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CENTRO CULTURALE DI MILANO

Modernità contro modernismo


Ovvero la grazia del nostro tempo

di
Fabrice Hadjadj, filosofo, scrittore e drammaturgo

Aula Magna dell’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano


Giovedì 3 marzo 2011

Traduzione di Daniela Gallotti


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Introduzione

1. Ai conferenzieri che si sono succeduti durante questo ciclo di incontri, e in particolar modo
a Olivier Rey che mi ha preceduto nel mese di gennaio in questo luogo, è stata data come
spunto di partenza della riflessione una frase di Charles Péguy tratta dal suo Dialogo della
storia e dell'anima carnale, frase che vi riporto integralmente: «Per la prima volta, per la
prima volta dopo Gesù, abbiamo visto, sotto i nostri occhi, abbiamo visto sorgere un mondo
nuovo, se non una città; una società nuova formarsi, se non una città; la società moderna, il
mondo moderno; un mondo, una società costituirsi, o almeno assemblarsi, (nascere e)
crescere, dopo Gesù, senza Gesù1». Péguy aggiunge nella frase successiva questa precisazione
decisiva: «E ciò che è più tremendo, amico mio, non bisogna negarlo, è che ci sono riusciti».

2. In queste parole si trova una definizione della modernità. Questa definizione contiene tre
elementi. Il primo elemento è cronologico: la modernità è un tempo che si situa dopo la
venuta di Gesù.
Il secondo elemento è ideologico: la modernità rappresenta una società senza Gesù, anche se
non realmente senza Dio, poiché se Gesù è il Verbo creatore e redentore di ogni cosa,
dobbiamo concordare col prologo di San Giovanni che senza di lui niente è stato fatto di tutto
ciò che esiste (Giovanni 1, 3): la modernità, tuttavia, rivendica il diritto di costituirsi senza
Gesù, e quindi possiamo dire che l'assenza di Dio e di redenzione costituisce la sua ipotesi di
lavoro.
Il terzo elemento è pratico: questa ipotesi di lavoro raggiunge risultati notevoli. La modenità
ci è riuscita, dice Péguy. Questo non significa soltanto che ha concesso maggiori ricchezze
materiali, una migliore salute fisica e via discorrendo, quanto piuttosto che la modernità pensa
a se stessa in termini di successo. L'efficienza, la performance, il progresso sono criteri
essenziali per la modernità.

La proliferazione dei vangeli

3. Prima di disquisire su questi elementi di definizione, vorrei fare due osservazioni


preliminari sul contesto di questa citazione, in maniera tale da evitare interpretazioni erronee.
La prima osservazione è semplice: prendere come punto di partenza una frase di Péguy invece
di una frase della Bibbia o degli Antichi costituisce di per sé un atto moderno. Uno dei tratti
propri della modernità risiede tanto nella sua iconoclastia quanto nella sua propensione a
costruire icone se non addirittura idoli. Critica la Bibbia come un testo profano, ma fa
assurgere opere profane al ruolo di testi sacri.
Due mesi fa, proprio qui, il mio amico Olivier Rey inaugurava la sua conferenza con la frase
di Nietzsche: «Dio è morto». Perché partire da una frase di Nietzsche come parola d'autorià?
Perché per molti questa frase è come un vangelo. D'altra parte anche io avevo pensato di
cominciare con le parole di Rimbaud, tratte dalle ultime righe di Una stagione all'inferno:
«Bisogna essere assolutamente moderni». Ecco una pratica su cui non ci si interroga a
sufficienza: citare Nietzsche, Rimbaud o Péguy nel medesimo modo con cui si consulta la

1
Dialogue de l'histoire et de l'âme charnelle [1912], in Œuvres en prose, Gallimard, coll. Bibliothèque de
la pléiade, t. III, 1992, p. 697-698. In versione italiana: Veronica. Dialogo della storia con l'anima carnale in
«Lui è qui», BUR, Milano 1997, p. 126.
3

Bibbia è un atto di modernità, quand'anche si volesse con quello strumento criticare la


modernità. Il problema della modernità non consiste tanto nel rifiutare il Vangelo quanto di
vedere vangeli ovunque. Il vangelo secondo Marx, il vangelo secondo Hitler, il vangelo
secondo Monica Bellucci sono solo alcuni esempi... (senza insistere su questo punto vorrei
dire che di questi tre esempi è senza dubbio il vangelo secondo Monica quello che mi
interessa di più, perché è un punto di partenza più concreto, come Beatrice per Dante o come
Aspasia per Leopardi).

4. In breve, il moderno crea il proprio vangelo in base al mercato, perché il Vangelo di Gesù
Cristo non è più evidente. La prova è che noi siamo qui a discutere sulla questione di una
società con o senza Gesù. Arrivo dunque a questa constatazione: siamo tutti moderni.
Anche se noi riannodiamo il legame con una tradizione, anche se critichiamo la modernità,
noi siamo prima d'ogni cosa moderni. Di fatto ricollegarsi a una tradizione presuppone che la
tradizione sia stata rotta: il punto di partenza è la rottura e quindi una situazione moderna, in
cui l'eredità degli Antichi non ha più un'evidenza iniziale. Un indizio ci è fornito dalla
tendenza con cui molti cristiani praticano l'ecumenismo e si fanno notare per la loro grande
attenzione nei confronti delle «radici». Oggi ormai, invece di dire Antico Testamento, parlano
di Primo Testamento. Per loro si tratta di non ferire un interlocutore ebreo oppure di
affermare l'importanza della Bibbia nel suo insieme. È quindi in nome della tradizione che
applicano questa sostituzione di aggettivo, ma questo cambiamento presuppone una mentalità
moderna e persino modernista: alle loro orecchie «antico» suona come «caduco». Se non
fossero stati moderni, avrebbero saputo che «antico» non vuol dire «vecchio» e quindi
«caduco», ma «venerabile», «sopravvissuto alla prova dei secoli», «vicino all'origine»...
Avremo modo di ritornare su questo punto, ma potete già comprendere come preoccuparsi
delle proprie «radici» sia qualcosa che possa accadere solo a qualcuno che le radici le abbia
già perse, perché un albero ben piantato, dalle radici profonde, non si interessa più delle sue
radici, ma dei suoi frutti, dei frutti che mostra al sole.

5. Allo stesso modo criticare la modernità è un atto di modernità in sé. Infatti dovrebbe essere
inconcepibile parlare di una «tradizione della modernità». In questo sta la sua fragilità
intrinseca, ma in questo consiste anche la sua implacabile potenza. La modernità è
essenzialmente critica, e quindi autocritica. La sua debolezza sta nel fatto di mancare di
contenuti positivi: rompe con ciò che l'ha preceduta e non esiste se non contro... Ricordate ciò
che diceva Péguy: ella è senza Gesù, ma non dice con chi o con cosa ella è. E comunque,
quand'anche fosse con qualche cosa o con qualcuno, la generazione successiva potrebbe
sempre essere contro... Da questo punto di vista, in Francia, l'elezione del Presidente della
Repubblica a suffragio universale è molto moderna: consente di incoronare un re e di
decapitarlo sette o cinque anni dopo...
La forza della modernità consiste nel saper mettere in scena la sua autocritica, di realizzarne
uno spettacolo e rendersi così invulnerabile dicendo: «L'avevo detto». La modernità denuncia
più di quanto non annunci. S'indigna più di quanto non riconosca la dignità. Ha una grandezza
tutta negativa ed è in questo che dimostra la sua efficienza superiore. Quando si tratta invece
di mostrare una strada positiva, ricade nei più banali luoghi comuni. E questo ci porta dritti
dritti a un paradosso: gli antimoderni sono ancora moderni nella misura in cui sono anti, e al
contrario i veri moderni sono sempre antimoderni in un modo o nell'altro. Chiunque
abbracciasse la modernità senza critica, senza polemica, senza confronto, non potrebbe mai
4

essere davvero moderno.

Dove la grazia può sovrabbondare

6. Arriviamo alla seconda osservazione sul contesto della frase, non all'interno di questa sala
ma all'interno del testo di Péguy in questo caso. Péguy parla di un mondo che è riuscito a
essere «prospero» senza Gesù. E più avanti dichiara che in realtà questa prosperità è un
«disastro». Tuttavia, se non si procede oltre questo punto, si rischia di incorrere in un
malinteso. Si rischia di pensare che Péguy si lamenti, che sogni di vivere in un tempo diverso
dal suo. Ora, una volta constatato questo disastro, Péguy non accusa i moderni: egli attacca i
«parroci», i «sacerdoti», i «cattolici». Li accusa di «incriminare il secolo»: «Essi incolpano,
parlano della disgrazia dei tempi2».
Il fine ultimo di Péguy in questo passaggio, l'apice del suo «dialogo della storia e dell'anima
carnale», non sta nella denuncia della modernità poiché – come abbiamo detto – denunciare la
modernità non vuol dire superare il moderno. Péguy non si lamenta della disgrazia dei tempi
né rimpiange la «cristianità» e non aspetta neppure il «regno sociale del Cristo». Se lo facesse,
cadrebbe nel virtuale.
Si parla molto di virtuale in informatica e in particolar modo nei videogiochi: sembra che i
giovani, invece di vivere la propria vita, si perdano tra avatar digitali. Mentre affondano nella
poltrona, lottano contro mostri, conquistano Paesi, sposano regine... E sono questi eroi che
vengono a sedersi a tavola, sono gli stessi a cui la madre rimprovera di laver lasciato per
l'ennesima volta in giro i calzini invece di riporli nel cesto della biancheria sporca.
Ma esiste un altro virtuale, un virtuale nostalgico o un virtuale utopistico, un virtuale di papà,
possiamo dire. È il virtuale del «si stava meglio prima – prima della rivoluzione», oppure
ancora del «cominceremo a vivere domani – dopo la rivoluzione»... Sono molti i cristiani che
incappano in questo errore. Fantasticano su una società migliore in cui avrebbero davvero
potuto vivere in qualità di cristiani. Ed ecco che il padre si lamenta che il figlio sia sempre alle
prese con i videogiochi; eppure lui, il padre, è sempre annegato nei libri di storia, in preda a
un lamento intriso di nostalgia, e quindi contro la propria stessa volontà incoraggia suo figlio
a vivere nel virtuale, lasciando intendere che il mondo attuale altro non sia che infelice e
invivibile: «Ah! Se noi vivessimo in una società cristiana, in un mondo con Gesù, allora
vedreste come saprei essere un testimone del Cristo. Ma dovete capire che oggi i cristiani non
sono capiti, i cristiani sono perseguitati, ecc.». Il padre, che è cristiano, crede che questo
mondo non sia più il medesimo dell'avventura cristiana, e quindi diventa normale che il figlio
vada a cercare altrove l'avventura. Se suo padre gli avesse detto: «Vieni, figlio mio, andiamo
in Cina a predicare e morire per il Cristo», oppure ancora «Vieni, figlio mio, invitiamo tutte le
prostitute del quartiere a sedersi alla nostra tavola», ecco, probabilmente il figlio avrebbe
abbandonato il computer.

7. Péguy osserva che i tempi di oggi, per quanto difficili, non sono peggiori di quelli di ieri.
Sono persino migliori, poiché i tempi di oggi esistono, mentre i tempi di ieri non sono più e i
tempi di domani non sono ancora. Scrive Péguy: «Vi era cattivo tempo e vi fu persino una
tempesta sul lago di Tiberiade; e Pietro la addusse come pretesto per dire che non avrebbe mai
potuto prendere pesci. Disse addirittura che sarebbero morti.

2
Ibid., p. 699.
5

Vi era anche il cattivo tempo sotto i Romani, in quel compimento della dominazione romana.
Ma Gesù non si tirò affatto indietro. Non rinunciò. Egli non si rifugiò affatto dietro la
disgrazia dei tempi.
C'erano anche delle analogie sconvolgenti tra il tempo dei Romani e il nostro; tra il tempo
romano e il tempo che è divenuto il tempo moderno; più che delle somiglianze, più che delle
analogie singolari; come uno stesso andamento; una stessa indicazione; uno stesso avvio»3.

8. Cento pagine più avanti, alla fine di questo testo incompiuto e postumo, alla fine di questo
testo senza fine, Péguy usa parole notevoli. Trova sostegno tra gli Antichi e queste parole
cantano gli Antichi, proprio per mettere in campo una difesa da qualsiasi forma di nostalgia:
«Le due culture precedenti, il paganesimo e il cristianesimo, […] sono state ciascuna nel suo
genere, […] ciascuna in base alla propria natura e in misura differente, fondata sulla sventura,
il che vuol dire sulla riflessione, la contemplazione, la meditazione della sventura.
Sull'assimilazione, su una specie di appropriazione della sventura»4. Sarebbe un errore
leggere il più piccolo dolorismo in queste frasi. Péguy non manifesta alcun compiacimento
nei confronti della sventura. Parla piuttosto di appropriarsi della sventura, di assimilarla in
qualche modo, di metabolizzarla. Ora, chi è abbastanza forte da appropriarsi della sventura, da
digerirla e superarla, se non la Gioia?
Colui che dà la Gioia non ha bisogno che l'epoca gliela dia. La sventura stessa è il luogo della
sua missione. La disgrazia dei tempi non è un ostacolo, ma una conferma: la conferma che
egli è stato messo là per comunicare la Gioia. La Gioia è come l'Essere. L'Essere non attende
che il nulla gli dia la possibilità di esistere: egli è ed egli comunica l'esistenza. Allo stesso
modo la Gioia crea le sue stesse condizioni di possibilità. Non aspetta che la sofferenza le
permetta di intervenire: ella interviene e soffre per diffondersi.

9. Allo stesso modo il Cristo non aspetta che il mondo sia santo per venire a lui. Tutto ciò che
egli chiede è di essere peccatore, di essere profondamente abbandonato al peccato, di essere
completamente perduto, al punto da non accorgersi di essere perduto: è così che
all'improvviso il Cristo viene e proclama ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista (Luca
4, 18). È vero, proclamando la liberazione, egli rivela la nostra prigionia e proclamando il
ritorno alla vista egli rivela la nostra cecità. Per molti si tratta di una rivelazione
insopportabile e subito la comunità di Nazareth arriva al punto di volerlo uccidere.
Si uccide volentieri un nemico e si uccide ancora più volentieri colui che ci porta la Gioia. Lo
si uccide perché ci mostra la nostra miseria, la nostra incapacità di donarci da soli la Gioia.
C'è un principio fondamentale: «Posso uccidermi da solo, ma da solo non posso beatificarmi».
Per raggiungere la beatitudine ho bisogno di una Beatrice, ho bisogno che Dio salvi Beatrice e
che mi salvi con lei, ho bisogno di quel Dio che «parea nel suo volto gioire»5. La Gioia non
attende di trovarci già felici, così come Gesù non attende che il mondo sia santo per venire:
egli viene e domanda una sola cosa, non che noi meritiamo la sua venuta, che non sarebbe
altrimenti una grazia, quanto piuttosto che noi riconosciamo, una volta che lui sia venuto, la
nostra sconfitta, la nostra tristezza, quei nostri piccoli piaceri laboriosi e meschini, in maniera
tale da potercene infine affrancare e poterci così aprire alla Gioia.

3
Ibid., p. 699-700.
4
Ibid., p. 782.
5
Dante, Paradiso, XXVII, 105.
6

10. In un altro testo postumo, un testo del 1913 che rappresenta in qualche modo la ripresa del
testo del 1912 anche se con un titolo leggermente differente, Clio, dialogo della storia con
l'anima pagana, Péguy dichiara espressamente: «Gesù appartiene alla stessa razza dell'ultimo
dei peccatori; e l'ultimo dei peccatori appartiene allo stesso mondo di Gesù. È una
comunione»6. La parola «comunione» suona qui in modo particolare, visto che sono degli
amici di Comunione e Liberazione ad avermi invitato. Péguy offre un commento per questi
due termini, un commento che vieta per sempre a Comunione e Liberazione di chiudersi in se
stessa: se la comunione è il principio della liberazione, allora occorre innanzitutto vivere una
comunione con il prigioniero, con lo schiavo, con colui che ha bisogno di essere liberato. È
molto semplice: il salvatore deve vivere nello stesso mondo del prigioniero, e intraprendere
una comunione imperfetta con lui per poi poter entrare in comunione piena.
Questo è dunque l'altro paradosso che ci lascia intendere la prima frase di Péguy che ho citato:
il mondo senza Gesù è esattamente il mondo in cui entra Gesù. San Paolo lo esprime in
maniera differente: Laddove ha abbondato il peccato ha sovrabbondato la grazia (Lettere ai
Romani 5, 20). Il mondo senza Gesù, quel mondo che si coalizza per metterlo in croce, è in
potenza il mondo che è più con Gesù, perché è quello che più ha bisogno di lui e perché
segretamente, in tutto ciò che ha di positivo, in tutto ciò che ha di con, esiste già in lui.

Crisi della modernità

11. Tuttavia, prima di proseguire su questo punto, vorrei far notare che il testo di Péguy è
datato. «Datato» in italiano, così come «daté» in francese, può avere due accezioni. Può
significare molto semplicemente «contrassegnato da una data»: giugno 1912. E può anche
significare, più brutalmente, «sorpassato». Può il contesto del 2011 essere il medesimo del
1912? A separarci da quelle parole c'è un secolo, un secolo che è stato caratterizzato da molti
avvenimenti, forse più di quanti ne siano avvenuti in dieci secoli. Possiamo probabilmente
dire ancora oggi che la nostra società è senza Gesù. Ma è ancora «moderna»? Nel 1950
Romano Guardini intitolava uno dei suoi libri: La Fine dell'epoca moderna. Sono molti oggi a
parlare di «post-modernità» e persino di «postumano».
La modernità dell'epoca di Péguy aveva ancora delle ambizioni umaniste. Ora tutto questo è
finito. Il secolo trascorso tra l'epoca di Péguy e i nostri tempi ha posto le condizioni per una
sparizione completa dell'umanesimo. Il fatto nuovo sta nella coscienza della finitezza non più
individuale ma collettiva della specie umana. Il XX secolo, con Kolyma, Auschwitz e
Hiroshima (adopero appositamente dei nomi propri perché i nomi comuni non sarebbero
sufficienti a definire questi eventi), il XX secolo è stato allo stesso tempo l'era dell'apoteosi e
poi della morte delle ideologie del progresso. Perché? Perché il progressismo è stato al potere
e, invece di dare vita a una società più giusta, ha prodotto il totalitarismo. Quindi, come dice
Rimbaud in Una stagione all'inferno: «A che serve un mondo moderno, se è per inventare
veleni simili!». Se poi mettete al di sopra di queste catastrofi il darwinismo che ci spiega
come l'umanità altro non sia che un bricolage dovuto alla casualità e alla competizione,
diventa difficile credere nell'avvenire, nella storia e nella posterità.

6
Clio, dialogue de l'histoire et de l'âme païenne, op. cit., p. 1159.
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12. È questo il motivo per cui noi assistiamo a una crisi della modernità e stiamo anadando
verso il postumano. Un postumano che può assumere tre forme: una tecnocratica, una
teocratica e una ecologica.
Nel primo caso si tratta di creare un superuomo. Nel secondo caso si promuove un
fondamentalismo che schiaccia la cultura umana, mentre nel terzo assistiamo a un ritorno alla
cosiddetta Madre Natura. In ognuno di questi casi noi abbiamo perduto ogni speranza per
l'uomo storico, colui che promuoveva la modernità. Non crediamo più nella continuità, nella
cultura di lunga durata. La tecnocrazia, dal momento che esige l'efficienza, ci schiaccia
immediatamente. La teocrazia ci proietta nell'aldilà. L'ambientalismo ci fa ritornare ai cicli
naturali.
Questi tre errori si contrappongono l'uno agli altri, ma solo per farci cadere più facilmente in
trappola. Denunciandone uno, si rischia sempre di cadere in un altro. È così che il demone
gioca da tutti i lati della tavola di scopa.

Parlare, ovvero la tradizione del canto nuovo

13. Questa situazione nuova di crisi della modernità ha tuttavia alcuni vantaggi notevoli:
sposta le barriere di un tempo. Il figlio della Chiesa e il partigiano dei Lumi possono diventare
alleati di fronte a questa distruzione massiccia della cultura umana. Il moderno può ammettere
che la tradizione cristiana aveva qualcosa di buono. D'altronde – e ve lo accenno solo al volo
– la prima occorrenza conosciuta dell'aggettivo basso latino moderni si incontra nel V secolo
e serve a designare i cristiani. Ecco perché abbiamo assistito in Francia a una certa difesa
della storia e della tradizione da parte di intellettuali piuttosto di sinistra (Max Gallo, Régis
Debray, Alain Finkielkraut, ecc.).
Com'è possibile questa nuova allenza? Potremmo spiegarla attraverso un semplice artificio
logico e psicologico: di fronte al post-moderno, che rappresenta il nemico comune, i moderni
e i sostenitori della tradizione formano un fronte comune. Ma esiste una ragione più profonda,
legata alla lingua. L'amore per le parole, il gusto del linguaggio, la certezzza che non sia un
mezzo di comunicazione ma un luogo di verità e comunione, uno spazio in cui il mondo si
raccoglie e che quindi dobbiamo sforzarci di curare e parlare bene, è questo ciò che unisce
Antichi e Moderni contro la com dei tecnocrati, le bombe dei teocrati e i nitriti dei fanatici
ambientalisti.
Il linguaggio ha questo di singolare: nella sua essenza è allo stesso tempo tradizionale e
moderno. È tradizionale perché il linguaggio è sempre ricevuto: parlo perché qualcuno ha
parlato a me e parlo una lingua il cui nome rimanda a una nazionalità e quindi a una comunità
che esiste attraverso i tempi. Il linguaggio, però, è allo stesso tempo anche moderno, perché è
attraverso di esso che si può dire «Io», che ci si può affermare qui ed ora, che si può
protestare, che si possono inventare forme nuove. Noi non parliamo solo per ripetere, ma per
cantare e dunque per variare, rinnovare, far risuonare il linguaggio in un modo nuovo. Cantate
al Signore un canto nuovo, dice il re David. Questa è l'essenza della parola: ci permette di
sentire il comandamento antico e di cantare un canto nuovo, ed è ricevuta per poi essere
nuovamente donata in maniera unica e personale.

14. Ciò che è precipuo di una vera novità è che non ha bisogno di rompere con ciò che la
precede per affermarsi. Se fosse stata nuova solo per spirito d'avanguardia o di rottura,
apparterrebbe a quella forma mutilata di modernità che chiamiamo «moda». La moda propone
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novità di rottura con ciò che precede. Ecco perché queste novità diventano ben presto
vecchiume: altre novità si affacciano all'orizzone e la moda passa di moda. La novità
mantiene la sua freschezza e la sua giovinezza non allontanandosi da ciò che la precede ma
avvicinandosi alla fonte. Non è eccentrica: è originale. Questo vuol dire che non si allontana
dal centro, che non cerca di trovare un posto soltanto in relazione a ciò che l'ha preceduta (che
sia per prenderne le distanze oppure per avvicinarsene). La novità si volta verso l'origine.
Parlare in maniera davvero nuova, come ha fatto Dante per esempio, non vuol dire rompere
ma mettersi in comunicazione con l'origine della parola, e questa origine risiede in un duplice
silenzio: il silenzio della morte e il silenzio dell'Eterno. Tutti coloro che hanno parlato con una
forza nuova, tutti coloro che hanno cantato un canto nuovo, sono stati capaci di mettersi tra
l'angoscia davanti al silenzio della morte e la speranza davanti al silenzio dell'Eterno: hanno
attraversato l'inferno e sono stati abbagliati dal paradiso.

15. Resta il fatto che la modernità della lingua è secondaria a confronto con la sua tradizione.
Occorre prima di tutto imparare le regole prima di poter giocare. Colui che attacca i propri
genitori può farlo solo se li ha prima ascoltati e se è a loro che ancora si rivolge.
Eppure anche la tradizione della lingua è in funzione della sua modernità: l'apprendimento
delle regole non è fine a se stesso, ma in funzione di una nuova partita da giocare. Noi non
veniamo al mondo per ripetere ciò che ci hanno detto i nostri genitori, né tanto meno per
insultarli, ma per dialogare con loro, per rispondere, per arricchire con la nostra melodia la
grande corale della vita.

16. Questa struttura della parola, allo stesso tempo moderna e tradizionale, permette di
comprendere la tesi di Romano Guardini ne La fine dell'epoca moderna. Secondo Guardini la
modernità ha essenzialmente ripreso alcune realtà colte dal cristianesimo per rivoltarle contro
il cristianesimo stesso. Sulla base della rivelazione della dignità della persona si costruisce
l'individualismo. Sulla base della verità del libero arbitrio si costruisce il liberalismo. Sulla
base dell'esigenza della giustizia sociale si costruisce il socialismo, e via discorrendo. La
modernità riconosce un tal fiore evangelico, lo raccoglie e lo mette in un vaso. Il fiore viene
addirittura valorizzato, tanto da sembrare persino più meraviglioso. L'isolamento gli dona una
luminosità speciale, un profumo estasiante, tanto da far pensare che il fiore non abbia più
niente a che vedere con le sue radici. La verità è invece che lo si condanna a marcire.
L'oblio può funzionare solo per un certo periodo di tempo, abbastanza perché il progressismo
arrivi a mascherare di essere soltanto un sostituto della speranza teologale. Ma cosa vediamo
oggi? Ve l'ho detto: il crollo dei progressismi e, al contrario, la moda di un catastrofismo
generalizzato, e quindi la crisi radicale della modernità. Sarebbe dovuta arrivare prima o poi,
poiché tutte queste nozioni recise dalle loro radici e dal loro sole non possono fare altro che
perdere a poco a poco la linfa vitale. Paradossalmente oggi la modernità può essere salvata
solo facendo ricorso alla tradizione, e più specificamente alla tradizione ebraica e cristiana.
Le speranze mondane sono morte. È impossibile partire da queste e riuscire ancora a credere
in una via d'uscita per l'umano. Ma la speranza teologale non può morire. Non dipende
dall'avvenire: dipende dall'eterno. Ricordo sempre questo: quando mi avvertiranno che alla
fine del mondo non manca che un solo anno, non rinuncerò ad amare mia moglie, ad avere
con un altro bambino, a fare scoprire agli altri miei cinque figli la poesia di Dante... Perché so
che questa vita non serve per avere un futuro ma perché ciascuno abbia la vita eterna.
9

La tradizione contro il conservatorismo

17. Il modernismo, ossia la modernità che pretende di basarsi su se stessa, può quindi solo
distruggere la modernità. È sempre spazzata via dal postumano. Perché non si può giocare
senza aver prima imparato le regole. In un attimo la protesta si spegne e lascia il posto al
programma in codice o al verso dell'animale, perché siamo usciti dalla tradizione e dalla
tradizione della parola. Da questo momento la modernità deve rivoltarsi contro il modernismo
e la modernizzazione sistematica se vuole rimanere viva e umana. Deve ritrovare la sua
tradizione, quella tradizione che riecheggia nel comandamento della Bibbia: Cantate al
Signore un canto nuovo…
La tradizione non è così contrapposta alla modernità quanto si potrebbe immaginare, poiché la
tradizione non è né conservatorismo né fascinazione del passato storico. Ciò che ha orientato
verso la distruzione di ogni tradizione è stata proprio la conoscenza storica fine a se stessa:
moltiplica le informazioni sul passato, ma solo per metterle in vetrina. Niente è più lontano
dalla tradizione di un museo folkloristico. La verità è che la tradizione non consiste in una
semplice trasmissione del sapere: è la trasmissione di un saper vivere. Io posso conoscere con
grande precisione tutto ciò che ha fatto Gesù e posso persino sapere la Bibbia a memoria;
posso addirittura essere il curatore di un grande museo del cristianesimo. Ma questo rapporto
col museo non è un rapporto con la tradizione: la cultura non ha a che fare con il culto.
L'erudito conosce la tradizione alla perfezione, ma non vive nella tradizione. L'anziana che
prega Gesù vive nella tradizione, anche se conosce della tradizione quanto ne sa l'erudito.
Nella tentazione di Gesù nel deserto, Satana cita a memoria il Deuteronomio, dimostrando di
essere un esperto di esegesi storico-critica: vive nell'erudizione per evitare di entrare nella
tradizione viva.

18. D'altra parte la tradizione non è un conservatorismo. Un buon esempio ci è dato dal motu
proprio di Giovanni Paolo II, Ecclesia Dei afflicta. Questo testo prende atto dello scisma
provocato da Monsignor Marcel Lefebvre e da quelli che chiamiamo «integralisti» o
«tradizionalisti». Qual è il principio di questo scisma? Non l'amore per la tradizione, dice
Giovanni Paolo II, ma l'amore per il conservatorismo, ossia per una forma di conservazione
che vuole mantenere tutto assolutamente intatto, e che dunque pietrifica invece di conservare
in vita. Lo sapete bene: se volete conservare tutto di un essere vivente, non potete mantenerlo
in vita e siete costretti a congelarlo. «La radice di questo atto scismatico è individuabile in una
incompleta e contraddittoria nozione di tradizione. Incompleta, perché non tiene
sufficientemente conto del carattere vivo della tradizione che – come ha insegnato
chiaramente il Concilio Vaticano II – progredisce nella Chiesa sotto l'assistenza dello Spirito
Santo»7. Il tradizionalismo si contrappone alla tradizione perché uccide l'organismo vivente
per divenire un adepto del fossile.
La vera tradizione non consiste nel conservare tutto di ciò che si faceva ieri, ma nel
trasmetterne l'essenziale. E per poterlo trasmettere occorre saper riconoscere i segni del tempo
e quindi adattarsi a certe nuove condizioni di trasmissione. Josef Pieper scrive con forza:
«Una coscienza autentica della tradizione ci rende liberi e indipendenti di fronte a coloro che
pretendono di esserne i “guardiani”. Può accadere che questi famosi “difensori della
tradizione”, proprio per il fatto che si limitano a forme storiche, ostacolino quella che invece è

7
Jean-Paul II, Motu proprio Ecclesia Dei, 2 juillet 1988, n. 4, Denzinger, § 4822.
10

la vera e necessaria trasmissione (che non può avvenire se non con forme storiche
mutevoli)»8.

19. La vera tradizione è una relazione viva col mistero, nella misura in cui questa relazione è
ricevuta e trasmessa, come la parola e la vita, attraverso la parola e la vita, sin dall'origine. La
Tradizione è dunque più ancora che critica, perché è confronto con ciò che sfugge alla critica,
con ciò che ci supera, con ciò che ci pone più interrogativi di quanti non ne poniamo noi, con
ciò che ci chiama più di quanto noi sappiamo rispondere. Anche in questo la tradizione è più
moderna della modernità: è sempre avanti, nella misura in cui si basa sulla speranza; non si
regge sul futuro prossimo, ma sull'eterno, e dunque su ciò che risorge persino dopo la fine dei
tempi. In questo la tradizione è ancora più giovane della modernità, perché la tradizione
presuppone che i padri siano anche e prima di tutto dei figli e quindi dei bambini: non hanno
avuto l'iniziativa della parola, non hanno inventato la vita, l'hanno soprattutto ricevuta. Il
complesso di Edipo esiste solo fuori dalla tradizione. La rivolta dei Titani esiste solo fuori
dalla tradizione. In seno alla tradizione il figlio non ha alcuna ragione di uccidere il padre
perché scopre che suo padre è anche un figlio, che ogni originalità pura, ogni vero genio, è
sempre filiale. Perché essere figlio dell'Eterno è infinitamente più grande che essere padre per
un breve momento.
Lo scrive anche Josef Pieper a proposito della speranza: «La gioventù dell'uomo che aspira
all'eterno è per sua natura indistruttibile. Non è esposta né all'invecchiamento né alla
delusione»9.

La vérità in un'anima e in un corpo

20. La Tradizione è quindi meno relazione con il passato di quanto non lo sia con l'origine.
Non è tanto ciò che ingombra quanto ciò che spoglia, nel senso che riconduce all'essenziale,
all'eterno. Da questo punto di vista ci indirizza al di là del futuro: l'Eterno è più giovane del
tempo, è prima dell'inizio ed è dopo la fine, ed è per questo che può garantire una modernità
profonda. È capace di aprire un avvenire persino là dove un avvenire non c'è più. Come ho già
avuto modo di dire a proposito della Gioia, crea le sue stesse condizioni di possibilità.
In questa direzione possiamo sentire la parola di Rimbaud: «Bisogna essere assolutamente
moderni». E cosa aggiunge dopo questo comandamento, nell'ultima riga di Una stagione
all'inferno? «Dura notte! Il sangue fuma asciugando sul mio viso, e dietro di me nient'altro
che quell'orrendo arboscello!... Il combattimento spirituale è rude quanto la battaglia
d'uomini; ma la visione della giustizia è piacere di Dio solamente.
Tuttavia è la vigilia. Accogliamo ogni influsso di vigore e di reale tenerezza. E all'aurora,
armati di pazienza ardente, entreremo nelle fulgide città. [...] Mi sarà lecito possedere la
verità in un'anima e un corpo».
Questo è uno dei testi fondatori della modernità poetica. Tutti i poeti più moderni, in Francia,
fanno riferimento a Rimbaud. E tuttavia Rimbaud afferma l'esigenza del cuore, come direbbe
Don Giussani, questa esigenza che risuona nella vera Tradizione: «Possedere la verità in
un'anima e in un corpo». Non possedere la verità nella testa, ma nella carne e nello spirito, in

8
Versione francese: Josef Pieper, Le concept de tradition, trad. C. Champollion, éd. Ad Solem, p. 73.
9
Versione francese: Josef Pieper, De l’espérance, trad. D. Ducatel, éd. Raphaël, p. 45.
11

maniera fisica, integrale o, per dirlo con le parole esatte, attraverso l'incarnazione e
l'eucaristia.

21. Ecco perché questo mondo che vuole essere senza Gesù è il mondo in cui Gesù vuole
incarnarsi attraverso ciascuno di noi, come in un «sovrappiù di umanità». Si è tanto parlato di
«secolarizzazione». In realtà, dal punto di vista cristiano, noi siamo in piena
«desecolarizzazione». Ieri il cristianesimo era secolarizzato: la cristianità tendeva a ridurre il
cristianesimo a una istituzione mondana. Nel sacerdozio si faceva carriera. Si potevano
ottenere dei «benefici». Si potevano costruire delle basiliche grazie al mercato delle
indulgenze. Il curato era un notabile. E l'eremita poteva essere un dirigente d'azienda.
Insomma, si pensava di potersela cavare con qualche buona parola e qualche atto esteriore di
pietà.
Grazie a Dio, quest'epoca è sorpassata. Nell'insieme non era peggione di quella che stiamo
vivendo ora, ma non era neanche migliore. Il cristiano sa che non c'è stata alcuna Età dell'oro.
Sa che il tempo in cui il Verbo si è fatto carne ed è sceso sulla terra è stato anche il tempo in
cui l'abbiamo crocefisso e maledetto. Sa infine che l'epoca in cui vive è per lui la migliore,
perché è quella in cui può rendere testimonianza. Ora, quello che c'è di più meraviglioso in
questo mondo senza Gesù, è che ci è vietato accontentarci di qualche buona parola e qualche
piccola devozione, come ai tempi della cristianità: questo mondo esige da parte nostra una
testimonianza completa di santità, una testimonianza di amore a morte, una verità che invade
anima e corpo. Questo mondo ci chiede di essere altri cristi per il nostro prossimo. La
modernità è nostra alleata e la post-modernità non è un ostacolo. Più il mondo è senza Gesù e
più questo è il mondo in cui si deve realizzare l'Incarnazione. Più il mondo è popolato di
peccatori e più deve essere il mondo della Redenzione. Allora dovremmo non poter uscire da
questa sala accontentandoci solo di qualche buona parola.

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