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-Inizi del secondo millennio: istituzioni economiche caratterizzate dallo sfruttamento estensivo del fattore terra.
-Nell’arco di un secolo si assiste alla progressiva trasformazione di un’economia immobiliare in un’economia
(anche) mobiliare, fondata sul commercio.
-Fonti: consuetudine mercantile; giurisprudenza consolare (magistratura comunale)
-Connotati più significativi del diritto commerciale nei Comuni italiani: autonomia e formalismo.
-Progressiva attenuazione del formalismo da parte della magistratura mercantileespansione del diritto
commerciale che diventa un diritto comune.
-Nuovo contenuto del materiale normativo (sul terreno degli atti): sufficienza dell’accordo a vincolare
giuridicamente le parti (nudo patto vincolante solo se socialmente plausibile (ritualità verbale della stipulatio e
consegna della cosa); eliminazione del rischio di evizione; contratto di cambio (preordinato a cambiare monete ed a
trasferirle senza trasportarle fisicamente da una piazza all’altra, ma funzionale anche e soprattutto a realizzare
operazioni creditizie ed a speculare sui cambi tra valute diverse), documento che cominciò ad essere negoziato
come una merce per vari scopi economici e che fu assoggettato alla medesima legge delle merci (nascita del
mercato finanziario).
-(sul terreno dell’attività mercantile): disciplina organica (complesso di norme) da applicarsi a chi si dedichi
stabilmente (professionalmente) all’attività commerciale.
-Profilarsi di alcuni dei prototipi normativi dell’iniziativa collettiva (della società), per necessità biologica (es.:
attività mercantile trasferita dal padre ai figli) o per necessità sociale (distinzione della mercatura come ceto).
[L’economia basata sul commercio e sulla manifattura che fiorisce nei comuni italiani a partire dal secolo XII
genera il bisogno di un nuovo diritto (rispetto a quello romano-barbarico e canonico) funzionale agli interessi dei
mercanti, un diritto che si alimenta delle consuetudini mercantili, degli statuti delle corporazioni e della
giurisprudenza delle magistrature dei mercanti e che, dunque, si presenta autonomo (prodotto delle stesse forze
sociali alle quali si applica). Da questo nuovo materiale precettivo affiorano istituti tutt’oggi aggiudicati al diritto
commerciale, come le società di persone (nel linguaggio di allora: la collegantia o compagnia e la commenda),
taluni contratti, le cambiali, i segni distintivi ecc.]
[Dalla fine del secolo XV l’esperienza normativa chiamata diritto commerciale fiorisce nell’ambito degli stati
europei nazionali in via di progressiva formazione. È in particolare la monarchia francese che contribuisce allo
sviluppo pubblicizzando l’organizzazione corporativa delle arti e dei mestieri, proteggendo commerci e manifatture
nazionali (c.d. mercantilismo) e promuovendo le redazioni di testi scritti che ereditano i contenuti normativi già
attestatisi nel contesto della civiltà comunale italiana: tra questi testi, fondamentale per l’evoluzione successiva, è
l’Ordinanza generale di commercio emanata da Luigi XIV nel 1673.
Al secolo XVII risalgono le prime “Compagnie” per la colonizzazione dei territori d’oltremare che costituiscono il
prototipo della società per azioni (frazionamento in parti uguali (le azioni) l’operazione di investimento
collettivo e, in progresso di tempo, documentando queste parti in titoli circolanti al portatore)]
-La rivoluzione francese rimpiazza con il principio della libertà dei commerci e delle industrie il principio
antitetico, vigente sotto l’ancien régime, che solo chi fosse inquadrato in una corporazione o godesse di una licenza
del sovrano potesse lecitamente produrre o scambiare in modo professionale. Il ribaltamento della costituzione
economica (dal divieto alla libertà) genera il problema di fissare le condizioni di soggezione alla giurisdizione
commerciale, di applicazione del diritto commerciale dei contratti e dello statuto professionale. Alla soluzione di
questi problemi è, nel codice di commercio francese del 1807, deputato l’acte de commerce (un’operazione
economica, giuridicamente definita quale modello di comportamento rilevante ai fini della devoluzione delle liti ai
Tribunali di commercio, che si presta ad essere scomposto in una pluralità di comportamenti nella prospettiva di
altri modelli giuridici). La qualità di commerciante deriva dal fatto dell’esercizio continuativo di opere
commerciali, e questa altro non è che la formula riassuntiva di un complesso di regole (lo statuto del
commerciante) applicabili a chi del compimento di atti di commercio facesse la sua “professione abituale”. Diritto
commerciale da sistema soggettivo (ancien régime) a oggettivo (postrivoluzionario).
-L’acte de commerce, come nozione e come funzione, viene ereditato dai codici italiani preunitari ed è ereditato
dalla codificazione unitaria del 1865. Nel 1882 il codice di commercio del 1865 viene sostituito da un altro testo
organico più in sintonia con la dinamica della produzione industriale. Il diritto commerciale si applica ai contratti,
ed alle obbligazioni che ne scaturiscono, che siano implicati in un atto di commercio o che siano, rispettivamente,
conclusi ed assunti da un commerciante; e si applica ad entrambe le parti del rapporto. Il codice non definisce l’atto
di commercio; esso predispone all’art.3 una lista di atti di commercio classificati in base alla funzione come: a) atti
di intermediazione nella circolazione dei beni (commerciante che acquista per rivendere); b) imprese, ossia le
produzioni di beni e servizi realizzate avvalendosi di una stabile organizzazione di mezzi e di persone; c)
operazioni di banca, assicurazioni, operazioni di mediazione in affari commerciali, depositi; d) atti assoluti, la cui
inclusione nella materia di commercio era indipendente dalla loro concreta funzione economica.
-I codici restano in vigore fino al 1942 e la loro separazione, lungi dal ridursi ad un fatto redazionale, implica
distinzione (a) nella gerarchia di fonti (b) nei principi generali delle obbligazioni e (c) nella tipologia di contratti.
L’atto di commercio era correttamente e utilmente pensabile come intermediazione solo economicaera impresa
commerciale solo la stabile organizzazione di mezzi e di persone medio-grande (rimanevano fuori artigianato e
agricoltura)Il diritto commerciale era il diritto del commercio e dell’industria.
-Unificazione dei codici: unificazione del diritto delle obbligazioni (unica gerarchia delle fonti, principi generali
uniformi, unica tipologia dei contratti nominati).
-Furono ideologia e politica i fattori responsabili dell’abbandono del progetto del codice di commercio Asquini ,
come codice separato dal codice civile, e della rifusione dei contenuti di questo nel libro V del vigente codice
civile, significativamente intitolato «Del Lavoro». Nel segno del lavoro infatti anche l’imprenditore sarebbe un
lavoratore.
-L’impresa del codice civile del 1942 è un modello totalizzante di comportamento, nel quale possono riconoscersi
tutti i professionisti della produzione e dello scambio, dagli industriali agli agricoltori, dagli artigiani ai
commercianti. Ed anche i professionisti intellettuali. Nel segno del lavoro tutti i partecipanti al ciclo della
produzione e della distribuzione di nuova ricchezza hanno pari dignità di essere chiamati imprenditori.
-Il patto con una realtà disomogenea il codice del 42 lo ha fatto nel momento in cui ha articolato il modello
totalizzante di comportamento chiamato impresa proprio in ragione (a) della dimensione organizzativa e (b) della
natura della produzione. Il modello totalizzante resta quello ricavabile dall’art.2082 c.c.; ma quel modello si
scompone in una variante dimensionale piccola (2083 c.c.) ed in una medio-grande; e poi la produzione agricola
(2135 c.c.) viene separata da quella commerciale (2195). In prima approssimazione può dunque affermarsi che ogni
iniziativa di produzione professionale di beni o di servizi si presta ad una qualificazione binaria, che si avvale da un
lato della dimensione organizzativa, e dall’altro della natura della produzione: ogni impresa insomma è
giuridicamente o medio-grande e commerciale; o medio-grande e agricola; o piccola e commerciale; o piccola e
agricola. La qualificazione binaria di maggior significato precettivo è quella corrispondente alla prima, le altre tre
servono piuttosto a disapplicare lo statuto dell’imprenditore commerciale medio-grande.
-Lo statuto in parola (dell’imprenditore commerciale medio-grande) compendia norme che vertono su: 1) capacità;
2) pubblicità; 3) contabilità; 4) rappresentanza; 5) dissesto. Materie che grossomodo già trattava lo statuto del
commercianterifondazione meno di radicale di quanto previsto, piuttosto lessicale.
[Fattori d’ordine socioeconomico (di lungo periodo) e fattori pubblici legati alla contingenza del regime fascista al
potere portarono all’unificazione non solo del diritto delle obbligazioni e dei contratti ma anche del regime della
produzione professionale di beni e servizi. L’imprenditore del codice del 1942 è una figura totalizzante nella quale
tutte le forse produttive del Paese dovevano riconoscersi. In funzione dell’applicazione dello “statuto
professionale” (complesso organico di regole da applicarsi a quanti professionalmente producono beni e servizi), il
codice recupera le diversità del reale, articolando l’impresa (che della figura dell’imprenditore costituisce il
presupposto) in ragione della dimensione (impresa piccola/impresa medio-grande) e del risultato produttivo
(impresa commerciale/impresa agricola)]
[Lo statuto dell’imprenditore secondo il codice civile non ha subito sostanziali modificazioni dopo il 1942,
eccezion fatta per il regime del dissesto (cc.dd. procedure concorsuali) che ha, a partire dalla fine degli anni 70 (con
la c.d. legge Prodi), mostrato una deriva funzionale dalla liquidazione del patrimonio imprenditoriale e personale
del debitore insolvente (onde ripartire tra i creditori, in misura proporzionale ai rispettivi crediti, l’incapienza
sopravvenuta) alla conservazione del patrimonio imprenditoriale (onde recuperare impianti risanabili ed evitare la
disoccupazione).
Con gli anni ’90, tuttavia, anche e soprattutto grazie all’integrazione del diritto nazionale nel diritto dell’UE, alle
regole costituenti lo statuto dell’imprenditore secondo il codice civile si sono aggiunti nuovi precetti
(prevalentemente funzionali a promuovere la competizione tra operatori ed a comporre la asimmetria di potere
contrattuale tra professionisti e consumatori), l’applicazione dei quali è spesso condizionata da comportamenti che
non presentano tutti i requisiti del comportamento imprenditoriale secondo il codice civile; d’onde un’accentuata
polivalenza semantica del vocabolo “impresa” che richiede particolare vigilanza interpretativa e consapevolezza
della discontinuità del linguaggio giuridico]
Capitolo VI – Le fasi dell’analisi giuridica del diritto della produzione professionale di beni e di servizi
-Obiettivo: Come ragionare correttamente quando si tratta di stabilire se sia da applicarsi oppure non una certa
regola dello statuto?
-Quando si ha a che fare con delle regole di comportamento le domande che non possono mai essere evase sono le
seguenti tre: a) qual è il comportamento che la regola impone o consente; b) al verificarsi di quali fatti (quando) lo
impone o lo consente; c) a chi lo impone o lo consente.
-Terminologia specialistica del diritto commerciale: “fatto che si verifica”= fattispecie; “regola da applicare”=
disciplina; “fattispecie dello statuto”= impresa; “applicazione della disciplina ad un soggetto”= imputazione.
-Fasi della progressione argomentativa: 1) analisi della disciplina (lo statuto dell’imprenditore commerciale medio-
grande); 2) descrizione della fattispecie impresa; 3)censimento dei potenziali destinatari della disciplina; 4) criteri
di imputazione della disciplina.
-Art. 2082 c.c.: di qui le produzioni professionali di beni e di servizi dotate di un’organizzazione rilevante di
persone e di mezzi alle quali lo statuto si applica; di là le produzioni agricole e le piccole produzioni, di solito
familiari, come l’artigianato e il piccolo commercio alle quali lo statuto non si applica. La dimensione
organizzativa consente di ripartire l’area del comportamento imprenditoriale in due zone: quella della impresa
piccola (immune dallo statuto) e quella dell’impresa medio-grande (soggetta allo statuto). Nel nostro diritto si
riscontra un solo dato normativo inteso ad articolare dimensionalmente la realtà imprenditoriale e questo si occupa
della piccola impresa: è l’art. 2083 c.c.
-La compresenza di definizioni normative rispettivamente dedicate all’impresa agricola (2135 c.c.) ed all’impresa
commerciale (2195 c.c.) impedisce di far ricorso ad un ragionamento residuale (che si è visto corretto utilizzare per
la dimensione: se un’impresa non è piccola allora è medio-grande) nell’articolare il comportamento imprenditoriale
avvalendosi della “natura” del risultato produttivo: sembra scorretto dire che è agricola ogni impresa che non è
commerciale come anche viceversa; un comportamento suscettibile di essere qualificato “imprenditoriale” non
presenta né i requisiti dell’impresa agricola né i requisiti dell’impresa commerciale.
-Piccolo imprenditore (2083 c.c.): coltivatore diretto, artigiano, piccolo commerciante. Clausola generale per
qualificare l’impresa come piccola o (in via residuale) medio-grande: se chi assume l’iniziativa dà un contributo
prevalente al ciclo produttivo con il proprio lavoro e con quello dei componenti della sua famiglia, l’impresa è
piccola. Prevalenza del lavoro esecutivo personale e familiare rispetto al risultato; prevalenza rispetto al lavoro
salariato; prevalenza rispetto al capitale investito; prevalenza rispetto all’organizzazione di tutti i fattori della
produzione, che ricorre ogni qualvolta l’organizzazione non sarebbe più la stessa senza il lavoro del titolare.
-Giova tener presente che oggi è venuto meno un insano concorso di fonti tra codice civile e legge fallimentare in
tema di piccola impresa; che non si dubita più della funzione meramente esemplificativa delle figure di piccoli
imprenditori menzionate al 2083 c.c.; che ogni fattispecie è relativa ad una disciplina data e che ad una
nomenclatura uniforme non necessariamente corrisponde lo stesso modello di fatto; sicché un’impresa può essere
artigiana ai fini della legislazione speciale e non già ai fini della disapplicazione dello statuto di imprenditore.
-Articolazione basata sulla “natura” del risultato produttivo: impresa agricola e impresa commerciale. L’art. 2195
c.c. non intende definire l’impresa commerciale, piuttosto intende contribuire a selezionare persone ed enti soggetti
all’obbligo d’iscrizione nel registro delle imprese: a) gli imprenditori che esercitano una o più delle attività
elencate; b) le società commerciali (art. 2200 c.c.) e gli enti pubblici che, in via esclusiva o prevalente, esercitano
una delle predette attività. Tuttavia l’ultimo comma del 2195 mostra la finalità prettamente definitoria del testo
normativo.
-Due definizionipossibilità che un’attività sia qualificata impresa (2082 c.c.) ma non sia suscettibile né di essere
qualificata commerciale e neppure agricola (2195 e 2135 c.c.); qualcuno la ha chiamata impresa civile. Ma Il
codice è piuttosto preciso nel definire le due categorie dell'impresa commerciale e agricola mentre l'impresa civile
sarebbe definibile solo in maniera negativa come ciò che non è compreso negli artt. 2195 e 2135, non essendo
quindi sottoposte allo statuto dell’imprenditore commerciale. Il problema è che analizzando i casi concreti si scopre
che si ricade sempre nelle due definizioni codicistiche, quindi l'impresa civile non ha abbastanza caratteri
'individualizzanti' da poter esistere come ulteriore categoria.
-Ad un certo punto la giurisprudenza si è prevalentemente orientata a sviluppare un percorso argomentativo
alternativo rispetto all’uso di entrambe le definizioni normative (2135 e 2195 c.c.) nei processi di qualificazione
della realtà imprenditoriale, il quale conduce ad una qualificazione residuale dell’impresa commerciale (è
commerciale ogni impresa che non soddisfi i requisiti dell’impresa agricola); percorso che muove da una forzatura
nell’interpretazione letterale del 2195 nn. 1 e 2 (equivalenti alla locuzione finale del 2082 c.c.). Ogni impresa
sarebbe commerciale se l’art. 2135 c.c. non isolasse le produzioni agricole da tutte le altre e le affrancasse dallo
statutoappurato che un’impresa non è agricola, può concludersi che essa è commerciale e si regola di
conseguenza.
-Perché le attività agricole sono escluse dall’applicazione dello statuto d’impresa commerciale? La spiegazione
tradizionale dell’immunità è quella del c.d. doppio rischio: l’imprenditore agricolo oltre al rischio economico
connaturale ad ogni impresa, subisce anche il c.d. rischio ambientale. A interpretare l’art. 2135 coerentemente alle
ragioni storico-politiche del trattamento differenziato dell’agricoltura rispetto all’industria ed al commercio (cioè
all’impresa commerciale) si sarebbe dovuto disapplicare lo statuto ogni qualvolta l’attività esercitata si presentasse
davvero esposta al c.d. doppio rischio e coincidesse socio culturalmente con alcune attività come il lavoro dei
campi. Ma con l’entrata in vigore del codice unificato la legislazione speciale ha a più riprese eluso l’obiettivo
aggiudicando d’autorità all’impresa agricola produzioni svariate come addirittura l’agriturismo (un servizio
turistico!).
-La letteratura giuridica specialistica, per parte sua, ha dato costante alimento al tentativo dei pratici
(sostanzialmente fallito, almeno presso la giurisprudenza della Cassazione) di fare dell’impresa agricola la via di
fuga dallo statuto dell’impresa commerciale e, soprattutto, la via d’accesso alle tante agevolazioni accordate dalla
legislazione nazionale e comunitaria ad una realtà chiamata agricoltura. Questo vero e proprio movimento di
pressione ha conseguito recentemente una vittoria importante con il d.lgs. 228/2001 che, novellando l’art. 2135, ne
ha codificato in larga misura la disposizione.
[il modello di comportamento che presiede alla qualificazione dell’agire in funzione dello statuto professionale si
articola in sub-modelli isolati da due fattori diversi: a) la dimensione organizzativa e b) il risultato produttivo. Ai
fini dell’applicazione del nucleo precettivamente più ricco di regole dello statuto professionale, è capitale stabilire
se l’impresa sia medio-grande e se l’impresa sia commerciale: per risolvere la prima questione è sviluppabile un
argomento residuale (è medio-grande l’impresa non piccola); per risolvere la seconda, bisogna prima decidere se
ogni impresa non commerciale sia agricola, ovvero se il binomio di predicati: agricolo/commerciale non esaurisca
le varianti del comportamento imprenditoriali nella prospettiva del risultato. È il problema dell’impresa civile:
discussione e proposta di soluzione]
-Figure soggettive a cui è applicabile la disciplina della fattispecie impresa: individui e società, ma non solo.
Selezionare le figure soggettive alle quali la disciplina può essere imputata è di estrema importanza in quanto le
regole che la compongono non sono indifferenti alla identità del loro destinatario: applicare alle società lo statuto
dell’impresa commerciale è altro che applicarlo ad un individuo.
-Vigente il codice di commercio del 1882, lo statuto del commerciante si applicava solo a figure soggettive di
diritto privato (e non di diritto pubblico); e, tra queste, solo ad individui e società commerciali. Con il codice
unificato del 1942 ha innanzitutto evidenza testuale l’applicabilità dello statuto dell’imprenditore alle figure
soggettive di diritto pubblico; quanto alle figure soggettive di diritto privato, manca nel codice del 1942 una
disposizione che dica che lo statuto è applicabile solo a individui e società commerciali. È però vero che tutte le
regole che compongono il diritto dell’impresa sono formulate sul presupposto inespresso che le si debba applicare a
individui o a società commerciali.
-Accade tuttavia che comportamenti obiettivamente imprenditoriali siano posti in essere da figure che non sono né
individui né società (es.: un’associazione culturale organizza mostre o concerti a pagamento i proventi dei quali
sono vincolati all’autofinanziamento dell’associazione o a liberalità promotrici della cultura). La giurisprudenza si
è orientata decisamente per la compatibilità tra diritto dell’impresa e enti privati non societari problema del come
e in quale misura applicare il diritto dell’impresa ad enti privati non societari ed agli uffici privati razionale
sembra l’atteggiamento di chi in presenza di un comportamento imprenditoriale conforme alla fattispecie impresa
ed alle sue articolazioni opti per una applicazione integrale del diritto di impresa all’ente che ne rivendica
l’iniziativa.
-Conclusivamente può dirsi: a) che il diritto dell’impresa si applica a qualsivoglia figura soggettiva pubblica e
privata che tenga un comportamento conforme al modello ricavato a partire dall’art. 2082 c.c.; b) che è discusso
quanto di questo diritto (e come) si applichi a figure soggettive diverse dagli individui e dalle società e che,
conseguentemente, c’è ad oggi un deficit di prevedibilità degli esiti del contenzioso in materia (di cosa decideranno
i giudici).
Capitolo X – Le società e le altre formazioni associative nella commercializzazione del diritto privato
-Società di commercio: Società civile (Code 1804), collegantia (société générale) e società in accomandita (Codice
di commercio 1807 e Ordinanza generale di Commercio 1675), società anonima (compagnie privilegiate per la
colonizzazione, codice 1807). A differenza della società civile, le società di commercio si erano conquistate la
condizione di enti: non solo contratti consensuali ad effetti obbligatori, ma anche operatori giuridici.
-Nell’ordine giuridico italiano la distinzione tra “società civile” e “società di commercio” resta in vigore fino al
sopravvenire del codice unificato del 1942. Nel codice civile del 1865, la società civile è un contratto che vincola
bensì le parti (effetto obbligatorio ma che è privo di rilievi nei confronti dei terzi, questi trattando con i soci, non
con il sodalizio (con il gruppo pensato come indipendente dalle persone che lo compongono).
-La società civile del codice unitario del 1865 si presenta in due varianti: a) la società di godimento, che sono
contratti preordinati a ripartire fra i soci i frutti di beni messi in comune; b) le società di esercizio, che sono
contratti preordinati a ripartire tra i soci i proventi delle attività dei soci stessi ovvero i “guadagni” di una comune
iniziativa.
-Quando la comune iniziativa è mirata al compimento di atti di commercio, allora la società particolare di esercizio
è qualificata “società di commercio”; ma non più dal codice civile, bensì da quello di commercio le società
commerciali sono la società in nome collettivo, la società in accomandita e la società anonima; esse costituiscono
rispetto ai terzi enti collettivi distinti dalle persone dei soci; sono cioè operatori giuridici che al pari degli individui
producono atti, acquistano diritti ed assumono obbligazioni. Nella società in nome collettivo tutti i soci
garantiscono con il proprio patrimonio personale, in via solidale e senza limitazione, le obbligazioni sociali; nella
accomandita, solo alcuni soci (gli accomandatari) garantiscono con il proprio patrimonio le obbligazioni sociali;
nell’anonima, solo il patrimonio della società-ente garantisce le obbligazioni.
-Come per il diritto delle obbligazioni e dei contratti, anche per il diritto delle società (che sono sì contratti, ma
anche enti (es.: FIAT s.p.a.)) la unificazione dei codici provoca un fenomeno di commercializzazione del diritto
privato: il regime proprio delle società di commercio viene esteso a formazioni associative che, nel vigore del
codice di commercio del 1882, non si sarebbero potute qualificare società commerciali.
-Oggi l’iniziativa comune speculativa costituisce, differentemente dal passato, società entificata anche se
preordinata all’esercizio di un’attività non commerciale. Anzi è stata predisposta la “società semplice” (2251 ss.
c.c.) che non può avere oggetto commerciale, che costituisce il regime residuale delle iniziative comuni speculative
fuori della materia commerciale; essa è comunque un ente al pari delle società commerciali.
-Il codice unificato è andato oltre sulla via della commercializzazione delle formazioni associative, entificando
anche iniziative comuni non speculative, come le associazioni contemplate dal primo libro del codice civile. Ogni
qualvolta, insomma, si programmi l’esercizio in comune di un’attività (sia questa economica o no) in funzione di
un risultato (economico o no, al quale avranno accesso quanti formulano il programma a terzi), la formazione
associativa è oggi entificata.
-Nella legislazione più recente, l’entificazione è anche accordata ad iniziative individuali; e questa entificazione si
realizza consentendo ad una persona o ad un ente di costituire (da solo) una società.
-La società esiste giuridicamente sin dal momento della sua costituzione, come unilaterale (meglio, uni personale);
essa non traduce un’iniziativa di più ma di un solo agente giuridico.
-Il godimento collettivo oggi è però fuori della società (governato dalle regole della comunione e da quelle dei
contratti che instaurano cointeressenze).
L’analisi del diritto delle società può essere utilmente scomposta in quattro fasi: (1) cogliere la funzione di questa
formazione associativa rispetto alle altre; (2) illustrare l’organizzazione; (3) chiarire le regole fondamentali che
governano l’azione della società come ente; (4) qualche problema relativo all’atto costitutivo della società.
-I dubbi s profilano quando tra comportamento, interesse e nome si registrino delle dissociazioni soggettive: (a) il
comportamento imprenditoriale è tenuto da A nel nome e nell’interesse altrui (di B); (b) il comportamento
imprenditoriale è tenuto da A nel proprio interesse, ma sotto un nome non proprio (di fantasia o altrui); (c) il
comportamento imprenditoriale è tenuto nel nome altrui, ma nel proprio interesse; (d) il comportamento
imprenditoriale è tenuto nel nome proprio, ma per conto altrui.
-Lo statuto dell’imprenditore è certamente imputato alla figura soggettiva nel nome della quale (coincida poi questo
non con il suo nome) e nell’interesse (per conto) della quale il comportamento imprenditoriale è realizzato.
L’organizzazione dei mezzi personali, connaturale al comportamento imprenditoriale, impone fenomeni di
sostituzione nell’attività giuridica (esige l’intervento di attori che agiscono per conto di chi li ha assunti e che ne
spendano il nome) rendono scarsamente utilizzabile la paternità del comportamento come criterio di imputazione
della disciplina. Dunque delle dissociazioni indicate sub a) e sub b) ci si può sbarazzare senza troppe perplessità.
-Resta invece da decidere quale sia la destinazione soggettiva dello statuto quando nome speso e interesse si
dissocino, si fissino in capo a distinte figure soggettive. Le ipotesi sono quelle del caso (d) e caso (c). Nel primo
caso si assiste ad una interposizione reale nell’esercizio dell’impresa: A adotta l’iniziativa, fa propri gli utili e
sopporta le perdite di un’attività esercitata da B o da chi per questi; nel secondo, ad una preposizione institoria
apparente: B agisce come institore di A ma l’iniziativa è di B e suoi sono gli utili e gli oneri. Il primo caso è noto
come quello dell’ “imprenditore occulto” e la figura interposta può essere una persona fisica (c.d. uomo di paglia) o
un ente (società di comodo).
-Lo statuto dell’imprenditore dovrebbe applicarsi a colui che agisce in nome proprio (interposto), anche se
nell’interesse altrui (interponente): l’agente infatti è l’unico soggetto obbligato nei confronti dei terzi, fermi
restando da un lato il suo obbligo di conteggiare al sostituito gli oneri ed i proventi derivanti dall’esecuzione
dell’incarico, e dall’altro la possibilità riconosciuta dalla legge al sostituto di appropriarsi a certe condizioni dei
beni acquistati per suo conto dal sostituto (art. 1706 c.c.).
-Diffuso disagio dal punto di vista del senso comune della giustizia: è oggetto di riprovazione colui che agisce
occultamente; e chi sviluppa un’iniziativa professionale avvalendosi dell’interposizione di una persona o di un ente
può agire occultamente, l’occultamento essendo talora funzionale alla elusione di responsabilità di vario ordine.
-Tra le tante strade tentate due sono di particolare rilievo: l’una di rilievo soprattutto culturale, da ricondurre
principalmente al pensiero di Walter Biagiavi; l’altra di rilievo applicativo, ovvero quanto ci si può attendere dalla
giurisprudenza.
-La proposta biagiaviana, allo scopo di coinvolgere l’interponente nell’applicazione dello statuto dell’imprenditore
e nelle procedure concorsuali, in un primo tempo dichiarava che per le attività professionali l’imputazione della
disciplina dovrebbe orientarsi verso colui che ha la direzione e ne sopporta il rischio. Messo alle strette dalla critica
Biagiavi puntò in una seconda fase della sua battaglia su una sofisticata concatenazione argomentativa che
prendeva le mosse dall’art. 147 della legge fallimentare, il quale prevede che il fallimento della società con soci
illimitatamente responsabili provochi il fallimento dei soci stessi, anche se occulti al tempo della dichiarazione del
fallimento. Riducendo la differenza tra società palese ed occulta ad un mero dato quantitativo (incapace come tale
di generare disparità di trattamento), lo studioso arrivava a concludere che quel che vale per la società occulta (che
è da pensarsi come interponente collettivo di un interposto individuale) doveva valere anche per l’interponente
individuale di un interposto individuale (uomo di paglia) o collettivo (società di comodo). Tale proposta venne
contestata sia sua sul piano della correttezza della progressione argomentativa che su quello della composizione
degli interessi in gioco.
-La giurisprudenza non ha praticamente dato seguito alcuno alla proposta biagiaviana. Ma il disagio di fronte
all’interposizione nell’esercizio dell’impresa e la correlata riprovazione per l’interponente hanno avuto echi presso
le corti italiane fallisce la società inizialmente occulta e che, nel corso della procedura, appare esistente in
applicazione di un corredo di indizi che i giudici hanno messo a punto; ma poi non si pensa alla società occulta
come una figura interponente, dal fallimento della quale inferire la qualità di imprenditore commerciale di
qualsivoglia interponente, persona o società. Dunque la regola giurisprudenziale assoggetta a fallimento la società
occulta.
-Quello che è risultato più frequentato è l’itinerario della c.d. impresa fiancheggiatrice: i giudici concedono che
nella attività di sostegno finanziario e di direzione svolta dall’interponente possano cogliersi i caratteri essenziali
del comportamento imprenditoriale; e così, configurando due imprese, l’una esercitata dall’interposto e l’altra
(l’impresa fiancheggiatrice) dall’interponente, porsi le premesse per dichiarare due fallimenti, l’uno a carico della
prima e l’altro a carico della seconda, con separati stati passivi critiche: la dottrina dell’impresa fiancheggiatrice
sembra in buona sostanza fatta a posta per favorire i creditori che si siano procurati un titolo contro il titolare
dell’impresa fiancheggiatrice (creditori “forti”). E gli altri creditori rischiano di restare irrimediabilmente
insoddisfatti.
-Sul piano pratico, l’universalità della garanzia patrimoniale sembra oggi in netta ritirata e si profila chiarissimo un
favore ordinamentale per l’articolazione del patrimonio in funzione della diversificazione delle iniziative: il diritto
interno consente oggi di (a) esercitare imprese individuali separando il patrimonio aziendale da quello residuo
dell’imprenditore; (b) di compartimentare l’iniziativa individuale o collettiva affidando l’esercizio dell’attività
propria di ogni comparto ad una distinta figura soggettiva, cioè costituendo con atti, anche tutti unilaterali, un
gruppo di società; (c) di dedicare porzioni del patrimonio ad un dato affare di un ente o destinare i proventi di un
affare finanziato dell’ente stesso (c.d. finanza di progetto), diversificando, quanto alla garanzia patrimoniale, in ceti
distinti i creditori.
-In questo contesto è legittimo e forse doveroso chiedersi se chi persegue il medesimo risultato non tenga
comportamenti in frode alla legge suscettibili di essere neutralizzati.
-Un qualche contributo al progetto di trattare la pratica dell’interposizione con lo strumentario preordinato a
reprimere l’abuso, potrebbe darlo anche il diritto tributario e in particolare l’art. 37 c.3 del d.p.r. n.600/1973
prevede infatti che in sede di rettifica o di accertamento d’ufficio sono imputati al contribuente i redditi di cui
appaiono titolari altri soggetti quando sia dimostrato, anche sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti,
che egli ne è l’effettivo possessore per interposta persona.