economico ritratto dal reato, ma allo
stesso tempo ricorda che, sempre in adesione all’interpretazione accolta nella giurisprudenza del
Supremo Collegio, l’espressione deve essere intesa nel senso di «beneficio aggiunto di tipo
patrimoniale» e non già di «utile netto» o «reddito».
Anche nell’identificazione del criterio di perimentrazione dell’area vantaggi patrimoniali comunque
collegabili al reato che devono essere fatti rientrare nell’area del profitto, le Sezioni Unite
dimostrano di voler ribadire un orientamento oramai più che consolidato nella giurisprudenza della
Corte relativa all’art. 240 cod. pen.29 e cioè quello secondo cui la confisca presuppone
l’accertamento della diretta derivazione causale del profitto dalla condotta dell’agente30. Anzi la
pronunzia in commento sottolinea con forza come il parametro della pertinenzialità al reato del
profitto rappresenti «l’effettivo criterio selettivo di ciò che può essere confiscato a tale titolo»,
evidenziando come occorra cioè una correlazione diretta del profitto col reato e una stretta affinità
con l’oggetto di quest’ultimo, dovendosi escludere per converso qualsiasi estensione indiscriminata
o dilatazione indefinita ad ogni e qualsiasi vantaggio patrimoniale che possa comunque scaturire,
pur in difetto di un nesso diretto di causalità, dall’illecito.
Ciò premesso, le Sezioni Unite hanno verificato l’esportabilità degli illustrati approdi interpretativi
nella disciplina del d. lgs. n. 231 del 2001. Dopo aver osservato come anche il termine profitto
assuma significati diversi nelle numerose disposizioni del decreto che lo menzionano, il Supremo
Collegio ha così chiarito come il tenore degli artt. 6, 17 e 19 del decreto ed alcuni passi della
Relazione allo schema del d. lgs. n. 231 del 2001 consentano di accogliere anche in quest’ambito il
vincolo di pertinenzialità al reato come unico effettivo criterio di selezione dei vantaggi economici
confiscabili, sottolineando come la misura ablativa, prevista anche per l’ipotesi in cui l’ente non
venga ritenuto responsabile, assuma una effettiva generale funzione di riequilibrio dello status quo
economico antecedente alla consumazione del reato-presupposto, circostanza che contrasta con la
tesi che vorrebbe identificare il profitto esclusivamente con “l’utile netto” ricavato dall’ente.
In definitiva secondo la Corte il profitto oggetto di confisca ai sensi dell’art. 19 del d. lgs. n. 231 del
2001 deve essere inteso come complesso dei vantaggi economici tratti dall’illecito e a questo
strettamente pertinenti, dovendosi escludere, ai fini della loro identificazione, il ricorso a parametri
valutativi di tipo aziendalistico. Del resto, osservano i giudici di legittimità il crimine in alcun
ordinamento costituisce un legittimo titolo di acquisto di diritti su di un bene e il reo non può quindi
rifarsi dei costi affrontati per la sua realizzazione cercando di trasferire sullo Stato – come in
definitiva risulterebbe accedendo alla teoria del “profitto netto” – il rischio che l’attività illecita
determini una perdita economica.
Fissato in questi termini il principio generale, la sentenza in commento ne ha però precisato la
portata in relazione all’ipotesi che l’illecito presupponga la consumazione di un reato che si
inserisca occasionalmente e strumentalmente nella dinamica dello svolgimento di rapporti di natura
sinallagmatica instaurati nell’ambito dell’attività d’impresa.
In particolare il Supremo Collegio, richiamando la distinzione di matrice civilistica tra “reato
contratto” e “reato in contratto”, rileva come nell’ambito dell’attività dell’ente è necessario
28
V. Cass. Sez. Un., 3 luglio 1996, Chabni, cit. e Cass. Sez. Un., 24 maggio 2004, Curatela fall. in proc. Romagnoli, in
Cass.pen., 2004, p. 3097.
29
V. in questo senso Cass. Sez. Un., 25 ottobre 2007, Miragliotta, in CED 238700; Cass. Sez. Un. 24 maggio 2004,
Curatela fall. in proc. Focarelli, in Cass.pen., 2004, p. 3097; Cass. Sez. Un. 24 maggio 2004, Curatela fall. in proc.
Romagnoli, cit; Cass. Sez. II 14 giugno 2006, Chetta, in CED 235356; Cass. Sez. VI 4 novembre 2003, Falci, in CED
227326.
30
Che anche parte della dottrina continua ad indicare come l’unico parametro di selezione del profitto confiscabile: v. in
questo senso FONDAROLI, op. cit., p. 60.
distinguere tra il caso in cui il reato si identifichi con la stipula di un contratto a prescindere dalla
sua esecuzione da quello in cui il comportamento penalmente rilevante vada ad incidere sulla fase
di formazione della volontà contrattuale ovvero su quella di esecuzione del programma negoziale.
In tale seconda ipotesi, secondo la Corte, è possibile enucleare autonomi aspetti leciti del rapporto
cui può essere collegato un profitto non direttamente ricollegabile al reato. In altri termini, le
Sezioni Unite hanno sottolineato che la genesi illecita di un rapporto giuridico che comporta
obblighi sinallagmatici destinati anche a protrarsi nel tempo, non necessariamente connota di
illiceità l’intera evoluzione dello stesso rapporto, nel cui ambito dunque possono essere poste in
essere attività lecite estranee al reato.
In definitiva la sentenza in commento sottolinea che proprio applicando il principio di
pertinenzialità del profitto al reato è necessario distinguere, nell’ambito di un rapporto complesso
che non si esaurisce nella consumazione di quest’ultimo, i profili leciti da quelli illeciti destinati a
ripercuotersi nella sfera di responsabilità dell’ente collettivo.
Affrontando il caso oggetto del ricorso – un appalto pubblico di opere e servizi acquisito a seguito
di aggiudicazione inquinata dalla consumazione di una truffa – la Corte ha precisato ulteriormente
che le attività poste in essere dall’appaltatore in esecuzione degli obblighi contrattuali assunti sono
il frutto di una iniziativa lecita che interrompe qualsiasi collegamento causale con la condotta
illecita e dunque il corrispettivo tratto da una prestazione regolarmente eseguita dall’obbligato ed
accettata dalla controparte non può costituire una componente del profitto confiscabile in quanto
non può ritenersi sine causa o sine iure.
Ma la Suprema Corte ha definito ulteriormente il principio illustrato –ed è questo lo spunto
esegetico decisamente più interessante - ancorandolo alla previsione dell’art. 19 del d. lgs. n. 231
del 2001, nella parte in cui la disposizione in oggetto sottrae alla confisca quella parte del profitto
che può essere restituita al danneggiato. In tal senso la pronunzia precisa che nell’ambito di un
rapporto sinallagmatico a maggior ragione l’utilità tratta dal danneggiato dallo svolgimento di
prestazioni lecite, seppure incardinate nell’ambito di un affare illecito, non può essere imputata
all’ente come profitto illecito. Per le Sezioni Unite, dunque, deve essere in definitiva sottratto alla
confisca il corrispettivo ricevuto per il compimento di quelle prestazioni, ancorchè nei limiti
dell’utilità conseguita dal danneggiato a causa del loro svolgimento.

5.Una soluzione da condividere. L’articolato ed esaustivo percorso seguito dalle Sezioni Unite ha
portato ad una conclusione che ci sembra senza dubbio da condividere. Ma al di là di questa
considerazione, quella che deve essere rimarcata è la stessa opportunità del tempestivo intervento
dei giudici di legittimità, in grado di prevenire pericolose derive nell’applicazione degli istituti
connessi all’ablazione del profitto del reato.
Come più volte ricordato, la scarsa elaborazione della relativa nozione, tanto da parte del legislatore
che degli interpreti, sconta la scarsa rilevanza statistica che la confisca del profitto ha avuto nel
passato. Ma non è dubbio che l’introduzione nell’ordinamento penale della confisca per equivalente
e della responsabilità da reato degli enti collettivi abbiano determinato nella prassi una vera e
propria accelerazione della “caccia” ai proventi del reato. In tal senso la sentenza in commento è
dunque in ogni caso destinata a costituire per il futuro un importante punto di riferimento.
Ma come accennato, anche nel suo contenuto, la decisione assunta dalla Corte deve essere salutata
con favore. Infatti le teorie, di matrice dottrinaria, sull’identificazione del profitto del reato
esclusivamente con l’utile netto ricavato dalla sua consumazione non vantano solide fondamenta nel
contesto normativo di riferimento31, nel mentre, a monte, ritenere che il delitto –anche e soprattutto
quello economico - non debba tradursi anche in un costo per il suo autore, pena la configurazione di
una cripto-sanzione, è contestazione eventualmente destinata ad assumere valore con riguardo alla
confisca penale (ostinatamente imprigionata nella sempre meno credibile veste della misura di

31
Cfr. in proposito BASSI – EPIDENDIO, Enti e responsabilità da reato, Milano, 2006, 301 e ss.
sicurezza)32, ma che certo non può essere sollevata in relazione alla confisca prevista dall’art. 19 del
d. lgs. n. 231 del 2001, che senza ambiguità il legislatore ha voluto e modellato come sanzione
principale.
Su quest’ultimo punto le Sezioni Unite sono state anzi assai esplicite, distinguendo la differente
funzione che la misura ablativa assume nei diversi contesti in cui è prevista nel decreto legislativo.
Dunque le obiezioni sollevate dalla dottrina circa la necessità che la confisca riguardi solo il profitto
netto, venendo altrimenti contraddetta la sua funzione riequilibratrice e compensativa33, al più
potrebbero evidenziare la necessità di una diversa modulazione dell’oggetto della confisca
nell’ipotesi di cui all’art. 6 del d. lgs. n. 231 del 2001, ma non possono certo essere condivise con
riguardo alla confisca-sanzione, cui devono riconoscersi finalità ulteriori.
In realtà la sentenza in commento, nel respingere in radice l’alternativa tra profitto lordo e profitto
netto e nel riaffermare per converso il criterio di diretta pertinenzialità come unico parametro di
selezione dell’oggetto della confisca, ha restituito al dato normativo un contenuto sufficientemente
preciso, attenuandone l’incontestabile genericità di formulazione e consentendo di evitare esiti
interpretativi incontrollabili.
Ed in effetti la pretesa di limitare la confisca al solo utile netto ricavato dal reato sembra ispirata
più che altro dal timore che la nozione di profitto assuma nella prassi una attitudine espansiva dagli
esiti devastanti per le imprese34. Ma oltre a non trovare un effettivo addentellato nelle norme che
disciplinano la responsabilità degli enti, la tesi non chiarisce come l’utile dovrebbe essere
determinato o anche se lo stesso debba essere inteso come puro residuo contabile di segno positivo
(confondendo in tal caso l’utile dell’operazione economica sottostante all’illecito con il profitto
ricavato da quest’ultimo35). Senza mai affermarlo esplicitamente poi, i fautori di questa posizione
finiscono per ammettere che i “costi di produzione” dell’illecito debbano essere recuperati dall’ente,
esito difficilmente compatibile con l’effettiva intenzione del legislatore e certamente in contrasto
con le linee evolutive dell’istituto della confisca dei proventi del reato.
In realtà la sentenza in commento mette in luce come alla base dell’alternativa profitto lordo –
profitto netto vi sia l’equivoco per cui la consumazione del reato-presupposto non consentirebbe di
distinguerlo dall’attività lecita d’impresa alla cui realizzazione è strumentale.
Non è invece necessario distinguere tra ricavo ed utile, quanto distinguere tra provento illecito e
provento lecito, limitando solo al primo la confisca36. Ed in tal senso appare condivisibile il
richiamo operato dalla Corte al primo comma dell’art. 19 del d. lgs. n. 231 del 2001, che
effettivamente, nel vietare la confisca della parte del profitto che può essere oggetto di restituzione
al danneggiato dal reato, offre un ancoraggio positivo in grado di guidare l’interprete
nell’applicazione della norma, evidenziando non tanto l’intenzione del legislatore di non
trasformare la confisca in una sorta di doppione della sanzione pecuniaria, quanto quella, per
l’appunto, di espropriare quanto effettivamente pervenuto alla persona giuridica in conseguenza
dell’attività illecita.
Seguendo questa impostazione le Sezioni Unite in definitiva affermano che l’area del profitto
confiscabile può mutare a seconda del tipo di reato-presupposto ed anche delle modalità con cui
quest’ultimo interferisce con l’esercizio dell’attività lecita37. Ciò non significa attribuire alla

32
Cfr. ALESSANDRI, Confisca nel diritto penale, in Dig. Pen., III, Torino, 1989, p. 39, che condivisibilmente ritiene
quella attribuita dal codice penale una qualificazione «più ideologica che classificatoria».
33
V. PELLISSERO, La responsabilità degli enti, in ANTOLISEI, Manuale di diritto penale, Leggi complementari, a
cura di C.F. Grosso, I, Milano , 2007, p. 898 e FORNARI, La confisca del profitto nei confronti dell’ente responsabile
di corruzione: profili problematici, loc. ult. cit..
34
Cfr. ad esempio FORNARI, op. cit., p. 82 e COMPAGNA, L’interpretazione della nozione di profitto nella confisca
per equivalente, in Dir. Pen. proc., 2007, p. 1638.
35
V. in questo senso AMATO, Precisati i requisiti e le condizioni per sostenere la responsabilità degli enti, in Guida
Dir., 2006, p. 69.
36
In dottrina avevano già sostenuto questa impostazione BASSI – EPIDENDIO, op. cit.
37
Cenni in tal senso si rinvengono in PRETE, La confisca-sanzione: un difficile cammino, in Resp. Amm. Soc. Enti,
2007, n. 4, p. 105.
nozione di profitto una geometria variabile – giacchè, si ripete, questa rimane saldamente ancorata
al rapporto di dipendenza tra provento e reato –, ma evidenziare che il vincolo di pertinenzialità
deve essere accertato in concreto distinguendo tra quanto effettivamente pervenuto all’ente
collettivo come immediata conseguenza dell’illecito.
Nel caso sottoposto alla sua attenzione – e cioè quello dell’appalto di opere o di servizi aggiudicato
con frode – la Corte ha distinto, nella remunerazione delle prestazioni (di per sé lecite ed anzi
dovute) fornite in esecuzione del contratto, il corrispettivo delle stesse dalla remunerazione
dell’attività d’impresa.
Il Supremo Collegio, dunque, lungi dall’operare una differenziazione tra profitto lordo e profitto
netto, non ha consentito all’ente di scomputare i costi sostenuti per la consumazione del reato, bensì
ha ritenuto - del tutto condivisibilmente - che il corrispettivo corrispondente al valore intrinseco
delle opere e dei servizi resi a vantaggio del soggetto passivo del reato, non possano ritenersi una
conseguenza immediata e diretta dello stesso, bensì dell’attività lecita posta in essere dopo la sua
commissione. Non così per l’eventuale guadagno remunerativo del rischio d’impresa lucrato
dall’ente, il cui conseguimento è la stessa “causa” della frode perpetrata per l’aggiudicazione
dell’appalto.

6.L’ablazione del profitto nell’illecito plurisoggettivo. Nel risolvere la questione rimessa alla sua
decisione, le Sezioni Unite si sono altresì occupate, tra l’altro, di un ulteriore profilo ad essa
connesso, cercando di ricomporre preventivamente il potenziale contrasto latente nella
giurisprudenza della Corte.
Il profilo in oggetto è quello dell’imputazione del profitto nel caso di illecito plurisoggettivo e più
specificamente riguarda la possibilità di eseguire un sequestro preventivo a fini di confisca nella
forma per equivalente nei confronti di uno solo dei soggetti responsabili dell’illecito per l’intero
valore del profitto accertato.
Il problema della ripartizione della confisca del profitto in caso di illecito plurisoggettivo si è
presentato soprattutto con riguardo all’ipotesi della confisca di valore prevista dagli artt. 322 ter e
640 quater cod. pen., qualificata dalla giurisprudenza di legittimità come sanzione38.
Fondandosi su questa classificazione della confisca la stessa giurisprudenza di legittimità è poi
giunta ad affermare che nell’ipotesi di illecito commesso da una pluralità di soggetti deve
applicarsi il principio solidaristico che informa la disciplina del concorso delle persone nel reato,
implicando l’imputazione dell’intera azione delittuosa e dell’effetto conseguente in capo a ciascun
concorrente e comportando solidarietà nella pena.
In tal senso, secondo un consolidato orientamento della Corte, una volta perduta l’individualità
storica del profitto illecito, la confisca per equivalente può interessare indifferentemente ciascuno
dei concorrenti anche per l’intera entità del profitto accertato (ed entro i limiti quantitativi dello
stesso), non essendo esso ricollegato all'arricchimento personale di ciascuno dei correi bensì alla
corresponsabilità di tutti nella commissione dell'illecito, senza dunque che il riparto del relativo
onere tra i concorrenti rilevi in qualche modo39. E considerazioni analoghe sono state utilizzate
anche dai giudici di legittimità anche con specifico riferimento ad una ipotesi di concorso tra
confisca penale e confisca prevista proprio dall’art. 19 del d. lgs. n. 231 del 200140.
Sul punto la giurisprudenza della Corte si è pronunziata in senso apparentemente contrastante con
l’indirizzo illustrato, affermando che in caso di pluralità di indagati, il sequestro preventivo

38
V. in questo senso Cass. Sez. Un., 25 ottobre 2005, Muci, in Cass.pen., 2006, p. 1382; Cass. Sez. V, 16 gennaio 2004,
Napolitano, in CED 228750; Cass. Sez. II, 6 luglio 2006, Carere, in CED 234849.
39
V. in questo senso Cass. Sez. II, 20 settembre 2007, Angelucci, in CED 238160; Cass. Sez. II, 21 febbraio 2007,
Alfieri ed altri, in CED 235842; Cass. Sez. II, 6 luglio 2006, n. 30729, Carere, cit.; Sez. V, 16 gennaio 2004, n. 15445,
Napolitano, cit.
40
V. Cass. Sez. II, 14 giugno 2006, Troso, in CED 235128.
funzionale alla confisca per equivalente non può eccedere per ciascuno dei concorrenti la misura
della quota di profitto del reato a lui attribuibile41.
La sentenza in commento, nell’affrontare una fattispecie plurisoggettiva che vede per la prima volta
per protagoniste esclusivamente persone giuridiche, recepisce interamente queste argomentazioni,
affermando la validità del principio enucleato dalla giurisprudenza maggioritaria anche nell’ambito
applicativo della responsabilità da reato degli enti.
Quanto all’orientamento minoritario, la Corte si preoccupa di evidenziare come il prospettato
contrasto risulti soltanto apparente e come i due indirizzi siano invero complementari. Il Supremo
Collegio, infatti, riconduce i due principi ad unità affermando che, ove la natura della fattispecie
concreta e dei rapporti economici ad essa sottostanti non consenta d’individuare, allo stato degli atti,
la quota di profitto concretamente attribuibile a ciascun concorrente o la sua esatta quantificazione,
il sequestro preventivo deve essere disposto per l’intero importo del profitto nei confronti di
ciascuno - logicamente senza alcuna duplicazione e nel rispetto dei canoni della solidarietà interna
tra i concorrenti -, mentre nel caso contrario, quando cioè la quota di profitto attribuibile al singolo
concorrente sia individuata o risulti chiaramente individuabile, la cautela potrà essergli applicata
esclusivamente entro tali limiti.

41
V. Cass. Sez. VI, 23 giugno 2006, p.m. in proc. Maniglia, in CED 234850 e Cass. Sez. VI, 5 giugno 2007,
Giallongo, in CED 236900.

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