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8 gennaio 2011
di Gisella Ligios
Ad un primo sguardo, la scelta del regime è inaspettata e di difficile interpretazione. Kim Jong-un è
infatti il terzogenito del dittatore nordcoreano, e le scarse notizie che si hanno di lui in Occidente lo
descrivono un giovane privo di esperienza nelle faccende politiche e militari. Le ipotesi relative ad
un periodo di studio in Svizzera darebbero corpo all’idea che egli abbia vissuto a lungo lontano dal
suo Paese, circostanza che lo priverebbe di una sufficiente conoscenza della situazione interna. Gli
osservatori sudcoreani e occidentali hanno tracciato svariate ipotesi sulla successione politica,
accelerata dal peggioramento delle condizioni di salute del Caro Leader.
Per comprendere appieno cosa stia avvenendo a Pyongyang, occorre tener presente che fin dalla sua
fondazione, la Corea del Nord, che risponde alla peculiare definizione di “monarchia comunista”, è
stata governata rispettando determinati equilibri di potere. Più precisamente, la forza del regime è
concentrata nelle mani dell’esercito, ritenuto il vero detentore del potere. Il culto della personalità
espresso dalla figura del Grande Leader è stato a lungo un collante per Pyongyang, che si presenta
come una società fortemente gerarchizzata. L’egualitarismo promesso dal regime comunista non si
è mai realizzato, trattandosi di un Paese caratterizzato da forti diseguaglianze economiche e sociali.
Ad uno sguardo più approfondito emerge una rigida stratificazione sociale di tipo piramidale, al cui
vertice siedono i funzionari governativi di alto livello. Seguono poi le forze dell’ordine e il
Il Congresso e la conseguente nomina ufficiale di Kim Jong-un non mancano di destare curiosità e
apprensione tanto in Occidente quanto in Asia. In particolare, occorre ricordare che nell’ambito dei
Colloqui a Sei, Pechino ha rivestito il ruolo di mediatore fra la Comunità internazionale e il regime
del Caro Leader. Ad oggi la Cina resta dunque l’unico paese a poter esercitare una certa influenza
su di esso, in virtù degli ingenti aiuti che creano una vera dipendenza economica della Corea del
Nord da Pechino.
Il legame fra Pechino e Pyongyang viene costantemente rinnovato anche da periodiche visite di
Kim Jong-il in Cina. Nell’ambito della visita precedente al Congresso, avvenuta nell’agosto 2010, si
può supporre che il presidente Hu Jintao abbia caldeggiato l’adozione di riforme sociali ed
economiche che renderebbero il Paese più solido dal punto di vista economico e meno dipendente
dall’aiuto esterno.
Pechino ha dunque un duplice interesse: da un lato preservare la posizione privilegiata quale
potenza influente e riconosciuta da un regime imprevedibile e pericoloso. Si tratta, questa, di
una carta che la Cina gioca favorevolmente già da tempo nelle relazioni con i Paesi occidentali e in
particolare con gli Stati Uniti. Dall’altro lato, deve garantirsi il mantenimento della stabilità nella
penisola, in modo da scongiurare la sempre più verosimile eventualità di un collasso economico che
comporterebbe enormi costi in termini di assistenza economica e assorbimento dei profughi.
Pechino potrebbe dunque accontentarsi della piccola trasformazione in atto e rinunciare e ben più
alti stravolgimenti, in quanto l’obiettivo irrinunciabile rimane preservare la stabilità politica
nell’area.
Oltre Pechino, anche a Washington si attende con ansia l’esito dell’operazione politica in corso nel
Paese asiatico. La prospettiva di un complicato processo di successione preoccupa gli Stati Uniti fin
dal 2008, quando iniziarono a circolare ipotesi sul peggioramento di salute del Caro Leader.
Con la ufficializzazione dell’investitura di Kim Jong-un al Congresso di settembre, la Casa Bianca
si interroga circa l’impatto della successione sulle relazioni con la Corea. L’incertezza maggiore è
certamente legata alla durata della transizione, e dunque alla eventualità di una lenta stabilizzazione
del regime o di una sua implosione.
A tal proposito gli Stati Uniti potrebbero preferire la prima opzione, ovvero un processo graduale di
avvicendamento atto a scongiurare il rischio di una lotta tra fazioni dall’esito incerto. Nel caso in
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cui la transizione avvenisse senza intoppi secondo la direttive di Kim Jong-il, vi sarebbe certamente
una prima fase inevitabile di postura assertiva. Tuttavia in seguito questa potrebbe lasciare spazio
ad una maggiore apertura della nuova leadership, che potrebbe mostrarsi più affidabile in ambito di
negoziazioni.
Al contrario, una mancata stabilizzazione e la conseguente lotta interna aumenterebbero il rischio di
una egemonia dell’Esercito, una componente fortemente oltranzista. Il risultato potrebbe essere in
tal caso lo stallo definitivo dei negoziati per la denuclearizzazione, circostanza poco auspicabile
vista la recente aggressione militare mossa verso l’isola sudcoreana di Yeonpyeong.
Fin quando il processo di successione non sarà completato e non sarà emersa una fisionomia chiara
della nuova leadership, è probabile aspettarsi un approccio fermo ma allo stesso tempo attendista da
parte degli Stati Uniti, nel proseguimento di quella che è stata definita “pazienza strategica”.
L’Amministrazione Obama, a fronte di ulteriore ostruzionismo politico o di nuovi atti di guerra
come quello del 23 novembre, renderà più visibile la propria presenza militare nell’area del Mar
Giallo.
L’ipotesi di una delega della questione nordcoreana a Pechino è dunque da accantonare. A seguito
delle azioni intraprese da Pyongyang nell’ultimo anno, gli Stati Uniti hanno rafforzato il loro ruolo
nell’area, ormai reso stabile dalla presenza di 28.500 soldati statunitensi di stanza in Corea del Sud.
A seguito dell’attacco a sorpresa a Yeonpyeong, inoltre, le esercitazioni dell’artiglieria sudcoreana
sono state condotte con la presenza di personale militare statunitense. L’impegno americano nei
confronti di Seoul si è intensificato ulteriormente con l’arrivo della portaerei USS George
Washington nelle acque del Mar Giallo, che si è unita alle forze sudcoreane per un’intensa serie di
esercitazioni congiunte e per rispondere all’elevato stato d’allerta nell’area. Si tratta di un segnale
forte e chiaro diretto a Pyongyang e a Pechino, quest’ultima criticata informalmente dagli Stati
Uniti di non avere assunto una posizione coerente a fronte dei ripetuti atti di aggressione
nordcoreani.
Una delle potenze coinvolte nella complessa questione coreana è certamente Mosca. La
Federazione Russa, tuttavia, ha da sempre rivestito un ruolo marginale nell’ambito dei Colloqui a
Sei, a causa della mancata elaborazione di una politica nordcoreana autonoma. Alla base di questa
inerzia politica vi è l’incapacità di definire le sue priorità nell’area, delegando il lavoro diplomatico
a Stati Uniti e Cina.
Il 2010 è stato dunque un anno particolarmente intenso per la penisola coreana; in particolare il
mese di novembre ha segnato il picco più alto di tensione. Pochi giorni dopo l’annuncio
dell’esistenza di una nuova struttura di arricchimento dell’uranio, che ha gettato nuove ombre sulle
ambizioni nucleari di Pyongyang, il regime ha portato la Comunità internazionale a un passo dalla
crisi con l’aggressione all’isola di Yeonpyeong, avvenuta il 23 novembre.
Le forze militari nordcoreane hanno aperto il fuoco su Yeonpyeong, l’isola maggiore di un piccolo
arcipelago situato di poco al di sotto del Northern Limit Line. I colpi di artiglieria sono stati 170, ed
hanno provocato la morte di due militari e due civili, oltre che il ferimento di diverse persone. La
Corea del Sud ha sparato in risposta circa 80 colpi di artiglieria, ma ha evitato una rappresaglia
massiccia che avrebbe portato allo scoppio di una guerra.
L’azione di Pyongyang riconduce alla precisa volontà di mantenere viva la questione coreana
nell’agenda di Washington e delle altre potenze. Con questa aggressione, la Corea del Nord ha
inteso assicurarsi che gli Stati Uniti e Seoul percepiscano la risolutezza del regime. Si è trattato di
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