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LA LEGGENDA DEGLI ASTROMANTI

di GM Willo

Una mini-saga fantasy divisa in tre atti e quattro episodi.

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Attribution 2.5 Italy License.

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Illustrazione di copertina di Charles Huxley

Illustrazioni interne di GM Willo

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Finito di pubblicare nel Dicembre 2009

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In principio Sole era l’unico e il solo. Nella sua
potenza dava vita a tutti i pianeti ed i suoi discepoli,
gli Spiriti del Fuoco, dominavano incontrastati ogni
mondo. Ma uno di questi pianeti ospitava una nuova
entità, che dormiva ancora, o forse era già sveglia ma
attendeva il momento giusto per mostrarsi. Si
chiamava Terra.
Terra era nascosta nelle acque che si riversavano sul
pianeta ed accudiva i suoi figli ancora dormienti.
Erano gli Spiriti della Natura, che attendevano il
momento opportuno per nascere ed omaggiare la
propria madre. Avrebbero combattuto per il diritto di
vivere in quel mondo ancora ostile.
Fu così che al tempo giusto i primi grandi spiriti si
risvegliarono e vennero istruiti dalla Grande Madre.
Poi sbarcarono sulle terre ancora pervase dal fuoco i
discepoli di Sole e iniziarono una lunga battaglia che,
attraverso i secoli, trasformò la struttura stessa di
quel mondo. Alla fine gli Spiriti del Fuoco vennero
confinati al centro del pianeta e la superficie fu il
dominio di Terra e dei suoi figli...

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Preludio

IL PRESAGIO DEL NERO


OCCHIO

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* * *

L ’oceano ed il cielo si fondevano in un orizzonte


vago, tra gli ocra e gli indachi del vespro. La
notte avanzava rivelando la magia della volta
celeste, le canzoni delle stelle, le sinfonie delle
galassie. Erano musiche che solo pochi riuscivano a
sentire. Astromanti erano chiamati, e la gente normale
li credeva stregoni e fattucchieri, portatori di speranza
e di guai. Ma il mondo era troppo vecchio perché
qualcuno potesse riuscire ad estirpare le paure del
genere umano, radicate dentro secoli di guerre e di
dolore. Il mondo era così vecchio che si era perso il
conto degli anni. Si diceva che gli uomini erano morti
e rinati più volte, che in un tempo indefinito il cielo
era esploso sopra le più grandi città e ogni uomo era
stato spazzato via, fuorché per una manciata di
fortunati, o sfortunati, che erano riusciti a trovare
rifugio nelle viscere della terra. Passarono molti anni
prima che l’umanità tornasse ad abitare la superficie
del pianeta, e la gioia di rivedere il sole e la volta
stellata fu così tanta, che quegl’uomini dedicarono
ogni loro energia a contemplare l’universo e a carpirne
i segreti.
Ma sono molte le storie che riguardano gli Astromanti.
Meno invece quelle che descrivono i loro più grandi
rivali, gli Entropici. Anche quest’ultimi studiavano le

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stelle e attingevano potere dal cielo, ma non si
fermarono alla conoscenza della materia e
dell’antimateria, come invece fecero i primi.
Affascinati dal concetto di caducità, studiarono il
pulviscolo del cosmo e cospirarono l’accelerazione del
tempo, così da far chiudere questo universo e dare
modo a qualcosa, al di là del tempo e dello spazio, di
riformarne uno nuovo, più giusto.
Gli Entropici erano convinti che gli uomini fossero
creature imperfette, prigioniere di un universo
imperfetto. Solo attraverso la chiusura del tempo
l’uomo sarebbe rinato in una forma divina, in armonia
con il tutto. L’apocalisse che avrebbe segnato
l’avvento della nuova era veniva chiamata il Grande
Collasso.
A questo pensava il giovane Braman, mentre
contemplava il mare dall’alto del faro. Si era quasi
scordato di accendere la luce di segnalazione. Era
l’unico lavoro che gli spettava. Per il resto il suo
apprendistato era essenzialmente fatto di studio e
osservazione.
La scuola del faro non poteva davvero dirsi una
scuola. Era composta da appena tre alunni più il
maestro, un vecchio di nome Karmantic, cieco da un
occhio eppure zoppo. Il maestro era un tipo strano,
cresciuto in mezzo ai marinai del paese vicino, ed era
lui stesso stato un marinaio quando era giovane. Ma il
richiamo delle stelle fu tale che all’età di vent’anni
partì alla volta di Avredon, una delle Dieci Città, per
conoscere i misteri del cosmo e praticare la magia.
Dopo la prima guerra contro gli Entropici Karmantic

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tornò al suo paese e divenne il guardiano del faro,
fondò la piccola scuola per Astromanti ed insegnò la
magia delle stelle ai nuovi talenti della penisola
meridionale del continente, una regione gibbosa e
poco conosciuta che la gente delle Dieci Città
chiamava “La Punta”.
La notte era infine sopraggiunta. I pensieri che
vorticavano nella testa del giovane mago gli avevano
fatto perdere il senso del tempo. Sentiva dabbasso i
suoi due compagni prepararsi per l’abituale
osservazione. Ogni sera insieme al maestro si
recavano sulle vicine colline per contemplare la via
lattea ed ascoltare il canto delle nebulose. Doveva
affrettarsi, altrimenti avrebbero fatto tardi e la luna
sarebbe sorta, oscurando con la sua luce riflessa molti
degli astri più interessanti osservabili in quel periodo
dell’anno.
Ma proprio mentre voltava le spalle al mare e si
accingeva a lasciare la terrazza del faro, una musica
lontana, un clangore metallico sormontato da note
talmente basse da non potersi quasi udire, lo trattenne.
Alzò lo sguardo ma non riuscì a vedere niente, perché
la luce di segnalazione era talmente forte che gli occhi
potevano appena distinguere gli astri più luminosi.
C’era qualcosa di strano e sbagliato in quella musica.
Braman aveva ascoltato molti canti del cielo, e mai si
era imbattuto in suoni così aggressivi. Meditò di
parlarne subito al maestro, ed era sul punto di
scendere le scale, quando pensò che se quel suono
fosse scomparso non sarebbe mai riuscito a capire da
quale astro del cielo proveniva. Sapeva che era una

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cosa pericolosa che non avrebbe mai dovuto fare, ma
qualcosa gli diceva che quella canzone nascondeva un
pericolo molto più grande. E così smorzò la luce di
segnalazione e in pochi secondi il faro si spense,
richiamando l’oscurità attorno alla torre e alle
scogliere del porto.
Gli occhi del giovane dovevano abituarsi al buio, ma
non aveva molto tempo a disposizione. Qualcuno in
paese stava già lamentandosi del faro che si era
improvvisamente spento. Braman rimase con
l’orecchio attaccato a quella canzone del cosmo,
temendo di perderla.
Poi udì qualcuno sopraggiungere. Era il maestro, che
saliva le scale aiutandosi con un bastone e domandava
adirato spiegazioni. Ma Braman non poteva
rispondergli. Doveva rimanere attaccato a quel suono,
e poi cercare la sua fonte tra i miliardi di puntini
luminosi che lentamente si rivelavano alle sue strette
pupille accecate dalla troppa luce. Attinse alle poche
conoscenze da Astromante che aveva a disposizione,
chiuse gli occhi e seguì la fonte di quella musica, e
quando si sentì chiamare da un preciso punto nel
cosmo infinito, aprì le palpebre e proiettò la vista
nell’abisso.
Il maestro apparve sul ciglio delle scale.
«Maestro Karmantic, laggiù! Che cosa c’è?» domandò
il ragazzo col volto stranito. All’Astromante bastò uno
sguardo, nella penombra della terrazza, per capire che
Braman aveva udito un segnale.
«Il Nero Occhio… che cosa hai sentito, ragazzo?» La
voce del vecchio era un sussurro carico tensione.

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«Clangori metallici e un coro di voci basse…»
«La Sinfonia del Cattivo Presagio… mio dio… »
Adesso anche il volto del maestro era diventato una
maschera di apprensione.
«Che cosa significa?»
«Ragazzo, se hai davvero sentito quella sinfonia
provenire dalle remote magioni del Nero Occhio, può
significare una sola cosa; una nuova guerra è
prossima…»
«Gli Entropici?»
«Si. Dobbiamo avvertire gli altri.»
Fu quello l’inizio del secondo terribile conflitto tra
Astromanti ed Entropici, e solo per miracolo i secondi
non riuscirono a portare a termine i loro piani.
Numerosi Astromanti perirono e le scuole di magia
rimasero chiuse per un’intera decade.
Molti anni dopo Braman tornò al faro. Nel frattempo
era diventato uno dei più potenti maghi delle terre dal
Grande Mare alla Breccia. Karmantic era morto e
anche i suoi due compagni erano periti durante
l’orribile conflitto.
Rimase ad osservare il mare per diversi mesi,
cercando di guarire la mente lesionata dalle atrocità di
cui era stato testimone. Non seppe perché era tornato
fino al giorno in cui un bambino si presentò al suo
cospetto. Avrà avuto non più di dieci anni, e due occhi
profondi quanto lo spazio infinito.
«La notte in sogno le stelle mi vengono a trovare…»
gli disse.
«Vieni, ragazzo. T’insegnerò a parlare con loro.»

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Quel giorno Braman capì perché era tornato alla
scuola del faro. Gli Entropici erano stati sconfitti ma
non distrutti. Un giorno sarebbero tornati e alle nuove
generazioni di Astromanti sarebbe toccato il compito
di difendere le Dieci Città. Il suo dovere era quello di
preparare i nuovi talenti, incominciando da quel
piccolo sognatore di stelle.
«Come ti chiami?»
«Tielsin, signore.»
«Bel nome…»
«Grazie.»
E così si chiuse l´ennesimo cerchio di conoscenza.

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ATTO I

20 Capitoli di 101 Parole

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I. LA PROFEZIA

L e stelle parlarono. L’Astromante tracciò le


traiettorie sul libro dei presagi. Le comete
potevano sempre alterare il disegno, ma il loro
passaggio era fortuito. L’ultima pennellata del caso.
L’erede al trono dormiva tra le braccia della regina. Il
suo nome era Jiman e una volta diventato adulto
sarebbe stato re.
Ma gli astri sapevano. Quel bambino non era il figlio
di Hrokanny, sovrano assoluto delle terre dal Grande
Mare alla Breccia. Era il frutto di un incontro sacrilego,
consumato nelle intercapedini di assurde dimensioni;
le magioni dei demoni.
La profezia era pronta. Un giorno qualcuno l’avrebbe
raccolta. Anche quello era scritto.

II. LA GRANDE SPIRALE

L’Astromante guardò negli occhi la sua amata.


«Al limitare della Vergine puoi evocare la musica di
Malin-1, la Grande Spirale. Io dimorerò laggiù.»
«Non puoi lasciarmi…» la voce di lei era spezzata dal
pianto.
«Ascoltami, io non ti lascerò. Oltre il miliardo di anni
luce le distanze perdono significato. Capisci?»
Lei era ancora giovane. Non conosceva tali segreti.
«Cosa vuoi dire?»
«Ogni volta che volgerai lo sguardo in su, io sarò con
te!»

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Gli occhi dei lui si chiusero, ma nel cielo lampeggiò
qualcosa. Lei lo cercò nell’abisso oscuro tra la Vergine
e la Chioma di Berenice. E udì un canto.

III. TIELSIN

L ’Entropico minacciò di distruggere il tempio


con l’alito dell’antimateria. La Profetessa
rimase impassibile, ossequiosa al disegno delle
stelle. Ma l’Astromante parlò, attraverso la
costellazione del Toro.
«Non osare aprire porte che non sarai capace di
richiudere!»
L’ombra guardò le Pleiadi e sorrise.
«Tielsin, ti nascondi ancora dietro gli astri? Non sei
l’unico a conoscere i segreti…»
Poi evocò un vento cosmico, lontano mille anni luce.
La terra tremò, gli atomi saltellarono impazziti, in
bilico tra realtà e sogno.
Tielsin piegò il tempo, tornando a capo della storia,
salvando il mondo. Poi una scheggia di Rigel cadde
dal cielo.
E l’ombra svanì.

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IV. COLLISIONE

V elixia scostò la grande tenda che ricopriva il


lucernaio. La volta celeste si distese ai suoi
occhi, il grande libro della conoscenza. Lassù
tutto era scritto; passato, presente, futuro. Per millenni
gli uomini lo avevano ignorato, distratti dalla scienza
e dalla tecnologia, incapaci di codificare i segni del
cielo, come avevano fatto per secoli i loro progenitori.
Solo dopo le grandi guerre erano tornati a leggere gli
astri, scoprendone l’immenso potere.
L’Astromante Velixia cercò la collisione di due
galassie, lassù nel Cane Maggiore. Poi evocò la loro
musica; le spirali cozzanti.
Gli Entropici sarebbero rimasti fuori dalla città,
almeno per stanotte…

V. I MAI-NATI

“S aturno nasconde il segreto, la profezia del


quarto anello…
Quando ascolterai questo canto, io sarò lontano,
laggiù dove lo spazio si piega e il tempo diventa
illusione. La notte in cui ci amammo mi apparve in
sogno Madya, la cometa fantasma. Il presagio aveva
messo radici nei miei lombi. Trova nostro figlio e
riuscirai a leggere il quarto anello, il segreto che
spezza l’Entropia.”
Tielsin smorzò la canzone di Andromeda. La galassia
aveva parlato con la voce della sua amata Kryna.

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L’Astromante soffocò un grido d’angoscia.
“Nostro figlio…” sussurrò.
L’universo è un gioco di specchi. I “mai-nati”
dimorano tra le stelle.

VI. HELIX NEBULA

L a guerra tra Entropici e Astromanti andava


avanti. I primi desideravano accelerare
l’avvento del Grande Collasso, la chiusura
definitiva di questo universo e delle sue leggi. I
secondi cercavano di contrastare questo assurdo
progetto. Perché la fine è sempre anche l’inizio di
qualcosa. Il regno dell’oblio…
Pensava a tutto questo Tielsin, Grande Astromante
delle dieci città. Aveva aperto un varco per Helix
Nebula, la nebulosa pulsante. Attraverso questa
finestra stellare poteva comunicare con gli altri maghi.
Gli apparve il volto di Rami, fratello di voto.
«Eccomi!»
Tielsin guardò il suo fedele compagno.
Gli disse: «Preparati. Stanno arrivando...»
Poi venne il tuono.

VII. LE RIVELAZIONI DELL'OCCHIO DI GIOVE

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L
guardia.
’occhio di Giove rivelò il covo degli Entropici.
Sotto le montagne v’era una torre di cobalto,
circondata da fuochi. Le bestie vi stavano di

«Potremo evocare le meteore. Spazzarli via.»


«No. L’equilibrio deve rimanere.»
«Ma maestro! Loro torneranno, e forse non riusciremo
a respingerli.»
Tielsin guardò il ragazzo. Gli ricordava suo figlio,
l’entità che aveva toccato vicino alla cintura di Orione.
«Fidati di me.»
«Ancora la profezia?»
«Si. Dobbiamo continuare ad ascoltarla, se vogliamo
evitare che un demone sieda sul trono delle Dieci
Città.»
«Il figlio di Hrokanny?»
«Quello non è suo figlio!»
La guerra tra Entropici ed Astromanti continuava.

VIII. LA CHIAMATA DI NUMI

V elixia ascoltava il maestro. La guerra aveva


privato entrambi dei rispettivi compagni. Ma
era giunto il momento del riscatto, la svolta
decisiva agli anni di sofferenza e alle notti passate
insonni agognando la vendetta. Potevano sbaragliare
gli Entropici. Potevano chiudere un era per aprirne
una nuova. Migliore.
«Vi ripeto, dobbiamo aspettare.»

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Tielsin rimaneva aggrappato alla sua idea, ma gli altri
Astromanti avevano deciso.
«Impossibile. Non possiamo permetterci di perdere
una simile occasione.» Era stato Numi a parlare.
Nessun altro, neanche Velixia, osò contraddirlo
E così arrivò il vento di particelle. La torre di cobalto
crollò, segnando l’inizio di una nuova epoca…

IX. IL RITORNO DI TIELSIN

N el giorno del suo trentunesimo compleanno


Jiman diventò re delle terre dal Grande
Mare alla Breccia, sovrano assoluto delle
Dieci Città. Suo padre, il grande Hrokanny, che aveva
guidato l’esercito contro le bestie venute dalle
montagne, dopo che la torre di cobalto era crollata,
dormiva il sonno più lungo. Jiman era l’unico erede,
successore per diritto di nascita.
Eppure la sua vera natura era un’altra…
Gli Astromanti se n’erano andati da tempo. Oltre la
Breccia si nascondeva il mistero del popolo antico.
Sconfitti gli Entropici, avevano deciso di partire. Ma
adesso uno di loro era tornato.
Il suo nome era Tielsin.

X. JIMAN LO STRISCIANTE

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N el remoto cosmo dimorano gli Striscianti,
esseri di fuoco e tenebre, ignari della scienza
e delle sue leggi. Rispondono solo alla loro
follia, e al desiderio d’appartenenza. Perché nella
solitudine del profondo universo, il tempo perde
significato, e le storie non hanno alcuna ragione di
esistere. Irrompere nella realtà è la naturale
predisposizione di queste creature, fin dall’inizio del
Tutto.
Irretiscono gli avidi di potere, costringendoli ad aprire
porte proibite. Una volta entrati non è facile riportarli
indietro, negli abissi siderali.
Jiman era uno di questi. Tielsin lo sapeva. Neanche
mille Entropici erano altrettanto pericolosi.
Come poteva sperare di sconfiggerlo. Come?

XI. PRIGIONIERO

«Catturatelo!»
Il tempo stravolge la percezione del vero. In appena
trent’anni gli Astromanti erano diventati degli infimi
ammaliatori. Jiman, creatura strisciante e senza tempo
nelle sembianze di un aitante principe, era riuscito a
manipolare le menti di palazzo. Poi gli araldi avevano
fatto il resto. In poco tempo i sapienti delle stelle,
salvatori delle dieci città, erano stati banditi.
Ma gli Astromanti se n’erano andati da tempo.
Nessuno aveva motivo di credere che sarebbero
tornati. Invece…

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Le guardie scattarono all’ordine del loro superiore.
Tielsin venne fatto prigioniero e condotto nelle segrete
della rocca del Re.
Era esattamente dove voleva andare lui.

XII. L'OCCHIO DELLA GALASSIA

L e celle per gli Astromanti erano prive di


feritoie. Un fazzoletto di cielo stellato era
sufficiente a richiamare un potere distruttivo.
Ma Tielsin non aveva bisogno delle stelle per
realizzare il suo piano.
Nelle dieci città si respirava la paura. Con le
menzogne e con la forza, il popolo era stato sedato.
Tutto era pronto per l’avvento dei figli di Jiman, la
progenie strisciante.
Nell’oscurità della sua cella, Tielsin percepiva la
presenza del re. Camminava nelle sue stanze, pochi
metri di roccia più sopra.
Attingendo ad ogni suo potere, compose il codice per
aprire il cancello. Uno spiraglio sull’occhio della
galassia…

XIII. L'EVOCAZIONE NON RIUSCITA

Qualcosa andò storto.


L’evocazione era anche un sacrificio. Tielsin era
pronto a dare la sua vita per confinare oltre il cancello
Jiman lo Strisciante. Il varco si apriva attraverso la

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mente dello stesso Astromante, una pratica magica
senza possibilità di ritorno. Faceva parte del piano.
Il codice era quello giusto.
La distanza tra lui e il suo obbiettivo anche.
Qualcosa però schermava il canto. La melodia del
cosmo non arrivava nei sotterranei del castello.
«Piombo…» sibilò Tielsin, sfiorando le fredde pareti
della cella. “Che stupido!” pensò.
Jiman era stato prudente.
Da quella prigione l’Astromante non sarebbe mai
uscito vivo.

XIV. IL RITORNO DI VELIXIA

A
vvolta nelle sue vesti di velluto azzurro,
Velixia cavalcava la coda della cometa.
L’avrebbe ricondotta al di là della breccia,
nella città in cui era nata, nel paese in cui aveva
conosciuto il suo amore.
Durante la guerra contro gli Entropici lui l’aveva
lasciata, ma il suo spirito dimorava adesso ai confini
dell’universo, laggiù dove lo spazio si piega e il tempo
assume strani significati.
Lui continuava a starle vicino, continuava a parlarle.
Era stato lui a chiederle di tornare.
Mentre traversava le montagne scorse le prime luci
delle città. Velixia alzò lo sguardo verso la Vergine.
«Indicami la strada…» sussurrò.

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XV. FUOCO DI COMETA

L a cometa cadde sulle mura della capitale. Ci fu


un bagliore accecante, la roccia esplose, si fuse,
lasciando pozze di fuoco un po’ ovunque.
Velixia apparve scostando le sue vesti. I disegni
stellari sul velluto azzurro pulsavano di luce propria.
Le guardie, al servizio di Jiman, si mossero verso di
lei. Dieci, venti, trenta uomini bardati di tutto punto.
Lei rimase ferma, impassibile, gli occhi perduti in un
vuoto cosmico. Dietro di lei la pietra continuava a
sfrigolare.
«Fermatevi uomini, altrimenti sarò io costretta a
fermarvi» minacciò l’Astromante.
Il capitano della guarnigione ebbe solamente un
attimo di esitazione. Poi ordinò: «Uccidetela!»

XVI. JIMAN CONTRO TIELSIN

L e ombre del corridoio che conducevano alla


prigione di Tielsin vennero rischiarate da una
luce innaturale, gelida come le voragini dello
spazio infinito. L’Astromante alzò gli occhi e vide una
sagoma deforme avvicinarsi. Ma quando Jiman lo
strisciante si accostò alle sbarre, era semplicemente il
Re delle dieci città. Era venuto di persona a reclamare
la vita del suo prigioniero, pensò Tielsin.
«Ne verranno altri dopo di me. Non riuscirai a
trasformare queste terre nel tuo scellerato covo. Prima

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o poi ti renderai conto che questo mondo non ti
appartiene!»
Il Re sorrise.
«Consolati mago. Presto non sarai più solo» disse.

XVII. OMBRE TENTACOLATE

V elixia ammantò la città di polvere di stelle. Il


sonno cosmico rapì le guardie, lasciandole la
strada spianata verso il palazzo reale.
«Sta venendo qui» mormorò lo strisciante,
accostandosi alle sbarre della cella.
“Velixia” pensò Tielsin, e il terrore gli si dipinse negli
occhi. Una trappola, ecco cos’era.
Jiman divenne un’ombra tentacolata che andò a
perdersi negli angoli bui delle prigioni. Trascorsero
momenti di silenzio assordante. L’Astromante ebbe la
sensazione di essere rimasto da solo nel palazzo.
Poi udì dei passi scendere le scale. Un’ombra vestita di
stelle apparve nel corridoio.
«Scappa Velixia! È una trappola!»
E le orme li ghermirono.

XVIII. NELLE PRIGIONI

«Tielsin, che succede?»


«Ci sta usando. Sta aprendo un portale attraverso di
noi. Sta chiamando i suoi figli…»

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Non era un’oscurità normale quella che circondava i
due Astromanti. Erano le tenebre dello spazio remoto,
gli angoli dell’universo al tempo della sua creazione,
le assurde magioni degli Ombrati e degli Striscianti.
«Cosa possiamo fare?»
«Devi uscire di qui. Le prigioni sono state schermate
dal piombo. Devi evocare le meteore e distruggere il
palazzo…»
«Non senza di te! Sono tornata per salvarti!»
«Non è possibile. Scappa, prima che sia troppo
tardi…»
Poi una luminosità tenue squarciò l’ombra.
«Cosa’è?»
«Antimateria. Adesso pensiamo alle sbarre…»

XIX. LA CHIAMATA INTERROTTA

J iman era diventato buio cosmico, ma in quelle


tenebre solide la magia che risiedeva nei due
Astromanti divenne la chiamata per l’avvento della
sua progenie. L’universo si stava piegando. Presto i
suoi figli avrebbero varcato la soglia. Nelle prigioni
del palazzo reale li aspettava il primo banchetto.
«Venite figli miei. Vi donerò un mondo intero di
ragioni per esistere…» disse lo Strisciante.
Ma nel telaio di tenebra avvenne lo strappo.
«Non è possibile…» sibilò Jiman, riprendendo forma
umana. Nel corridoio le torce tornarono ad ardere,
illuminando Tielsin e Velixia. Ma il piombo fuso nelle
pareti era ancora a vantaggio dello Strisciante.

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XX. LA FINE

La trasformazione ebbe inizio.


Le prigioni riuscivano a stento a contenerlo. Era una
massa informe di tentacoli ed escrescenze, nere carni
maleodoranti e vischiosità aliene. Lo Strisciante rivelò
il suo vero volto.
Tielsin prese per mano Velixia. A lei rimaneva solo un
granello di antimateria, sufficiente per aprire uno
squarcio nelle pareti, una finestra sul Cane Minore.
Insieme i due Astromanti richiamarono le meteore.
Iniziò così la pioggia di fuoco sopra il palazzo reale.
Un attimo prima che l’edificio crollasse, seppellendo
per sempre Jiman lo Strisciante, Tielsin e Velixia
afferrarono un bagliore di luna.
E nel cielo apparvero due stelle cadenti.

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Secondo Episodio

IL FIGLIO DELLE STELLE

28
29
* * *

L e città del nord erano cadute. Gli Entropici


avevano spazzato via le scuole di Metrion e
Clauria, appropriandosi dei segreti ancestrali e
delle mappe riflesse, quelle tracciate in antichità dai
grandi profeti Astromanti, che rivelavano i misteri di
un universo specchiato nel nostro. Con quelle nuove
informazioni gli Entropici avrebbero tentato di
richiamare, da un mondo oltre questo, il “Vibrato”, un
leggendario canto che secondo la profezia più nefasta
avrebbe iniziato il Grande Collasso.
La guerra infuriava da quasi tre anni. Lingue di fuoco
e folgori accecanti cadevano dal cielo nelle notti
stellate. La legione degli Entropici avanzava, un
centinaio di maghi esperti ammantati d’ombra, furtivi
come topi, letali come serpenti velenosi. A niente
servivano le comuni difese delle città, lance, spade e
balestre. Solamente la magia degli Astromanti era in
grado di arginare l’avanzata dell’oscura legione.
Ma adesso due città erano nelle mani dei maghi
corrotti e riprendere possesso delle scuole e dei segreti
in esse celati non sarebbe stato facile. Il consiglio degli
Astromanti, che si riuniva puntualmente ogni mese
nell’osservatorio di Tyria, capitale delle dieci città,
ordinò un’adunanza eccezionale. Qualcuno parlò di
sacrificare i cittadini di Metrion e di Clauria per la
salvezza dell’intero universo, un prezzo alto da pagare

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ma forse necessario. Molti si rifiutarono di ammettere
che non vi era altra alternativa. Tra questi c'era una
giovane coppia di maghi, abili e coraggiosi come
pochi. Lei si chiamava Dreemia, lui invece Numi.
Attendevano il loro primo figlio, ma la gravidanza era
solo all’inizio e la guerra stava diventando sempre più
cruenta. Dreemia aspettava il momento giusto per
rivelare al suo amato la sua condizione.
«Non riesco a rimanermene immobile mentre il
consiglio considera seriamente di spazzare via due
intere città e migliaia di cittadini innocenti…» Numi
passeggiava ansioso nel giardino della scuola, tra le
alte siepi di camelia e una fila di giovani lecci.
Dreemia l’osservava preoccupata, chiedendosi che
cosa gli passasse per la testa.
«Amore, dobbiamo partire!» esordì ad un tratto lui.
«Cosa? Per dove?»
«Possiamo entrare di nascosto nella città di Clauria.
Conosco un passaggio che porta direttamente sotto la
scuola di magia. Unendo le nostre conoscenze e
avvicinandosi di quel tanto da riuscire a prendere di
mira la biblioteca, dovremo essere in grado di
distruggere la maggior parte dei libri proibiti. Senza di
quelli non riusciranno mai a richiamare il Vibrato…»
Forse era una follia, ma l’amore obnubila le menti
degli uomini e li spinge a fare le cose più insensate.
Dreemia seguì l’uomo che amava fin sotto le
imponenti mura della città. Le guardie, ora agli ordini
dei maghi corrotti, sfilavano tra i merli da bastione a
bastione. Era notte. Le porte della città, come si
conveniva, erano state sbarrate al tramonto.

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Sicuramente un incantesimo aleggiava attorno a quel
luogo. Gli occhi delle stelle sopra Clauria erano
diventati gli occhi degli Entropici. Se avessero usato la
magia sarebbero stati scoperti, perciò l’unico modo
per entrare era attraverso le quattro porte poste a
nord, sud, est ed ovest. Ma la città era costruita su un
altopiano di roccia e terra dura, vicino al quale
scorreva il fiume Tebor, ancora giovane e impetuoso
in quel punto. Nel suo viaggiare verso occidente si
sarebbe unito a molti affluenti prima di diventare il
più grande fiume delle terre dal Grande Mare alla
Breccia e riversarsi infine nell’oceano. Esisteva un
passaggio tra gli anfratti rocciosi che delimitavano il
corso del fiume, un cunicolo segreto che gli
Astromanti adoperavano durante le emergenze. Numi
aveva vissuto per un paio di mesi nella città di Clauria
e ne era a conoscenza. Con l’aiuto della sua amata
scostò una grande roccia che nascondeva il passaggio.
Insieme, guidati dalla luce di una fievole torcia,
lasciarono che l’oscurità li inghiottisse, e mentre
risalivano uno stretto passaggio di roccia e terra
pressata, poterono distinguere l’allontanarsi della
corrente del fiume, e i suoni tipici della fauna
notturna. Presto si sentirono avvolti, oltre che
dall’oscurità, da un silenzio feroce.
Il cunicolo procedeva diritto verso il centro della città,
salendo quasi impercettibilmente. Nel procedere il
passaggio diventava più ampio e meglio lavorato, e
lungo gli ultimi cento metri non era altro che un
corridoio scavato nella roccia. Lo scavo terminò
davanti a una possente porta di metallo che portava il

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simbolo dei maghi di Clauria, un telescopio incrociato
a una spada.
«Ci siamo...» esclamò Numi.
La porta era ovviamente sbarrata e le stelle non
potevano aiutarli sotto terra. Numi estrasse da una
bisaccia un piccolo passepartout e incominciò a
lavorare la serratura. Il sudore gli imperlò la fronte,
maledisse un paio di volte l’antico dio ma alla fine
riuscì a far scattare il chiavistello.
«Tesoro, sei pronta?» chiese alla compagna.
«Accanto a te sono sempre pronta...» rispose Dreemia
con l'amore negli occhi.
La porta si aprì e si ritrovarono in una piccola stanza
immersa nell’oscurità. Vi erano delle scale a chiocciola
che salivano, e delle voci, lontane ma distinte, che
provenivano dai piani superiori. Spensero la torcia e
attesero che i loro occhi si abituassero al buio.
Notarono subito che una debole luce, proveniente da
sopra, riusciva ad illuminare le scale. Lentamente si
mossero verso la luce e le voci, due ombre sfuggenti
ammantate da tuniche stellate.
Entrambi conoscevano il rischio di quella missione.
Forse sarebbero riusciti a distruggere la biblioteca, ma
per uscire vivi da quella trappola serviva un miracolo.
Dreemia si toccò il ventre sentendosi in colpa. Sapeva
che se avesse rivelato all’amato la sua condizione lui
l'avrebbe convinta a restare a Tyria. Ma lei era un
Astromante, oltre che a una donna e una futura
madre, e combattere la follia degli Entropici era la sua
prima ragione di vita. Sarebbero morti insieme, se il
miracolo non fosse avvenuto, e forse tutti e tre

33
avrebbero trovato la pace e la felicità sotto nuove
forme, tra i misteri di luce ed energia dello spazio
remoto, là dove le anime vanno a riposare.
Adesso Numi procedeva silenzioso attraverso i
corridoi della scuola di magia. Le voci erano sempre
udibili, ma si stavano allontanando. Si trovavano
ancora nei sotterranei e la biblioteca doveva trovarsi al
pian terreno. Inoltre avrebbero avuto bisogno di una
finestra sul cielo stellato per richiamare il potere, e per
tutti questi motivi dovevano riuscire a guadagnare i
livelli più alti.
«Non possiamo più permetterci di proseguire con
cautela. Dobbiamo salire, adesso...» dichiarò Numi
una volta raggiunta la rampa di scale che portava al
piano terra. Dreemia annuì ed estrasse il suo stiletto.
Numi impugnava un fioretto d'argento, un'arma ben
lavorata con il simbolo della sua scuola impresso
sull'elsa: l'occhio di Giove.
Gli eventi che seguirono rimasero confusi nella mente
dell'uomo e forse lo tormentarono in sogno negli anni
a venire, trasfigurando lentamente la sua anima, come
acqua che corrode la pietra. Numi e Dreemia
combatterono l’uno a fianco all'altra per farsi strada
fino alla stanza della conoscenza, la grande biblioteca
di Clauria. Tre guardie e un potente mago entropico
caddero trafitti dalle lame dei due Astromanti. Numi
scostò le tende davanti a un grande lucernario,
rivelando la volta stellata, e mentre due Entropici
irrompevano nella stanza, intonò insieme alla sua
amata il canto di Betelgeuse. L'attimo dopo il fuoco
divampava tra gli antichi tomi della biblioteca,

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consumando in pochi istanti i segreti di secoli di
lettura del cosmo.
Tra le lingue di fiamma e i nembi di fumo Numi si
aprì un varco verso la sua compagna, ancora intenta
ad intonare la canzone. L'afferrò per un braccio e la
trascinò via, nella quieta notte di Clauria, rotta dalle
urla dei due Entropici arsi vivi. Nelle strade si
riversarono le guardie e gli stregoni ammantati di
scuro. Numi corse a perdifiato mentre alcune frecce
rimbalzavano sul lastricato di pietra, a pochi passi da
loro. Stringeva forte nella sua mano quella di lei, e non
si voltò neanche quando sentì quella stretta cedere per
un istante. Richiamò un potere più grande, attingendo
ad ogni sua risorsa, e in un lampo il cielo nero li
inghiottì. Due comete apparvero sotto la luna, una
fulgida e azzurra, l'altra opaca e quasi priva di coda.
Caddero nei boschi a sud della città.
«Che è successo, amore?» chiese Dreemia, e la sua
voce era sofferente e fioca.
«Ce l'abbiamo fatta. Siamo salvi» rispose Numi, ma la
felicità che gli dipingeva il volto sparì tra le ombre del
bosco nel quale erano caduti. Solo in quel momento
vide la freccia sbucare dal ventre della sua amata. Il
suo urlo di dolore spaventò i corvi e gli scoiattoli. Un
lupo ululò di rimando.
Poi lei, adagiata sull'erba, incapace quasi di muoversi,
raccolse una piccola pietra e se la portò al ventre, dove
il sangue scorreva copioso.
«Aiutami adesso, ti prego… non abbiamo molto
tempo…» disse lei. Numi sapeva che non esistevano

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incantesimi per curare quella ferita. Rimaneva
immobile, incapace quasi di respirare.
«Canta insieme a me...» Dreemia indicò un punto nel
cielo, un astro che Numi non conosceva.
«Laggiù dimora nostro figlio... è l'ultimo dono che
voglio farti...» Le lacrime traboccarono sul volto
dell'Astromante. Solo le madri erano in grado di
richiamare le anime dei Mai-Nati.
Cantarono insieme la canzone segreta della vita. Nel
cielo una stella lontanissima lampeggiò per tutta la
durata dell'incantesimo, per poi spengersi nella mani
della donna. La pietra che stringeva al petto brillava
adesso della luce di quella stella.
«Tieni…» sussurrò la donna con un filo di voce. «Tieni
nostro figlio...»
Numi, stravolto dal dolore, afferrò la pietra.
«È un maschio, sai...» continuò lei. «Mi piacerebbe che
lo chiamassi Kido...»
Furono le sue ultime parole, prima che l'universo
richiamasse la sua anima.

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ATTO II

20 Capitoli di 101 Parole

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I. PRESAGI E SEGRETI

«Papà, guarda! Due stelle cadenti!»


Il bimbo alzò il dito verso i misteri della volta celeste.
Il padre gli accarezzò dolcemente la testa.
«È un buon presagio» sussurrò.
«Significa che inizierai a seminare?»
«Si, domani prepareremo i campi.»
«Posso venire con te?»
L’uomo guardò il volto di suo figlio e lo scoprì
cambiato. Presto non sarebbe più stato un bambino.
«Va bene, ma adesso è l’ora di andare a letto.»
Nel mondo oltre la Breccia viveva gente semplice, in
armonia con la natura e con gli astri. Eppure un
terribile segreto dormiva sotto le terre che coltivavano.
Dimenticato ma non sconfitto.

II. LA TORRE NEL DESERTO

O
ltre la Breccia vi erano i villaggi, e poi i grandi
fiumi, e oltre ancora le paludi. Pochi si erano
spinti fin là.
Ma c’erano leggende che parlavano di un grande
deserto che si estendeva dalle paludi al mare. Laggiù,
dentro una torre che toccava il cielo, dimorava
l’Astromante Numi. Leggeva le stelle, parlava ai
pianeti e ascoltava il canto delle galassie.
Ma nel silenzio ossessionante del deserto, i suoi
orecchi udirono il richiamo della terra. Non la voce

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consolante della Grande Madre, ma il bisbiglio
raccapricciante di uno spirito corrotto.
Numi smise di rivolgersi al cielo e seguì quel
richiamo.

III. CONTADINI

T ielsin e Velixia avevano lasciato le Dieci Città.


Il tempo degli Astromanti era terminato. La
gente non voleva avere più nulla a che fare con
loro, e adesso che la minaccia di Jiman lo Strisciante
era stata sgominata, il popolo poteva riprendere a
vivere in pace.
Ma il mondo oltre la Breccia nascondeva ancora molti
segreti. Gli Astromanti avevano iniziato ad esplorarlo
dopo aver sgominato gli Entropici, molti anni prima.
Tielsin e Velixia discesero le montagne e avvistarono i
primi insediamenti umani. Chiesero ospitalità ai
contadini e a sera cenarono con loro, nella sala del
fuoco. Il fattore raccontò una storia…

IV. LA LEGGENDA DI ADÚ

“Q uando la Terra era giovane e il Sole


splendeva con forza nel cielo scuro ancora
privo di nuvole, vivevano strane creature
fatte di roccia liquida e gas. Si chiamavano Laviani,
perché nelle loro vene non scorreva sangue ma lava, e
i loro occhi erano pietre incandescenti.

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Quando Acqua, la grande signora, rifluì sulla Terra, i
Laviani dovettero lasciare la sua superficie per
rifugiarsi nelle grotte sotterranee. Ma presto morirono,
perché non potevano più vedere il Sole, che
adoravano come un padre.
Solo uno ne rimase. Il suo nome era Adù, e dorme
ancora sotto il grande vulcano, attendendo il tempo
della rivalsa.”

V. LA VENUTA DEL DIO DEL FUOCO

O
ltre il deserto, nel remoto sud, la terra tremò.
Il vulcano accese la notte, la lava si riversò
sulla giungla, divorando alberi e piante. E
mentre un fiume incandescente descriveva una scia
scarlatta, Adú apparve. Si ergeva su una pietra in
mezzo alla lava. Balzò sulla terra e questa divenne
cenere sotto di lui. Con ampie falcate si avviò verso il
deserto, verso colui che lo aveva chiamato.
Adú non conosceva gli uomini, ma presto loro
avrebbero conosciuto lui. Presto sarebbero diventati i
suoi adoratori.
Al mattino il sole spuntò e Adù rimase immobile,
colpito dalla visione.

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VI. NUMI E ADÚ

D alla finestra più alta della sua torre, Numi


vide il fuoco avanzare verso di lui.
Nell’oscurità del deserto, il silenzio era rotto
soltanto dai passi squassanti di Adù. L’Astromante
volse lo sguardo verso il cielo, in un lontano disegno
ai confini dell’universo. Richiamò il potere, alzò la
protezione e attese.
Il gigante di roccia lavica si fermò davanti a colui che
lo aveva destato dal sonno millenario. Avrebbe potuto
annientarlo allungando la mano, ma non ci provò.
Una magia più antica di lui dimorava negli occhi
dell’uomo.
«Eccomi, umano!» disse.
Numi era totalmente affascinato dalla creatura.
«Faremo grandi cose insieme…» mormorò.

VII. SEPARAZIONE

«Cosa farai adesso?» chiese Velixia.


«Non lo so. Credo che andrò a nord, verso le
montagne. E tu?»
Lei guardò il sole che nasceva ad oriente.
«Numi sta studiando il deserto e le antiche leggende
di queste terre. Andrò da lui…»
«Il deserto? È un viaggio impervio…» sottolineò
Tielsin.
«Allora è meglio che mi metta subito in cammino…»
disse lei, senza nascondere una nota di tristezza.

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I due Astromanti si separarono, ma giurarono di
ritrovarsi l’anno dopo, il giorno dell’equinozio di
primavera. Qualcosa dal cielo provò ad avvertirli, ma
erano troppo stanchi, o forse confusi.
L’arrivederci era in realtà un addio.

VIII. FUMO SULLE PIANURE

T ielsin viaggiò verso nord seguendo le


costellazioni. Per due settimane percorse le
strade del Vecchio Impero, rovine di un epoca
che non era più. Incontrò le prime comunità di Tundri,
un popolo di cacciatori che viveva sulle montagne. La
loro ospitalità era rinomata, perciò l’Astromante
rimase presso di loro per un mese, immergendosi nei
suoi studi.
Ma un giorno, passeggiando su un costone di roccia,
vide del fumo nero innalzarsi dalle pianure. Qualcosa
di spaventoso stava portando fiamme e distruzione
sulle terre oltre la Breccia.
Quella notte Tielsin chiese consiglio agli astri. Gli
dissero che era arrivato il tempo di partire.

IX. TERRA BRUCIATA

M entre discendeva i declivi Tielsin avvertì il


calore. Sarebbe stata un’estate diversa,
torrida in modo innaturale. Anche le nevi
si erano già sciolte, e la primavera era solo all’inizio.

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I villaggi erano diventati cenere. Anime perse
vagavano alla ricerca dei parenti sopravvissuti.
“È tornato il Dio del Fuoco! Adù si è risvegliato!”
deliravano le comari e i contadini.
Come poteva essere? Allora le leggende erano vere,
pensava l’Astromante, camminando tra le rovine
ancora fumanti.
«Dov’è il resto del villaggio?» domandò ai pochi
uomini rimasti.
«Adesso servono Lui. Sono la sua prole.» risposero.
E riprese il cammino, seguendo orme di terra bruciata.

X. RITORNO ALLA TORRE

V elixia raggiunse la Torre nel Deserto,


incurante dei segni del cielo. Se avesse
consultato le stelle e ascoltato il canto delle
galassie, avrebbe conosciuto il pericolo. Ma era stanca
di vedere il male dappertutto. Era stanca di viaggiare
e di combattere.
Sarebbe dovuta rimanere vicino a Tielsin, questo le
diceva il suo cuore. Gli eventi passati avevano
avvicinato i due Astromanti, ma entrambi non
potevano ignorare le presenze che li attendevano nelle
magioni del cielo. Così aveva deciso di ritornarsene
dal maestro Numi.
Dalla torre un uomo si affacciò e la guardò.
Numi era cambiato.
Il terrore le ghermì il cuore.

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XI. L'ASTROMANTE CORROTTO

«Maestro, che vi é successo?»


Velixia resistette all’impulso di fuggire.
«Oh Velixia, è appena incominciata un nuova epoca…
Il dio della terra si è risvegliato. Adù è il suo nome, e
proprio adesso passeggia libero per il mondo degli
uomini, illuminando le loro anime confuse. Egli mi ha
confidato i segreti della terra e del fuoco…»
La donna riconobbe il tipico farnetichio di una mente
corrotta dal potere. Sapeva di avere solo una
possibilità. Alzò le braccia al cielo e richiamò le
meteore.
«Sciocca!» sibilò Numi, folgorandola con lo sguardo.
Poi il fuoco si riversò dalle sue mani e Velixia urlò.

XII. FUMO SULLA FATTORIA

I
l contadino piangeva stringendo il figlio al petto.
Dal campo appena seminato s’innalzavano rivoli
di fumo, tracce ancora fresche del passaggio
dell’orda di Adù, il dio del fuoco e della terra.
«Quanti erano?» domandò il mago col mantello di
stelle.
«Almeno un centinaio, avevano gli occhi di luce e
sputavano fuoco…» singhiozzò l’uomo.
Tielsin gli sfiorò la spalla per consolarlo. Erano gli
unici superstiti della fattoria.
«Almeno tuo figlio vive ancora» disse.

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«Il raccolto è perduto… moriremo di fame…» rispose
il contadino, stringendosi più forte al figlio.
L’Astromante non seppe cos’altro aggiungere. Si
rimise in viaggio, seguendo le scie di fumo.

XIII. MESSAGGIO NEL CIELO

C ome poteva pensare di fronteggiare da solo il dio


del fuoco...
Tielsin si fermò davanti all’ennesima devastazione. Le
donne del villaggio urlavano, i bambini piangevano,
gli uomini ancora vivi trattenevano lacrime di dolore.
Molti riportavano sul volto i segni di terribili
bruciature. Le fiamme lambivano ancora i resti delle
case distrutte dal fuoco.
L’Astromante si stava avvicinando all’orda, ma una
volta raggiunta, che cosa avrebbe potuto fare da solo?
Quella notte lanciò un messaggio nel cielo stellato. Era
una chiamata d’aiuto per tutti gli Astromanti. Tielsin
non immaginava che l’artefice di quella distruzione
sarebbe stato in grado di intercettare il messaggio.

XIV. LA FOLLIA DI NUMI

«T ielsin, sei sempre stato uno sciocco.


Come puoi pensare di fermare Adù, che
vaga libero insieme alla sua orda e che,
grazie a me, è adesso più potente di quanto non lo sia
mai stato. A niente ti servirà l’aiuto degli altri

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Astromanti. Uno ad uno si schiereranno dalla mia
parte, se non vorranno fare compagnia alla tua amica
Velixia, nelle magioni dello spazio infinito…»
Il delirio di Numi si perse nella notte, mentre
accarezzava la pelle ustionata della donna. Poi una
risata folle e terribile squarciò il silenzio del deserto.
La droga era in circolo.
Il suo nome era Potere.

XV. KIDO

L a luce della luna stendeva una patina argentata


sulle chiome degli alberi. Tielsin aveva lasciato
la scia di terra bruciata, tagliando per i boschi
orientali, ormai convinto di non avere alcuna
possibilità contro Adù. Doveva trovare Velixia, e
chiedere aiuto a Numi. Insieme, forse sarebbero stati
capaci di respingere il demone.
Davanti al fuoco da bivacco, cercava il sonno degli
Astromanti, quello protetto dagli occhi delle stelle.
Un’ombra si mosse vicina. La vide dall’alto, come in
un sogno; lui, il fuoco, le chiome degli alberi e la luce
argentata.
Poi aprì di colpo gli occhi.
«Chi sei?»
«Maestro, sono io. Kido…»

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XVI. IL FIGLIO DI NUMI

A veva gli occhi del padre, e per un momento


Tielsin lo scambiò per il maestro Numi.
«Ho letto il messaggio…» disse il giovane Astromante.
«Sai dove si trova adesso?»
«Verso sud. Ho visto del fumo ergersi dalle valli
bianche. Ci sono molti villaggi laggiù…» la voce del
ragazzo calò di un ottava.
«E gli altri?»
«Ho incontrato Rudor ed Alia. Andavano da mio
padre, nel deserto.»
«Anche io sono diretto laggiù…»
Gli occhi di Kido cambiarono. La sua mano afferrò il
braccio del maestro.
«Attento, Tielsin!»
«Che ti succede, figliolo?»
«Stai molto attento a mio padre. Non è più lo stesso!»

XVII. RUDOR ED ALIA

N ell’oscurità dilagante del deserto, Tielsin e


Kido avvistarono un fuoco tra le dune.
Avevano viaggiato due giorni interi,
dormendo solo un paio d’ore.
«Devono essere Rudor ed Alia, laggiù» disse il
ragazzo indicando il fuoco da campo.
«Muoviamoci» rispose il maestro.
Nel cielo la luna si colorò d’azzurro. I due Astromanti
intuirono immediatamente la presenza dei consimili.

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«Tielsin, sei tu?» domandò la voce di Rudor, un uomo
alto con lunghi capelli corvini.
Il maestro entrò nel cerchio di luce seguito dal
ragazzo.
«Sono felice di vedervi» disse.
«Anche noi...» rispose Alia, dal bianco mantello. Poi
pianse...
«Oh maestro, é così terribile...»

XVIII. QUATTRO SOTTO LE STELLE DEL


DESERTO

R udor ed Alia raccontarono a Tielsin dell’orda,


di come si stava spargendo per tutte le terre
oltre la Breccia, e che se non veniva fermata,
avrebbe presto varcato le montagne. Nessuno dormì
quella notte, ma la magia delle stelle di quel cielo
incontaminato rinvigorì gli animi degli Astromanti.
Il giorno dopo i quattro avvistarono la torre di Numi.
Dalla finestra più alta apparve un uomo dal volto
deturpato. Per un momento nessuno riuscì a
riconoscerlo.
«Numi, sei tu? Che ti é successo?» provò a chiedere
Tielsin, un passo avanti agli altri.
Ma la sola risposta che ottenne fu una risata delirante.

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XIX. LO SCETTRO DELLA VITTORIA

«S
ta arrivando! Viene da voi, insieme al suo
popolo... non siete contenti?» gridò la voce
del mago corrotto.
«Che stai dicendo Numi?» ma Tielsin conosceva già la
risposta a quella sua domanda. Numi era l’artefice
della rinascita di Adù.
«Il dio del fuoco e della terra viene a portarmi lo
scettro della vittoria. Lo vedete? Laggiù...» disse,
indicando una scia di fumo all’orizzonte.
Non rimaneva molto tempo. Dovevano richiamare il
Grande Vuoto, ma senza l’aiuto di Numi era
praticamente impossibile.
«Numi, sei ancora in tempo a redimerti...»
Per un momento il delirio abbandonò i suoi occhi. Ma
fu solo un momento...

XX. IL GRANDE VUOTO

L ’orda del dio di lava circondò la torre, uomini,


donne e bambini divorati dal fuoco, vivi grazie
ad una magia antica e perversa.
«Padre, guardali...» disse Kido all’uomo nella torre. «É
questo quello che vuoi?»
Lo sguardo di Numi vacillò.
«Non abbiamo più tempo. Adesso!» urlò Tielsin. I
quattro Astromanti rivolsero il volto al cielo,
intonando l’incantesimo. Adù mosse le sue membra di
roccia e fuoco verso i maghi, ma una voragine si aprì

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d’improvviso sotto i suoi piedi, scura come la morte. Il
buco nero lo risucchiò, confinandolo nello spazio
infinito.
Poi Numi cadde, abbracciando la redenzione,
sprofondando deliberatamente nell’oblio.

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Terzo Episodio

VELIXIA

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53
* * *

L a neve era venuta presto quell'inverno. Velixia


la guardava cadere attraverso la finestra della
sua camera da letto, tra le fredde pietre della
rocca di famiglia. Gli inverni erano lunghi da quelle
parti e a volte il cielo rimaneva coperto per intere
settimane. Durante quei periodi non era possibile
leggere il cielo, e allora lei si ritirava nelle biblioteche,
divorando i tomi di suo padre e le carte celesti degli
Astromanti di Nuedra, la città dove si sarebbe recata
all'inizio della primavera per ricevere l'investitura.
L'apprendistato era stata opera di suo padre, uno
degli Astromanti più potenti delle dieci città, e di
sicuro non era stato un vantaggio per la giovane maga.
Severo e orgoglioso, combattuto dal sentimento
inconfessabile di aver sempre desiderato un figlio
maschio, Valmir della città di Metrion si era rivelato il
più esigente dei professori.
Erano loro due soli, praticamente da sempre. La
madre di Velixia era morta nel darla alla luce. Poteva
essere una figlia delle stelle, nata per incanto dalla luce
dell'astro in cui dimorava la sua anima, ma sua madre
voleva gioire e patire l'esperienza del parto e rifiutò la
comune pratica delle donne Astromanti. Qualcosa non
andò come previsto e poche ore dopo la nascita della
piccola Velixia, il severo Valmir piangeva come un
agnellino al capezzale della sua consorte. Per un anno

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si rifiutò di prendere in braccio la bambina, cresciuta
come una figlia dalla sorella del mago, zia Triscia.
Ricordava i sorrisi e le attenzioni della giovane zia.
Senza di lei la sua infanzia sarebbe stata un inferno.
Anche lei se ne era andata, spezzata da un male
incurabile due inverni prima. Erano soli adesso, non
come padre e figlia ma come maestro e discepola.
Attizzò il fuoco della stanza e pensò di scendere nello
studio a prendere un libro sul canto delle nebulose.
C'erano alcuni incantesimi estremamente complicati
che doveva imparare prima dell'esame e se il cielo
fosse rimasto oscurato a lungo chissà quando avrebbe
avuto l'occasione di provarli. Stava per uscire quando
udì nitrire un cavallo e riconobbe subito che non era
uno dei suoi. Si affacciò alla finestra, nascosta dalle
tende e dall'ombra, e vide uno straniero scendere da
un possente destriero, un uomo alto con indosso un
manto scuro privo di insegne. L'uomo legò il cavallo
all’anello che sporgeva accanto all'entrata della rocca,
mentre la neve incominciava a vorticare nell'usuale
danza che precede la tempesta. Il cielo era bianco e il
vento veniva dal nord e c'erano tutti gli ingredienti
giusti per rimanersene al caldo davanti al fuoco.
Lo straniero percorse con ampie falcate la distanza che
separava il cancello delle mura dall'entrata principale
della rocca, uscendo dalla visuale della ragazza. Udì la
porta spalancarsi e la voce di suo padre che invitava il
cavaliere ad entrare. La sua curiosità prese il
sopravvento e lasciò di corsa la stanza con l'impellente
bisogno di scoprire chi fosse quell'uomo e in che modo
conoscesse suo padre.

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«Giusto in tempo, la tempesta sta per arrivare...» La
voce dell'uomo era squillante, con un evidente accento
del sud.
«Che ci fai qui? La tua presenza non è gradita tra
queste mura...» Il tono di suo padre sembrava più che
infastidito, addirittura furioso.
«Calmati Valmir, non mi ha visto nessuno e il cielo
rimarrà oscurato per almeno due settimane. Non
essere paranoico...»
«Paranoico? C'è mia figlia su. Non voglio che tu stia
vicino a lei, intesi?»
«Non mi vorrai buttare fuori? Il rifugio più vicino è a
mezza giornata di cavallo e con la tempesta in arrivo
me la vedrei davvero brutta. Non vorrai che si sappia
che hai sacrificato un fratello per proteggere la tua
amata figliola, no? Di sicuro gli altri non
capirebbero...»
Velixia, immobile davanti alla porta dello studio di
suo padre, non riusciva a respirare. Nella sua testa i
frammenti di un indecifrabile puzzle incominciarono a
muoversi senza alcun senso. Chi era quell'uomo?
Perché si diceva fratello di suo padre? Suo padre non
aveva fratelli. Un brivido le percorse la schiena, una
paura sottile le si era insinuata sottopelle.
«Che cosa vuoi?» la voce di Valmir divenne più calma.
«Ho delle buone notizie. Dopo il disgelo partiremo per
la missione. Tutto è pronto, sette di noi, tre slitte e
quaranta cani. Passeremo le montagne a metà
primavera e poi avremo tutta l'estate per trovare
quello che cerchiamo...»

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Ci fu un momento di silenzio in cui Velixia credette di
sentire il padre avvicinarsi alla porta. Lei non riusciva
a muovere neanche un muscolo. Era la fine, pensò, ma
i passi erano diretti verso il tavolo dei liquori. Udì
distintamente il clangore dei bicchieri di cristallo sul
collo della bottiglia.
«Questo ti scalderà.»
«Grazie, fratello.»
«Evita di chiamarmi "fratello" in questa casa, intesi?»
«Certo Valmir...»
Poi la conversazione diventò relativamente scontata e,
complice forse il liquore, i due si rilassarono parlando
di cose da uomini; politica e cavalli. Velixia colse
l'occasione per dileguarsi silenziosamente nella sua
stanza. Aveva molto su cui riflettere.

Lo straniero disse di chiamarsi Fhulam e di venire da


Veresia, la più piccola delle dieci città, famosa per le
sue spiagge dorate e per il mare caldo. Quella sera a
cena si presentò a Velixia e fece del suo meglio per
dimostrarsi gentile, ma la ragazza, esibendo sempre il
sorriso, non abbassò mai la guardia. Spiegò che
insieme a Valmir avevano condotto alcuni studi
nell’osservatorio della capitale Tyria, e che si
conoscevano praticamente dai tempi della scuola.
Velixia finse di essere molto presa dallo studio e si
ritirò presto nella sua stanza. Quell'uomo non le
piaceva e una voce interiore le sussurrava che suo
padre era invischiato insieme a lui in qualcosa di
illegale e pericoloso. Aveva pensato di parlarne al
padre, ma si era subito resa conto che sarebbe stato

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inutile. Lui, se le nascondeva qualcosa di grave, le
avrebbe mentito e poi l'avrebbe distratta con nuovi
esercizi per prepararsi all'esame.
La neve cadde insistentemente per cinque giorni
ricoprendo ogni cosa. Alla rocca lavoravano due
servitori che erano abituati a gestire una situazione
estrema come quella. Nella cantina si conservavano i
viveri e la stalla era piena di fieno per i cavalli e di
legna da ardere. Imprigionata in un limbo candido, la
giovane Astromante contò i giorni domandandosi che
cosa avrebbe fatto una volta che la tempesta fosse
passata. Le strade che portavano al villaggio venivano
sgombrate dai contadini, ma dopo una nevicata come
quella potevano anche decidere di lasciar perdere e
aspettare il disgelo. Questo poteva significare essere
costretta a rimanersene alla rocca per altri due mesi,
probabilmente insieme a quello straniero.
Ma il sesto giorno il sole uscì fuori e la temperatura si
alzò. Fulham si disse pronto a partire, salutò il padre
con un abbraccio e lei con un sorriso di cui avrebbe
fatto anche a meno.
«Con la neve che è caduta ti ci vorrà l'intera giornata
per arrivare al rifugio del villaggio. Fai attenzione» si
preoccupò Valmir.
«Nessun problema, questo è un cavallo del nord, nato
sulle montagne dei Tundri oltre la Breccia. Mi è
costato una follia, ma sulla neve sa il fatto suo» rispose
l'uomo, prima di voltarsi e partire.
Velixia alzò lo sguardo verso il cielo limpido,
abbagliata dal riflesso di tutta quella neve. Sorrise,
mentre il cavallo dello straniero si allontanava dalla

58
rocca, lasciando una scia di profonde impronte.
Nessuna traccia di nuvole. Sapeva che cosa avrebbe
fatto quella sera.

Si avvolse nella pelliccia d’orso che le aveva regalato


suo padre, afferrò le carte e il telescopio ed uscì nella
notte silenziosa e ammantata di neve. La luna era solo
a metà, ma il suo riflesso sulle candide pareti delle
montagne illuminava a giorno la valle. Non era la
condizione ottimale per osservare il cielo ma Velixia
non poteva permettersi di attendere un'altra notte
chiara.
Si arrampicò lentamente su un promontorio facendo
attenzione a non scivolare. La neve incominciava a
ghiacciarsi perché la notte la temperatura scendeva
abbondantemente sotto lo zero. Raggiunta la parte più
alta del dosso piazzò a terra il telescopio e lo rivolse
senza esitazione verso la costellazione del Drago, ben
visibile sopra i picchi delle montagne. Dentro quel
piccolo reticolato di stelle vi era una galassia molto
particolare. Nel vecchio mondo era conosciuta con il
nome di Markarian, ma gli Astromanti delle dieci città
la chiamavano semplicemente "La Messaggera".
Invisibile con i normali telescopi, la galassia poteva
essere rivelata solo attraverso un complesso di lenti
magiche. Velixia quella sera aveva chiesto la padre se
poteva usare il suo telescopio per un esperimento e lui
glielo aveva concesso di buon grado.
La Messaggera nascondeva uno dei più potenti buchi
neri dell'universo conosciuto. Usando le parole di un
complicato incantesimo l'Astromante poteva legare al

59
canto della galassia un messaggio che si sarebbe
rivelato poi in sogno al destinatario. Velixia non aveva
mai provato quell'incantesimo ma ne conosceva le
parole. Grazie al telescopio magico del padre non le ci
volle molto per intercettare il canto di Markarian.
Formulò le immagini del sogno attraverso poche e
semplici parole e le lasciò libere nell'universo.
Avrebbero disturbato il sonno di Connor, giovane
Astromante della città di Nuedra e unico vero amico
di Velixia.

L'inverno, quello vero, arrivò pochi giorni dopo. Per


sei settimane Velixia rimase bloccata alla rocca insieme
a suo padre, in attesa di un sogno rivelatore o di un
messaggio di qualsiasi entità che le avrebbe chiarito i
suoi dubbi. Connor aveva un anno più di lei ed era
stato nominato Astromante a tutti gli effetti la passata
primavera. Era un ragazzo di cui si era fidata fin da
subito, ma sfortunatamente aveva potuto frequentarlo
solo durante le sporadiche visite di suo padre alla
scuola di Nuedra. Più volte si era dimostrato
disponibile per qualsiasi problema, e di sicuro ne
sapeva più lui del mondo che una ragazzina
prigioniera di una rocca alle pendici delle montagne
del nord.
Il sogno che gli aveva mandato attraverso “La
Messaggera” era composto da alcune immagini prese
da suoi ricordi di Fulham, mescolate alle frase che
aveva sentito quel giorno orecchiando alla porta dello
studio di suo padre. Le sue decisioni erano motivate
da un genuino interesse per il genitore e da una strana

60
sensazione che non riusciva ad abbandonarla.
Nonostante tutto voleva bene al suo vecchio, e l'ultima
cosa che desiderava era metterlo in pericolo.
Ma quando dieci uomini ammantati di stelle si
presentarono alla rocca, in un mattino velato dalla
bruma, temette di aver fatto una cosa terribile. Lasciò
di corsa la sua stanza chiamando con voce isterica il
padre. Lo trovò davanti al portone spalancato della
rocca, impavido davanti ai maghi più potenti delle
Dieci Città.
«Valmir, come hai potuto...» disse uno di loro.
Il pianto le salì agli occhi. Seppe in quell'istante di aver
richiamato la sciagura sulla testa del padre. Ignara del
motivo, trafitta da un senso di colpa insopportabile,
Velixia si accasciò sul freddo pavimento dell'ingresso
e attese.
«Andatevene via da qui!» urlò Valmir, immobile come
una statua di marmo sulla soglia della sua dimora.
«Lo sai che non possiamo...» era stata un'altra voce a
parlare. Velixia la riconobbe, era quella del maestro
Numi, forse il più talentato dei giovani Astromanti.
«Come hai potuto diventare uno di loro...» continuò la
prima voce. A quelle parole la ragazza ebbe un
sussultò. Il puzzle si ricompose nella sua testa
rivelandole la verità, una verità che nonostante adesso
riuscisse a vedere in tutto il suo orrore, non era capace
di ammettere. Compose mentalmente la frase "mio
padre è un Entropico", ma rimase indifferente. Non
poteva crederci. Non riusciva a crederci.
«Sciocchi!» gridò Valmir. «Secoli di studio e ancora
non riuscite a vedere. Prigionieri di false credenze,

61
incapaci di ammettere le proprie fallacie. L'universo
che si ripete non ha motivo di esistere. Come è
possibile che non riusciate a vederlo...»
Erano i soliti farnetichii dei preti Entropici di cui
Velixia aveva letto nei suoi libri. Sentire quelle parole
provenire dalla bocca di suo padre, che per anni le
aveva insegnato la disciplina degli Astromanti, le
sembrò un scherzo della natura, come quando a volte
in inverno fioriscono i ciliegi per colpa di un vento
caldo. Tutta la scena aveva un che di surreale. Lei
ancora seduta sul pavimento, suo padre fuori di sé a
decantare i versi di un’assurda religione a un gruppo
di uomini ammantati e avvolti dalla nebbia.
«Basta adesso, Valmir. Lo sai cosa ti aspetta. Se
collaborerai ti sarà risparmiata la vita. Adesso devi
seguirci...-
«Andatevene, ripeto. E non tornate più qui» fu la
risposta del padrone della rocca. Poi sbatacchiò con
forza il portone richiamando il silenzio tra le ombre
dell'ingresso. In quell'istante si rese conto che sua
figlia lo stava guardando. Forse furono le ombre
oppure gli occhi pieni di lacrime della fanciulla, ma
qualcosa nell'uomo si risvegliò. Il ricordo della moglie,
perita nel dare alla luce quel frutto. Gli anni passati a
guardarla crescere e ad insegnarle tutto ciò che
sapeva, e forse anche le speranze nelle quali lui non
credeva più.
«Velixia, tesoro...» le sussurrò.
«Perdonami padre, io non credevo...»

62
Gli occhi dell'uomo divennero due fessure cariche
d'odio. In quel momento capì tutto, ma poi qualcosa si
adagiò sul suo cuore.
«Non preoccuparti. È giusto che sia così...» la rassicurò
lui. Poi si alzò in piedi ed riaprì il portone.
«Mia figlia... i due servitori... saranno pronti tra
poco...»
«Che cosa vuoi dire, padre?» protestò Velixia.
Ma la decisione era stata presa.

Scossa dal tremito e dal pianto, la giovane maga


percorse aggrappata al suo cavallo il viottolo ricoperto
di neve che dalla rocca immetteva nella strada per il
villaggio. Le severe figure dei dieci Astromanti che
erano venuti per suo padre la precedevano. Si
fermarono nel punto in cui incominciava la strada.
Rimasero lì, in attesa dell’evento che era sul punto di
compiersi.
«Perché?» singhiozzò la ragazza.
Fu Numi a risponderle.
«Gli Entropici credono nell’annichilamento. Tuo padre
si è votato alla loro causa e una volta imboccata quella
strada non si torna mai indietro...»
«Che cosa cercano oltre le montagne?»
«La Costellazione Sfuggente… un mito. Alcuni dicono
che si possa vedere solo nel nord più estremo. Se
dovessero trovarla potrebbero attingere ad un potere
nuovo, forte al punto di sgominarci e derubarci delle
nostre conoscenze. Ma non temere, è solo una
leggenda…»

63
Velixia percepì l’inganno in quelle parole e si chiese
perché un Astromante potesse mentire ad un altro. Era
ancora giovane e poco sapeva degli affari del grande
mondo. Tornò a guardare la rocca, afflitta da nuovi
singhiozzi.
Le pareti di roccia della casa di suo padre tremolarono
per un istante. Poi udì un sordo boato e il rumore di
un risucchio che le fece serrare gli occhi. Quando li
riaprì la rocca non c'era più.

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ATTO III

20 Capitoli di 101 Parole

65
66
I. ESILIO

«C osa facciamo adesso?» domandò Rudor al


maestro Tielsin.
«È giunto il tempo di risanare la terra. Dobbiamo
andarcene» rispose l’Astromante.
«Tielsin ha ragione. Gli uomini non hanno più bisogno
di noi…» aggiunse Alia.
Il giovane Kido, nonostante il tradimento, piangeva
accanto al cadavere del padre.
«Questa torre ospiterà i nostri corpi, mentre gli spiriti
alloggeranno presso la nebulosa dell’Aquila. Rudor,
radunerà gli altri Astromanti e Kido rimarrà a vegliare
le nostre spoglie mortali.»
«Io?» domandò il ragazzo tra i singhiozzi.
«Sei il più giovane e hai dimostrato di avere molto più
giudizio di tuo padre. Si, tu rimarrai qui ad
osservare.»

II. YILEIT

Y
ileit respirava piano. Sentiva il vuoto attorno al
suo corpo. Protese la parte eterea di se stessa
dentro quel nulla assordante.
«Lo avverti, adesso?» domandò il vecchio.
«Si… è l’Inizio…» rispose lei, dentro il sogno.
Le mani nodose del maestro centenario lasciarono la
presa sulle tempie dell’adepta. La ragazza aprì gli
occhi.

67
«Sei pronta, Yileit. Ora finalmente potrò incontrare
l’Abisso…»
«Ma maestro…» provò a dire lei.
«No. Lasciami solo. Vá, adesso! Porta la parola del
cambiamento. Lasciami morire felice…»
Yileit accarezzò i capelli bianchi del maestro, poi uscì
dal tempio degli Entropici, l’ultimo rimasto.
Il nuovo Inizio era la Fine, pensò.

III. ANIME VUOTE NEL TEMPIO


DELL'ABBONDANZA

E
rano passati settant’anni dall’avvento di Adú, il
dio del fuoco, e più di un secolo dall’ultima
guerra contro gli Entropici. Le Dieci Città
prosperavano come mai era accaduto. Lontani erano i
giorni in cui gli Astromanti vegliavano le rocche e i
palazzi dei principi, e la minaccia del Grande Collasso
aleggiava come un ombra sul cuore di ogni uomo.
Adesso la magia era quasi una leggenda nelle terre dal
Grande Mare alla Breccia. Eppure gli uomini, che
vivevano in leggerezza e in abbondanza, si sentivano
insoddisfatti, come se la pace tanto desiderata avesse
svuotato i loro animi trasfigurando il loro destino.

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IV. IL TEMPIO DEL DIO FASULLO

Y
ileit si avvicinò al tempio del dio fasullo. I
fedeli erano prostrati sui gradini che portavano
alla grande effige marmorea, un uccello dalla
testa di lupo. Alcuni di loro mormorarono quando lei
li oltrepassò, prendendo posto vicino alla statua. Non
era permesso toccarla...
«Donna, come osi?» gridò qualcuno. Ma Yileit ignorò
quelle parole e allungò la mano verso il muso del
simulacro. Un suono simile ad un risucchio precedette
l'incantamento. La statua scomparve come se fosse
stata inghiottita dall'aria.
«Ecco quanto vale il vostro dio!» disse Yileit. Poi parlò
loro di Entropia e dell’universo oltre il velo.

V. LA VEGLIA

K ido osservava il deserto dalla torre che era


appartenuta al padre, in un tempo remoto di
cui ricordava appena. Aveva trascorso una
vita in solitudine, a guardia dei corpi dei maestri,
solamente per espiare le colpe del genitore. Forse non
era stato giusto, ma era quello che si era sentito di fare,
ed era sicuro che se fosse potuto tornare indietro
avrebbe fatto la medesima scelta. Aveva un solo
rammarico, non essere riuscito a lasciare un erede per
portare avanti la veglia. Doveva richiamare il maestro
Tielsin, la cui anima dimorava da settant'anni nel
cosmo. Poi anche lui avrebbe finalmente dormito...

69
VI. IL RISVEGLIO

«Kido, quanto tempo è passato?»


«Settant'anni...»
«Hai vegliato sui nostri corpi tutto questo tempo?
Perché? Avresti potuto chiamarci prima.»
«Maestro, sono in pace con la mia scelta...»
«Capisco...»
«Non so quanto tempo ancora mi rimane. Sento che le
forze mi stanno per abbandonare. Per questo motivo
vi ho richiamato.»
«Certo.» Tielsin cercò negli occhi umidi di quel
vecchio lo sguardo del ragazzo che aveva lasciato a
custodire la torre. Il sonno degli Astromanti aveva
alterato la sua percezione del tempo. Si sentiva come
se avesse dormito solo qualche ora.
«Ci sono novità dal mondo?»
«Domani verranno i nomadi a portare notizie.»

VII. NOTIZIE DAL MONDO

G
iunsero i nomadi con i cammelli e le tende
multicolori. Si accamparono sotto una duna
di sabbia, a un tiro di sasso dalla torre. Uno
di loro, bruno e coi capelli raccolti, chiese di poter
utilizzare l’acqua del pozzo.
«Quali notizie porti dal mondo?» domandò Tielsin.
«È stata una buona annata per i villaggi» rispose il
nomade mentre riempiva alcune bisacce.
«E le dieci città?»

70
L’uomo bruno si fermò e guardò il cielo.
«Nessuna notizia…»
«Ma…» lo incoraggiò l’Astromante.
«Tra di noi vive una Sognatrice. Da mesi percepisce il
malcontento… La gente laggiù non è felice.» Poi tornò
sui suoi passi.

VIII. RITORNO AD OVEST

A
lia, Rudor e Tielsin salutarono con un lungo e
commovente abbraccio il compagno Kido,
troppo vecchio per seguirli, e ripercorsero a
ritroso la strada che avevano fatto insieme settant’anni
prima. Non vi era più traccia del passaggio dell’orda
di Adù e la natura, complice il tempo taumaturgo,
aveva ripreso possesso del territorio.
I tre Astromanti, probabilmente gli ultimi conoscitori
dei segreti del cosmo, viaggiarono per settimane
attraverso il deserto, le paludi, la foresta, fino ai
villaggi sotto l’imponente catena montuosa che veniva
chiamata La Breccia. Più oltre vi erano le Dieci Città,
eredità di una civiltà perduta ma non ancora distrutta.

IX. TYRIA

T yria non era cambiata, almeno nell’aspetto. La


capitale delle Dieci Città, con le sue torri, i suoi
palazzi e il grande osservatorio la cui cupola
era visibile fin dai pendii orientali, scintillava dei

71
riflessi del sole spuntato d’improvviso dopo un giorno
di pioggia torrenziale. I tre Astromanti entrarono nella
prima locanda per un boccone ed un boccale, e per
poter asciugare le vesti impregnate d’acqua. Alcuni
avventori guardarono di sbieco le tuniche ricamate di
stelle e qualcuno non nascose il suo disappunto.
«…eppure si diceva che erano tutti morti…»
«…non ci si può fidare di quei fattucchieri…»
«…sono tornati i guai…»

X. PENSIERI AL COSPETTO DELLA GALASSIA

I
tre Astromanti osservavano il cielo rapiti, poco
fuori le mura di Tyria. La Via Lattea si mostrava ai
loro occhi in tutto il suo splendore.
«Cosa credi che sia successo? Perché la gente è così
distante?» domandò Alia al maestro Tielsin.
«Sembra che siano tutti nervosi e inappagati…»
aggiunse Rudor.
«Non saprei, ma temo che le vecchie idee degli
Entropici potrebbero mettere facilmente radici in un
terreno così fertile…» sospirò Tielsin.
«Ma gli Entropici sono stati sconfitti, no?»
«Si, Alia, ma le loro idee vivranno sempre tra gli
uomini…»
«Allora che facciamo?» domandò Rudor.
«Aspettiamo…»
Nel cielo cadde una stella.

72
XI. L’ENTRATA DI YILEIT NELLA CAPITALE

L e parole di Yileit anticiparono la sua entrata


nella capitale. Arrivò su una carrozza nera
trainata da dodici cavalli corvini, e nere erano
pure le guardie al suo cospetto. Il re di Tyria le venne
incontro con il capo chino e il popolo circondò il suo
carro. Per omaggiarla pianse trasportato da una
tristezza contagiosa, un abisso tiepido in cui
rovesciare la propria anima.
I tre Astromanti videro tutto ciò nascosti tra la folla
sofferente e seppero che una nuova guerra contro gli
Entropici era incominciata. Questa volta non si
sarebbe combattuta con la magia, ma con la forza delle
idee.

XII. LA MALEDIZIONE DELL’UOMO

Y
ileit non si faceva chiamare Entropica, perché
tra la gente era ancora vivo il ricordo delle tre
guerre. Professava la religione dell’Abbandono
e venerava il dio Oblio. Le parole potevano cambiare
ma Tielsin sapeva che il fine era sempre quello;
l’annientamento.
«Perché gli uomini sono così affascinati dall’oblio?»
domandò Rudor al maestro.
«Sono prigionieri della loro mobilità. Sono convinti di
sentire il bisogno di cercare sempre qualcosa di nuovo,
e quando si possiede tutto il desiderio più grande

73
diventa il non avere più niente.» La voce di Tielsin
suonava affranta e stanca.
«Ed è sempre stato così, maestro?»
«Sempre, figliolo… sempre!»

XIII. LA CADUTA

«Q ui non c’è più niente che possiamo fare»


ammise mestamente Tielsin. I suoi due
compagni lo guardarono sbigottiti.
«Che cosa significa, maestro?» domandò Alia.
«Avete visto i volti della gente, i loro sguardi infossati,
la loro pelle appassita. Si stanno lasciando morire…
Non abbiamo niente contro cui combattere. Uccidendo
Yileit accelereremo solo il corso degli eventi. Il virus
che lei ha iniettato è ormai in circolo. L’unica cosa che
possiamo fare è preparare i villaggi…»
«Ma questo significa che le Dieci Città cadranno…»
Tielsin guardò negl’occhi della donna, colmi di un
dolore profondo.
«Temo che le dieci città siano già cadute…»

XIV. BRUCIANO LE DIECI CITTÁ

S
cie di pellegrini lasciavano le grandi città ed i
paesi dal Grande Mare alla Breccia. Erano i
sopravvissuti alle fiamme da loro stessi
appiccate ed i prescelti per portare la parola della
sacerdotessa Yileit. Lentamente queste silenziose

74
processioni di anime tristi avanzavano in direzione
delle montagne. Alia, Rudor e Tielsin ne potevano
distinguere due in lontananza, mentre attraversavano
il passo settentrionale della Breccia.
«Che cosa vogliono?» domandò Alia al grande
maestro.
«Ciò che hanno sempre voluto; il Grande Collasso…»
«Ma come potrebbe essere?»
«Muoviamoci» intimò Tielsin, «vi spiegherò tutto
mentre camminiamo».
Il canto funebre delle Dieci Città si alzò dalle pianure.

XV. L’UNIVERSO IMMOBILE

“S
econdo le scritture dei Profeti Astromanti,
ogni evento che accade nel nostro
universo fa parte di un disegno circolare.
Ecco perché tutto, prima o poi, ritorna. Alterando le
fondamenta su cui si basa la stessa esistenza del
cosmo, è possibile stabilizzare questo universo. Dalla
circolarità all’immobilità.
Per innescare questa rivoluzione bisognerebbe che
molti maghi richiamassero un potere tale da
distruggere l’intero sistema solare. Questo
incantesimo è chiamato il Vibrato.
La magia è un modo, ma ne esiste un altro. Se la
maggioranza degli uomini fosse disposta ad accettare
l’annientamento dello schema ciclico, il processo di
rimodellamento dell’universo avverrebbe in modo
naturale…”

75
XVI. LA PROFEZIA DI GRASIAN IL FOLLE

“D
urante l’ultima guerra, quella che
avrebbe spazzato via una volta per
tutte l’umanità, non si sarebbe versata
neanche una goccia di sangue.” Così un pazzo profeta,
un folle Astromante e poi Entropico ripudiato, aveva
scritto nelle sue memorie. Il suo nome era Grasian e
morì solitario nel deserto, lontano dagli affari del
mondo magico. Nei suoi studi presso l’osservatorio di
Tyria, dopo gli insegnamenti del maestro Braman,
Tielsin venne a conoscenza di questa profezia, ritenuta
sciocca ed inverosimile. Eppure il mago ne era rimasto
da sempre affascinato.
Ora, mentre gli uomini si lasciavano morire davanti ai
suoi occhi, capiva finalmente perché.

XVII. IL TUONO

I
l contadino abbracciava il figlio e la sua donna, con
le spalle rivolte alla fattoria e lo sguardo sui campi
lasciati a maggese. Singhiozzavano teneramente,
stringendosi formando un intreccio organico di pelle
ed ossa, tre ombre di un mondo in declino.
«Cosa li hai detto?» domandò Tielsin.
«Di coltivare… ma non ne hanno voluto sapere.» Gli
occhi di Alia erano stanchi ed arrossati.
Un tuono percorse il cielo privo di nuvole.
«Che succede?» chiese Rudor.

76
Tielsin guardò in su ma non rispose. Si rimise in
cammino verso gli altri villaggi, avvolto nel suo
mantello le cui stelle sembravano essersi ormai
offuscate.

XVIII. L’ABBANDONO

L e parole non avevano più potere ormai. La fine


era prossima. Tielsin, Alia e Rudor
ripercorsero di nuovo la strada verso il deserto.
Incrociarono i nomadi la cui carovana era stata
decimata dall’Abbandono. Ormai tutti lo chiamavano
così. Chi non riusciva a lasciarsi morire era visto come
un debole, indegno del cambiamento in corso. La viltà
poteva rivelarsi il miglior antidoto contro il virus
insinuato da Yileit.
Finalmente la torre apparve tra i giochi di luce delle
dune. Kido sedeva vicino all’entrata, con gli occhi
chiusi e le braccia consorte.
«Perché siete tornati?» domandò.
«Perché non c’è più nulla da fare…»

XIX. IL DONO DI YILEIT

N el cielo sopra il deserto rimbombava


ininterrottamente il tuono. Gli Astromanti
sapevano che quella era la canzone che
preannunciava il Grande Collasso.

77
Nella luce dorata di mezzogiorno apparve in
lontananza una figura minuta, ammantata di nero.
Tielsin seppe nel momento stesso in cui la vide che si
trattava di Yileit. Le andò incontro accecato dall’odio.
«Poco importa a questo punto, ma almeno mi
prenderò la soddisfazione di ucciderti…» le disse,
richiamando le meteore.
Lei lo guardò con occhi antichi.
«È per questo che sono qui, per donarti la mia vita…»
Le meteore esplosero lontano dalla donna.
Tielsin cadde in ginocchio piangendo.

XX. UNA STORIA SENZA TEMPO

«Dove andremo?» domandò l’Astromante.


«Da nessuna parte…» sussurrò Yileit. La sua voce era
serena e triste.
«E le anime in attesa?»
«Insieme a noi…»
«Ma se…»
«Tielsin, Alia, Rudor, Kido, guardatemi. Questa non è
la fine, ma non è neanche l’inizio come lo abbiamo
sempre pensato. È qualcosa di nuovo, inafferrabile.
Provate ad immaginare una storia senza tempo…»
«Una storia senza tempo?»
«Si. Tutto sarà semplicemente, e basta.»
«L’Universo Immobile… Ma come può esistere
qualcosa al di fuori del tempo?»
«Noi siamo eterni, ricordatevelo. Non apparteniamo a
alla ciclicità degli eventi. Siamo, tutto qui…»

78
Poi il tuono coprì le loro voci.

79
Quarto Episodio

IL VIAGGIO DI GRASIAN

80
81
* * *

G
li allievi lo trovarono nella stanza a cupola
dell’osservatorio, riverso sul freddo
pavimento e febbricitante. Nel cadere aveva
provato ad aggrapparsi all’enorme telescopio, il più
grande di Tyria e delle Dieci Città, spostandone
involontariamente la traiettoria. Nessuno riuscì mai a
ritrovare quel minuscolo angolo di cielo che aveva
mormorato la profezia all’Astromante, ammalandogli
il copro e deturpandogli la mente. Per questo motivo
gli alti maghi di Tyria preferirono chiamarlo “pazzo”
che ascoltare quello che aveva da raccontare. Il suo
nome era Grasian “il veggente”, ma da quel giorno
tutti lo iniziarono a chiamare Grasian “il folle”.
Passate le febbri l’uomo cercò di raccontare agli altri
Astromanti che cosa aveva scoperto: il disegno di
alcuni astri lontani, lo spettro delle loro luci, ma
soprattutto la musica che questi diffondevano nel
cosmo, indicavano una nuova profezia, la più
meravigliosamente nefasta che si fosse mai sentita.
Ma le sue teorie sembravano abbracciare le ideologie
degli Entropici. Gli alti Astromanti non lo dissero
apertamente, ma Grasian capì che se avesse
continuato a credere a tale profezia, non avrebbe
potuto continuare ad indossare il mantello stellato. Per
due mesi trascorse le notti attaccato al telescopio, nella
speranza di ritrovare quel frammento di volta celeste
che gli aveva sussurrato l’annuncio, un compito pari a
quello di recuperare il famoso ago nel pagliaio.

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Miliardi di stelle e miliardi di altri oggetti di luce,
ognuno con la sua canzone, con il suo messaggio,
tasselli di uno sterminato mosaico che gli uomini
chiamavano universo.
Grasian lasciò Tyria e viaggiò verso nord. Parlò agli
Entropici nel loro tempio, ma non lo ascoltarono. Era
dalla loro parte, tuttavia non credeva nell’incantesimo
del Vibrato. Il cambiamento che essi auspicavano non
doveva essere forzato dalla magia, ma dalla ragione.
Nessuno di quei maghi che gli Astromanti
chiamavano “corrotti” prestò attenzione alle sue
parole. Essi si stavano preparando alla prima guerra
per conquistare i segreti delle Dieci Città e nessuna
profezia li avrebbe fermati.
Afflitto per l’accoglienza riserbata alle sue idee, che
altro non erano che il risultato di un’attenta lettura
degli astri, Grasian viaggiò verso est e oltrepassò le
montagne, lasciandosi alle spalle le Dieci Città e le
faccende di Entropici ed Astromanti. La sua profezia
giaceva da qualche parte nella biblioteca di Tyria e
forse qualcuno un giorno l’avrebbe letta e soprattutto
ascoltata. O forse quel giorno non sarebbe mai
arrivato. Anche se un tempo lo chiamavano “il
veggente”, erano molte le cose che non riusciva a
prevedere.
Sostò presso i villaggi per quasi un anno. La semplice
esistenza di quella gente gli fece tornare la voglia di
vivere, godendo dei piaceri primari, il buon mangiare
e lo stare in compagnia. Erano cose che il popolo delle
Dieci Città si era da tempo dimenticato, traviato da un
ambizione materiale che ricordava il vecchio mondo.

83
Eppure le vecchie storie avrebbero dovuto insegnare
qualcosa a quegli uomini che erano i diretti
discendenti di una civiltà autodistruttiva. Invece
sembrava che sulle navi che avevano fatto rotta verso
quelle terre, in tempi antecedenti alla fondazione delle
Dieci Città, i profughi del vecchio mondo avessero
caricato insieme agli effetti personali anche la loro
maledizione. Solo qualcuno decise di rifiutare il
vecchio modello di società. Quegl’uomini varcarono i
monti e si stabilirono su quelle stesse piane in cui
sorgevano i villaggi, gente semplice in armonia con la
terra. Grasian visse covando il suo segreto. Non
poteva rivelare a quei contadini il destino che
incombeva anche su di loro, proprio loro che
sembravano aver trovato l’equilibrio giusto per vivere
la ciclicità. Eppure non sarebbe bastato…
Era evidente lo sforzo che dovevano sopportare,
specialmente quando questa ciclicità falliva. Tempeste
distruttive in primavera e autunno, gelate improvvise
d’inverno e aride settimane in estate. La ruota
continuava a girare ma nessuno poteva prevedere le
pietre e le buche lungo il percorso. Chi tra quella gente
che tirava avanti insieme alla ruota poteva davvero
sentirsi in equilibrio con il tutto?
Grasian lasciò i villaggi e si immerse nelle fitte foreste
in cui si diceva dimorassero gli antichi spiriti della
natura, i figli di Karia e di Om, Terra e Acqua. Furono
loro a scacciare i Laviani, gli esseri di fuoco che
dominavano il pianeta in tempi antichi, quando il sole
era giovane e la pietra liquida fuoriusciva in larghi
fiumi da una terra scura disseminata di crateri. Una

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vecchia leggenda diceva che uno di quegli spiriti di
lava, il più distruttivo di tutti, dormiva sotto il grande
vulcano in attesa del risveglio. Se questo risveglio
fosse arrivato, egli avrebbe lasciato scie di fuoco dietro
di se e reclamato ciò che era suo di diritto.
Grasian osservò la foresta e rimase incantato
dall’esempio più limpido di ciclicità; le leggi della
natura. Solitario vagò per la selva attraverso le quattro
stagioni, osservando gli alberi germogliare, mettere
frutti e poi appassire con le piogge autunnali. Vide i
movimenti armonici degli abitanti del bosco, seguì con
gli occhi i sentieri dei cinghiali, i raduni dei cervi
presso i ruscelli, i rituali degli uccelli e degli scoiattoli.
Tutto aveva un senso, ma solo perché la mente
dell’uomo era abituata ad attribuirne uno. Poteva
davvero esistere un universo oltre la ciclicità, una vita
senza il tempo, un stato immobile in cui tutto
semplicemente è e niente si trasforma?
Dopo dodici mesi trascorsi nella foresta uno dei figli
di Karia e di Om decise di rivelarsi al mago. Prese la
forma di una roccia muscosa. La luce del sole filtrata
dagli alberi vi ci batteva sopra. Il soffice tappeto verde
che lo ricopriva iniziò a scintillare in maniera
innaturale. Grasian rimase immobile davanti alla
visione, dubitando di aver perso il cervello. Forse
avevano ragione a chiamarlo “il folle”…
«Che cosa ci fai qui?» domandò la pietra che era uno
degli alti spiriti della foresta.
«Non lo so…» rispose il mago, ed era sincero. Per la
prima volta si era reso conto di non sapere che cosa
stava cercando.

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«Noi sentiamo il turbamento che ti abita. Ti abbiamo
osservato per un anno. Hai preso da noi quello che ti
serviva, in armonia con gli abitanti del bosco. La tua
permanenza non ci nuoce, eppure la foresta è inquieta.
Ti chiediamo di andartene…»
E così Grasian lasciò l’antica foresta e viaggiò verso il
deserto. Appena scorse quella sconfinata distesa fatta
di dune e di rocce rosse, delimitata da un orizzonte
perduto nell’indaco, capì di essere giunto nel luogo
delle risposte. Se la foresta rappresentava la ciclicità, il
deserto era la stasi.
Non ci è detto quanto durò la sua vita nel deserto, ma
alcuni nomadi raccontavano di un vecchio dal volto
raggrinzito che si aggirava con un bastone ed un
turbante in testa, ed i suoi occhi lo facevano più antico
di qualsiasi altro uomo. La leggenda dell’eremita
perdurò anche dopo la seconda guerra degli Entropici,
e alcuni dicevano che quell’uomo doveva avere quasi
duecento anni. Eppure nessuno conobbe mai la sua
identità.
La profezia di Grasian rimase nascosta in un vecchio
tomo sullo scaffale più alto della biblioteca di Tyria.
Pochi la lessero e solo uno vi prestò fede. Il suo nome
non è ricordato, tuttavia in questo libro appare di
sfuggita. È lui che sussurra ad Yiliet il segreto del
cambiamento, nel silenzio assordante dell’ultimo
tempio degli Entropici, ed è proprio lui che mette in
moto l’ultima definitiva guerra, quella dell’oblio.

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LA BALLATA DEGLI ENTROPICI

Luce e candore per i tuoi occhi


Che osservano rapiti lassù
Velati sono i miei vecchi
Che sanno qualcosa di più
La storia che si ripete
Per tutte le anime quiete.

Ti narrerò stanotte
La favola dell’oblio
Niente torna dalla morte
Neanche il perdono di dio
Viviamo in un mondo sbagliato
Il tempo ci ha sempre ingannato.

Mio piccolo non disperare


Verranno nuove canzoni
Intonale per dipanare
Il velo delle emozioni
La paura dell’abbandono
Il bisogno del perdono.

Tutto morirà nel rinascere


Ma questa volta sarà diverso
La canzone potrà accendere
Le luci di un nuovo universo
In cui tutto è e niente si trasforma
Il sogno è la realtà e la realtà è la norma.

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Adesso anche le stelle
Se ne vanno a dormire
Bisbigliano, curiose e belle
Che la storia deve finire
Chiudi i tuoi occhi allora
Il finale lo svelerà l’aurora.

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GM Willo – Dicembre 2009

EDIZIONI WILLOWORLD
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