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Analisi Matematica 1

Filippo De Mari
Indice

Capitolo 1. Insiemi 5
1. Nozioni di base. 5
2. Gli insiemi numerici. 11
3. L’induzione. 12
Capitolo 2. Numeri reali 17
1. Descrizione assiomatica dei numeri reali. 18
2. La retta e i numeri reali. 20
3. Intervalli. Insiemi aperti e intorni. 21
4. Valore assoluto e disuguaglianza triangolare. 23
5. Alcune proprietà dei numeri reali. 24
6. Estremo superiore e inferiore. 25
7. Potenze e radici. 28
Capitolo 3. Funzioni 33
1. Prodotto cartesiano. Il grafico di una funzione. 36
2. Operazioni sui grafici e simmetrie. 43
3. Funzioni surgettive, iniettive e bigettive. 52
4. Elementi di calcolo combinatorio. 55
5. Funzioni monotone. 61
6. Composizione di funzioni. 64
7. Funzioni invertibili. 68
8. Esponenziali e logaritmi. 73
Capitolo 4. Limiti e continuità 83
1. Successioni e loro limiti. 85
2. Limiti di funzioni. 113
3. Funzioni continue. 138
4. Proprietà globali delle funzioni continue. 144
Capitolo 5. Calcolo differenziale 155
1. Linearizzazione e derivabilità 155
2. Derivate di funzioni elementari 166
3. I teoremi classici del calcolo differenziale 171
4. Sviluppi di Taylor 182
5. Proprietà locali di funzioni regolari 202
Bibliografia 211

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CAPITOLO 1

Insiemi

La nozione di insieme, in matematica, è quella del linguaggio corrente. Un insieme è


una collezione di oggetti, che si dicono gli elementi dell’insieme. Si conosce l’insieme se
se ne conoscono gli elementi, pur di non sottilizzare eccessivamente sul significato della
parola conoscere. Se ad esempio dico: sia P l’insieme di tutti i numeri primi, quasi tutti
i lettori capiscono che cosa intendo, ma nessuno può asserire di conoscere esattamente
l’insieme P . Nessuno infatti conosce tutti i numeri primi. Chiunque sarà peraltro
d’accordo sul fatto che, dato un numero naturale, sia possibile stabilire, almeno in linea
di principio, se esso è primo oppure no: basta verificare se è divisibile solo per se stesso e
per uno, oppure no. In altre parole, la proprietà che definisce un numero primo è chiara
e non equivoca, cosicché siamo d’accordo che l’insieme P è definito in modo chiaro e
non equivoco. Analoghe considerazioni valgono per l’insieme dei numeri di telefono
italiani (attivi), per l’insieme dei quadri di Van Gogh, eccetera: per individuare un
insieme basta enunciare una o più proprietà che ci consentano di capire se un oggetto
vi appartiene oppure non vi appartiene. Non usiamo alcun artificio formale per definire
la nozione di insieme, né facciamo riferimento ad alcun’altra nozione più semplice: la
riguardiamo come nozione primitiva, una sorta di atomo concettuale.
La matematica che sviluppiamo in questi appunti è basata su diversi concetti primi-
tivi quali quello di insieme e di elemento di un insieme. Un altro concetto primitivo è
quello di retta, o di punto del piano. I concetti primitivi sono quelli che non vengono
definiti; è piuttosto mediante i concetti primitivi che le definizioni sono formulate.
Poiché la matematica è in buona misura un linguaggio, in questo capitolo ci ac-
contentiamo di esporne le principali regole grammaticali, senza alcuna pretesa di com-
pletezza, di correttezza formale o di particolare originalità. A proposito di linguaggio,
l’alfabeto greco viene considerato noto e sarà utilizzato senza commenti.

1. Nozioni di base.
Se A è un insieme, scriveremo a ∈ A se a è un elemento di A e a �∈ A se a non è
un elemento di A. La scrittura a ∈ A si legge “a appartiene ad A”. Per gli insiemi si
usano solitamente lettere maiuscole e per gli elementi lettere minuscole. Per descrivere
quali sono gli elementi di un insieme si usano parentesi graffe, all’interno delle quali si
elencano gli elementi dell’insieme oppure le proprietà che li individuano. Ad esempio,
A = {2, 4, 6} oppure P = {numeri primi}.
Si ammette l’esistenza di uno ed un solo insieme privo di elementi. Questo insieme
si chiama l’insieme vuoto e si denota ∅. Quindi la scrittura a ∈ ∅ è sempre falsa, quale
che sia a, mentre a �∈ ∅ è sempre vera.
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6 Analisi Matematica 1

Siano A e B due insiemi. Se ogni elemento di A è anche un elemento di B


diremo che A è un sottoinsieme di B e scriveremo A ⊂ B oppure, in modo del tutto
equivalente, A ⊆ B . Entrambe le scritture A ⊂ B oppure A ⊆ B si leggono “A è
contenuto in B ”. I sottoinsiemi di un insieme X vengono spesso descritti mediante
uguaglianze del tipo
Y = {x ∈ X : x soddisfa una certa proprietà}.
Ad esempio, se D è l’insieme dei numeri naturali dispari, ossia D = {1, 3, 5, 7, 9, . . . }
possiamo formarne il sottoinsieme
Y = {y ∈ D : y = 4n + 1 con n numero intero positivo}.
Che insieme è Y ? Esso è costituito da quei numeri che sono del tipo 4n + 1, dove n è
un numero intero positivo. Siccome 4n è pari, essi sono effettivamente dispari e quindi
Y ⊂ D . In questo caso, la scrittura
Y = {5, 9, 13, 17, . . . }
non sarebbe stata altrettanto chiara. Il lettore è invitato a verificare la sensatezza della
seguente definizione: se D è ancora l’insieme dei numeri naturali dispari, sia
S = {s ∈ D : s = d2 con d ∈ D}.
Siano A e B due insiemi. Se valgono entrambe le relazioni A ⊆ B e B ⊆ A allora
A e B sono formati dalla stessa collezione di oggetti, in quanto ogni elemento di A è
anche un elemento di B e ogni elemento di B è anche un elemento di A. In questo
caso i due insiemi si dicono uguali e si scrive A = B . Se A è un sottoinsieme di B ma
B non è un sottoinsieme di A allora A si dice un sottoinsieme proprio di B .
È opportuno osservare che le nozioni di sottoinsieme e di elemento sono diverse e
non vanno confuse, anche qualora un sottoinsieme consista di un solo elemento. Se ad
esempio A = {1, 2, 3} allora la scrittura 1 ∈ A è corretta, in quanto 1 è uno degli
elementi di A, mentre 1 ⊂ A non è corretta perché 1 non è un insieme. Se vogliamo
riferirci a quel sottoinsieme di A formato dal solo elemento 1, dovremo scrivere ad
esempio B = {1} ed esprimere la relazione che abbiamo in mente mediante B ⊂ A
oppure più semplicemente {1} ⊂ A. Si osservi che naturalmente {1} ∈ A è sbagliato,
perché {1} è un insieme e non un elemento.

1.1. Unione, intersezione, differenza. Se A e B sono insiemi, la loro unione


A ∪ B è l’insieme costituito da tutti gli elementi di A e da tutti gli elementi di B .
Quindi, x ∈ A ∪ B se e solo se x ∈ A oppure x ∈ B . Per esempio, se A = {1, 2, 4}
e B = {21, 77}, allora A ∪ B = {1, 2, 4, 21, 77}. È ovvio che A ∪ B = B ∪ A e che
A ⊆ (A ∪ B), B ⊆ (A ∪ B).
Esempi.
(1) Proviamo la seguente ovvia affermazione: se A ⊂ B allora A ∪ B = B . Il modo
standard per provare che due insiemi X e Y sono uguali è provare che valgono entrambe
le inclusioni X ⊆ Y e Y ⊆ X . Nel caso in questione, l’inclusione B ⊆ (A ∪ B) è ovvia.
Dobbiamo pertanto dimostrare che (A ∪ B) ⊆ B , ossia che se x ∈ A ∪ B allora x ∈ B .
Insiemi 7

Sia dunque x ∈ A ∪ B , cosicché x ∈ A oppure x ∈ B . Nel secondo caso, ossia x ∈ B ,


non c’è nulla da dimostrare; se x ∈ A allora per ipotesi x ∈ B in quanto A ⊂ B .
(2) Dovrebbe essere chiaro che cosı̀ come si può formare l’unione di due insiemi, si
può formare anche l’unione di una famiglia qualunque di insiemi: essa sarà l’insieme
ottenuto prendendo tutti gli elementi di tutti gli insiemi della famiglia considerata. Se
ad esempio A1 = {11, 13, 17}, A2 = {21, 23, 27}, A3 = {31, 33, 37} e A4 = {41, 43, 47},
allora A1 ∪ A2 ∪ A3 ∪ A4 = {11, 13, 17, 21, 23, 27, 31, 33, 37, 41, 43, 47}.
Un modo efficace per capire le nozioni insiemistiche è quello di far uso di disegni,
rappresentando gli insiemi come regioni del piano, ad esempio colorate oppure sem-
plicemente racchiuse da un qualche contorno. Per esempio la figura

A
C

rappresenta schematicamente tre insiemi, cui si sono dati i nomi A, B e C . L’unione


A ∪ B ∪ C è dunque rappresentata dalla parte colorata di blu.
L’Esempio (2) considerato sopra suggerisce di introdurre una opportuna notazione
per le famiglie di insiemi. Abbiamo usato l’espressione famiglia per evitare la locuzione
“insieme di insiemi” che può generare confusione, anche se corretta. Nulla infatti vieta
di considerare un insieme i cui elementi siano insiemi. Nell’esempio appena visto,
avremmo potuto definire l’insieme A = {A1 , A2 , A3 , A4 }. Per quanto legittimo, ciò non
avrebbe in nulla agevolato il nostro scopo, cioè di formare l’unione A1 ∪ A2 ∪ A3 ∪ A4
che certo non è uguale a A. Ciò di cui abbiamo bisogno è solo un modo ragionevole
di dare dei nomi quando gli insiemi sono molti e le lettere dell’alfabeto diventano
poche oppure più semplicemente innaturali. Nel caso in esame possiamo considerare il
dizionario I = {1, 2, 3, 4} che parametrizza i nomi degli insiemi: per ciascun elemento
di I c’è un insieme che ne porta il nome, ossia se i ∈ I allora vi è uno ed un solo insieme
Ai della famiglia. Gli elementi di I si dicono indici. In generale, se I è un insieme e se
8 Analisi Matematica 1

per ogni i ∈ I è definito un insieme Ai , si suole indicare la famiglia mediante {Ai }i∈I ,
ossia
{Ai }i∈I = {Ai : i ∈ I}.
Esso è un insieme di insiemi. L’unione di tutti gli insiemi Ai si denota invece

Ai .
i∈I

Se I è l’insieme dei primi N interi positivi, I = {1, 2, . . . , N }, si scrive anche


N

Ai .
i=1

Banalmente, nel caso dell’esempio


4
� �
Ai = Ai ,
i=1 i∈I

dove I = {1, 2, 3, 4}. L’uso di indici sarà adottato in varie circostanze; sarà ad esempio
molto utile per scrivere somme o prodotti di molti numeri.
Se A e B sono insiemi, la loro intersezione A ∩ B è l’insieme i cui elementi sono
gli elementi che appartengono sia ad A sia a B . Quindi, x ∈ A ∩ B se e solo se
x ∈ A e x ∈ B . Per esempio, se A = {2, 3, 4, 8} e B = {−2, 3, 8, 197}, allora
A ∩ B = {3, 8}. Le inclusioni (A ∩ B) ⊆ A e (A ∩ B) ⊆ B sono ovvie, cosı̀ come
l’uguaglianza A ∩ B = B ∩ A. Naturalmente, per l’intersezione di tutti gli insiemi di
una famiglia {Ai }i∈I varrà la notazione

Ai .
i∈I

Riprendiamo il disegno considerato sopra, evidenziando le intersezioni.

A A∩C
C

A∩B
B∩C
B
Insiemi 9

Si osservi che se due insiemi non hanno elementi comuni, allora la loro intersezione
è l’insieme vuoto. Ad esempio, nel disegno, (A ∩ B) ∩ C = ∅. Questa è una delle
ragioni che giustificano l’introduzione dell’insieme vuoto. Per coerenza logica e formale,
è infatti ragionevole richiedere che dati due insiemi qualunque la loro intersezione sia
ancora un insieme. Quindi, per coprire anche il caso in cui i due insiemi siano disgiunti,
si deve ammettere la possibilità che vi sia un insieme senza elementi. È poi piuttosto
evidente che un siffatto insieme è necessariamente unico: se ve ne fosse un altro e i
due fossero quindi diversi, allora ci sarebbe un elemento che sta in uno dei due ma non
nell’altro; d’altra parte non si può esibire un siffatto elemento perché per definizione
entrambi gli insiemi sono privi di elementi.
Se A e B sono insiemi, la differenza A \ B è costituita dagli elementi di A che
non sono elementi di B . Per esempio, se A = {2, 3, 5, 6} e B = {3, 6, 8, 12}, allora
A \ B = {2, 5} mentre B \ A = {8, 12}. Se si sta lavorando in un contesto in cui gli
insiemi che si considerano sono tutti intesi come sottoinsiemi di uno stesso insieme X ,
allora ci si riferisce all’insieme X \ A come al complementare di A. Si sottointende cioè
A ⊂ X e si scrive Ac in luogo di X \ A. La scrittura Ac si legge ”il complementare di
A in X ”. Poiché l’insieme X non compare nel simbolo, deve essere molto chiaro dal
contesto quale sia X .
1.2. Connettivi logici, quantificatori. Le proposizioni matematiche sono affer-
mazioni che stabiliscono relazioni tra varie entità. Una proposizione può essere vera o
falsa, nel senso corrente delle parole. Ad esempio la proposizione “ogni numero pari è
divisibile per 4” è falsa, in quanto il numero 6 è pari ma non è divisibile per 4, mentre
la proposizione “ogni numero divisibile per 4 è pari” è vera, perché ogni numero che
contiene il fattore 4 = 2 × 2 contiene anche il fattore 2.
A partire da una o più proposizioni, se ne possono formare delle altre mediante i
cosiddetti connettivi logici. Sono connettivi la negazione, la disgiunzione e la congiun-
zione. Per spiegare questi concetti, consideriamo il caso in cui siano date le proposizioni:
P = (il numero tre è positivo) Q = (oggi piove).
La negazione di P , ossia “nonP ” si denota in logica matematica ¬P . Nel caso in
questione la negazione di P è la proposizione “il numero tre non è positivo”, mentre la
negazione di Q è evidentemente “oggi non piove”. La disgiunzione di P e Q, denotata
P ∨ Q, è la proposizione “P oppure Q”. Essa è vera se almeno una tra P e Q è vera,
ed è falsa se sono entrambe false. Nel nostro caso, la proposizione P ∨ Q è “tre è
positivo, oppure oggi piove”; siccome tre è positivo, essa è vera. La congiunzione di
P e Q, denotata P ∧ Q, è la proposizione “P e Q”. Essa è vera se entrambe P e
Q sono vere, ed è falsa se almeno una di esse è falsa. Nel nostro caso, P ∧ Q è vera
solamente se oggi piove.
Si faccia caso alla somiglianza grafica tra i simboli ∪ e ∨ e tra i simboli ∩ e ∧.
Essa non è casuale: se infatti abbiamo le proposizioni:
P = (a ∈ A) Q = (a ∈ B),
allora P ∨Q è vera se e solo se a ∈ A oppure a ∈ B , ossia se e solo se a ∈ A∪B , mentre
P∧Q è vera se e solo se a ∈ A e anche a ∈ B , ossia se e solo se a ∈ A∩B . Sottolineiamo
infine che per quanto l’accento di questi appunti non cada mai su questioni meramente
10 Analisi Matematica 1

logiche, è tuttavia molto importante essere sempre in grado di stabilire quale sia la
negazione di una proposizione e quando due proprietà che intervengono in un enunciato
vadano intese in senso disgiuntivo o di congiunzione.
Fondamentale è il connettivo implicazione. In matematica esso si denota “⇒”.
Quando scriviamo P ⇒ Q intendiamo che P implica Q, ossia che se P è vera, allora
anche Q è vera. In tal caso si è soliti dire che P è l’ipotesi, mentre Q è la tesi.
Altre possibili espressioni sono: P è condizione sufficiente affinché valga Q, oppure
Q è condizione necessaria affinché valga P . Se oltre a valere P ⇒ Q vale anche
l’implicazione opposta Q ⇒ P , se esse cioè valgono congiuntamente, si scrive allora
P ⇐⇒ Q e si legge “P se e solo se Q”. Naturalmente, ciò va inteso nel senso che P
e Q sono sempre entrambe vere o entrambe false.
La logica insegna che ogni implicazione è equivalente alla sua implicazione con-
tronominale, ossia “P implica Q” è equivalente all’implicazione “se Q è falsa, allora
è falsa anche P ”. Utilizzando le notazioni della logica abbiamo perciò perfetta equiva-
lenza tra P ⇒ Q e (¬Q) ⇒ (¬P). Questo fatto è di grande importanza in matema-
tica, ed è il fondamento delle cosiddette dimostrazioni per assurdo. Un esempio è la
dimostrazione della Proposizione 1.4 del prossimo capitolo, nel corso della quale si sta-
bilisce che se il quadrato (p/q)2 del rapporto p/q tra due numeri interi è uguale a 2,
allora p e q non possono essere primi tra loro. L’implicazione contronominale della
precedente è che il rapporto p/q tra due numeri interi primi tra loro non soddisfa mai
(p/q)2 = 2. Unitamente al teorema di scomposizione in fattori primi - che implica che
ogni rapporto tra numeri interi è esprimibile come rapporto
√ tra numeri interi primi tra
loro - questo dimostra la ben nota irrazionalità di 2.
Nella maggior parte delle proposizioni matematiche intervengono i cosiddetti quan-
tificatori logici. Essi non sono altro che la locuzione per ogni, oppure più semplicemente
ogni, e la locuzione esiste. Il primo si denota “∀” e si dice un po’ pomposamente
quantificatore universale, mentre il secondo si denota “∃” e si dice altrettanto pom-
posamente quantificatore esistenziale. Va detto che questi due simboli sono di estrema
utilità nella pratica della scrittura matematica ma che, in generale, l’abuso di sosti-
tuti simbolici dei termini della lingua corrente può sortire l’effetto opposto a quello
desiderato: appesantire anziché alleggerire il discorso.
Illustriamo brevemente un aspetto dei quantificatori logici, forse per alcuni versi
sorprendente, che verrà ulteriormente esemplificato nel corso della Sezione 3 del Capi-
tolo 3: i simboli ∀ e ∃ svolgono un ruolo simmetrico nell’enunciato di una proposizione
e della sua negazione. Tipicamente infatti, una proposizione affermerà che tutte le en-
tità di un certo tipo godono di una certa proprietà, ad esempio “tutti gli asini volano”.
Per negare l’affermazione precedente è sufficiente asserire che vi sono delle eccezioni,
ossia che “esiste un asino che non vola”. Similmente, negare la proposizione “esiste un
numero primo pari diverso da 2” significa affermare che “tutti i numeri primi diversi
da 2 sono dispari”.
Infine, una semplice questione notazionale. Per motivi che hanno soprattutto a che
fare con la sintassi, la locuzione “tale che” compare, implicita o esplicita, in quasi tutte
le pagine di matematica e merita perciò un’abbreviazione. Al simbolo “�” adottato
talvolta nei paesi anglosassoni preferiremo il semplice acronimo “t.c.” oppure una
Insiemi 11

sbarretta verticale “|” oppure ancora il segno di interpunzione dei due punti. Quindi,
per esempio
{x ∈ R t.c. x ≥ 2} = {x ∈ R | x ≥ 2} = {x ∈ R : x ≥ 2}.

2. Gli insiemi numerici.


Questa sezione è dedicata a stabilire alcune notazioni e a ricordare alcune proprietà
dei numeri naturali, interi e razionali. I numeri naturali sono 0, 1, 2, 3, . . . eccetera.
Ossia i numeri che si usano per contare, più lo zero. L’insieme dei numeri naturali si
denota N. Va subito chiarito che l’uguaglianza
(2.1) N = {0, 1, 2, 3, . . . }.
non è universalmente condivisa. Per molti autori lo zero non è un numero naturale.
Risparmiamo al lettore uggiosi commenti al riguardo. Ricordiamo piuttosto che, come
sempre in matematica, basta intendersi. In questi appunti, primariamente per ragioni
di comodità, assumiamo che lo zero sia un numero naturale, cioè che valga (2.1).
Adotteremo spesso la convenzione1 che se A è un insieme di numeri, allora A∗ = A\{0},
cosicché naturalmente
N∗ = {1, 2, 3, . . . }.
Tra numeri naturali sono definite la somma e il prodotto: se n e m sono numeri
naturali, allora anche n + m e nm sono numeri naturali. Diamo per noto il significato
di queste operazioni, ossia come si formino n + m e nm se sono noti n e m. I due
elementi 0 e 1 si comportano in modo molto particolare, essi sono cioè gli elementi
neutri rispettivamente per la somma e per il prodotto, cioè:
0 + n = n, 1n = n ∀n ∈ N.
I numeri interi, detti anche interi relativi, sono i numeri 0, 1, −1, 2, −2, . . . , ossia i
numeri naturali assieme ai loro opposti. L’insieme dei numeri interi è indicato con Z:
Z = {0, ±1, ±2, . . . }.
I numeri naturali sono da riguardarsi come particolari numeri interi. In altre parole,
l’inclusione N ⊂ Z è ovvia. Si noti che la seguente affermazione
per ogni n ∈ X esiste m ∈ X tale che m + n = 0
è falsa se X = N, mentre è vera se X = Z. In effetti, Z è il più piccolo insieme che
contiene N per il quale l’affermazione precedente è vera! In altri termini, l’insieme dei
numeri interi viene introdotto per risolvere l’equazione nell’incognita x
n + x = 0,
per qualunque numero naturale fissato n. Tale equazione esprime il cosiddetto pro-
blema dell’opposto. Consideriamo ora l’affermazione analoga alla precedente per il
prodotto, questa volta utilizzando i quantificatori logici:
∀n ∈ X \ {0} ∃m ∈ X t.c. mn = 1.
1Questa convenzione non è adottata nella sezione 6 di questo capitolo, dove l’apice “ ∗ ” ha
tutt’altro significato.
12 Analisi Matematica 1

Essa è falsa sia per X = N, sia per X = Z. Per risolvere l’equazione


nx = 1
nell’incognita x per ogni n ∈ Z \ {0}, ossia per risolvere il problema dell’inverso, si
introducono i numeri razionali. Essi sono quei numeri che si ottengono come frazioni
di numeri interi. Si ricordi che in latino ratio significa rapporto. L’insieme dei numeri
razionali si denota Q. Avremo dunque
� �
p
Q= : p ∈ Z, q ∈ Z \ {0} ,
q
dove p si dice il numeratore e q si dice il denominatore. Scriviamo senza ulteriori
commenti le uguaglianze che esprimono somma e prodotto in Q:
a c ad + bc
+ =
b d bd
ac ac
= .
bd bd
Naturalmente, i numeri interi possono essere visti come quei particolari numeri razionali
il cui denominatore è uguale a 1. Quindi N ⊂ Z ⊂ Q.

3. L’induzione.
Supponiamo di voler calcolare la somma S(n) dei primi n interi positivi. Per farci
un’idea, calcoliamone qualche valore:
S(1) = 1
S(2) = 1 + 2 = 3
S(3) = 1 + 2 + 3 = (1 + 3) + 2 = 6
S(4) = 1 + 2 + 3 + 4 = (1 + 4) + (2 + 3) = 10
S(5) = 1 + 2 + 3 + 4 + 5 = (1 + 5) + (2 + 4) + 3 = 15.
Un modo rapido per fare il conto è suggerito dall’uso che abbiamo fatto delle parentesi:
si somma l’ultimo con il primo e si ottiene n + 1, il penultimo con il secondo e si ottiene
ancora (n − 1) + 2 = n + 1 e via dicendo. L’addendo (n + 1) compare un certo numero
k di volte ed eventualmente rimane un resto. Più precisamente, se n è pari k = n/2 e
non c’è resto, se n è dispari k = (n − 1)/2 e il resto è (n + 1)/2. Quindi
 n

 (n + 1) se n è pari

 2
S(n) =

 (n − 1) (n + 1) (n + 1)(n − 1 + 1)

(n + 1) + = se n è dispari
2 2 2
e giungiamo a formulare la congettura:
n(n + 1)
(3.2) S(n) = .
2
In effetti, non abbiamo dimostrato alcunché, ma arguito ragionevolmente a partire dai
primi 5 casi. Per essere certi che la formula sia vera, procediamo come segue.
Insiemi 13

(i) Verifichiamo che (3.2) valga per n = 1. Infatti 1 = 1(1 + 1)/2.


(ii) Supponiamo che (3.2) sia vera per S(n) e vediamo se allora vale anche per
S(n + 1), ossia se S(n + 1) = (n + 1)(n + 2)/2. Infatti
S(n + 1) = (1 + 2 + · · · + n) + (n + 1)
= S(n) + (n + 1)
n(n + 1)
= + (n + 1)
2
n(n + 1) + 2(n + 1)
=
2
(n + 1)(n + 2)
= .
2
Ma allora: sappiamo che la formula vale per il primo intero positivo; valendo per il
primo vale anche per il successivo, cioè per il secondo; valendo per il secondo vale anche
per il successivo, cioè per il terzo, e cosı̀ via. Quindi vale per tutti.
Questo tipo di dimostrazione, del quale si fa spesso uso in matematica, si chiama
dimostrazione per induzione e si fonda sul seguente principio generale.
Metodo di dimostrazione per induzione. Supponiamo che ad ogni numero
naturale k sia associata una asserzione P(k). Se valgono le due proprietà seguenti:
(i) P(0) è vera;
(ii) se P(k) è vera (ipotesi induttiva), allora è anche P(k + 1) è vera;
allora P(k) è vera per ogni k ∈ N.
L’enunciato formale del metodo di dimostrazione per induzione andrà adattato di
volta in volta al caso in esame, in cui cioè si deve interpretare P(0) come la prima
delle varie proposizioni della lista, che alle volte corrisponde all’intero 1 anziché a 0,
come nell’esempio (3.2).
Per poter formulare esempi significativi di questo metodo, è opportuno introdurre
il simbolo di sommatoria. Si tratta di un modo sintetico per esprimere la somma di
“molti” numeri, nello stesso spirito adottato alla Sezione 1.1 per le unioni e intersezioni
� insiemi. Se per ogni i ∈ {1, 2, . . . , n} è assegnato un numero reale ai ,
di famiglie di
scriveremo ni=1 ai per la somma di tutti gli ai , ossia
n

ai = a1 + · · · + an .
i=1

La notazione introdotta ammette ovvie varianti, quali


� �
ai , ai
1≤i≤n i∈I

se I è un insieme finito. Nelle notazioni introdotte, la formula appena provata per


S(n) può esprimersi
� n
n(n + 1)
i= .
i=1
2
14 Analisi Matematica 1

Naturalmente, il simbolo è soggetto a tutte le trasformazioni che derivano dalle
proprietà della somma. In particolare si avrà
n
� k
� n

ai = ai + ai
i=1 i=1 i=k+1

se 1 ≤ k < n. Equivalentemente, se I = J ∪ K dove I è finito e J e K sono disgiunti


� � �
ai = ai + ai .
i∈I i∈J i∈K

Importante è la proprietà di traslazione degli indici, che si esprime mediante la formula


n n−p n+q
� � �
(3.3) ai = ai+p = ai−q
i=m i=m−p i=m+q

ogniqualvolta si abbiano interi positivi m, n, p, q tali che p ≤ m ≤ n. In effetti tutti


e tre i membri della precedente uguaglianza esprimono la somma am + · · · + an . Per
spiegare, consideriamo il significato del secondo membro in (3.3), cioè di
n−p

(3.4) ai+p .
i=m−p

La sommatoria va letta come la somma di tutti gli elementi ai+p al variare di i


nell’insieme {m − p, m − p + 1, . . . , n − p}; ciò equivale a sommare gli elementi
a(m−p)+p = am ,
a(m−p+1)+p = am+1 ,
... ...
a(n−p)+p = an ,
cioè am , am+1 , . . . , an , come volevasi. Il lettore è invitato ad analizzare il significato del
terzo membro in (3.3).
Un altro modo, forse migliore, per capire la formula è quello di interpretarla come
un vero e proprio cambio del nome della variabile. Se cioè in (3.4) si pone j = i + p,
allora quando i = m − p si ha j = m e quando i = n − p risulta j = n, cosicché
n−p n
� �
ai+p = aj .
i=m−p j=m

Un’ultima riflessione convincerà il lettore che questa è esattamente la prima delle due
uguaglianze in (3.3). Infatti, le lettere i e j sono perfettamente interscambiabili in
quanto rappresentano, come si suol dire, variabili mute. Esse rappresentano semplice-
mente un indice; l’insieme degli elementi che esse indicizzano è lo stesso.
A titolo di esempio del metodo di dimostrazione per induzione e dell’uso del simbolo
di sommatoria, dimostriamo la formula
� n
(2i − 1) = n2
i=1
Insiemi 15

che vale per ogni intero positivo n. La proposizione P(n) è evidentemente la precedente
uguaglianza, con n intero positivo. Ora, P(1) asserisce 2·1−1 = 1, ed è evidentemente
vera. Se si assume vera P(n), si avrà dunque, ponendo ai = 2i − 1
n+1
� n+1

(2i − 1) = ai
i=1 i=1
� n


= ai + an+1
i=1
n

= (2i − 1) + 2n + 1
i=1
2
(per ipotesi induttiva) = n + 2n + 1
= (n + 1)2 ,
cioè P(n + 1).
Un altro risultato che si dimostra facilmente per induzione è la formula del binomio
di Newton. Si veda la Proposizione 4.1 del Capitolo 3.
16 Analisi Matematica 1

Esercizi

1. Siano A, B e C insiemi. Provare le seguenti formule:


(i) (A ∪ B) ∪ C = A ∪ (B ∪ C), detta proprietà associativa dell’unione;
(ii) (A ∩ B) ∩ C = A ∩ (B ∩ C), detta proprietà associativa dell’intersezione;
(iii) A ∩ (B ∪ C) = (A ∩ B) ∪ (A ∩ B), detta proprietà distributiva dell’unione
rispetto all’intersezione;
(iv) A \ (B ∪ C) = (A \ B) ∩ (A \ C);
(v) A \ (B ∩ C) = (A \ B) ∪ (A \ C).
2. Provare mediante il metodo di induzione le seguenti affermazioni:
�n
1 − an+1
(i) per ogni numero razionale a �= 1, ak = ;
k=0
1−a
�n
n(n + 1)(2n + 1)
(ii) k2 = ;
k=0
6
(iii) 2n > n per ogni n ∈ N \ {0};
(iv) per ogni numero reale h ≥ −1, (1 + h)n ≥ 1 + nh, detta diseguaglianza di
Bernoulli;
n

(v) per ogni x ∈ R, sin(2−n x) cos(2−j x) = 2−n sin x, detta formula di Vieta.
j=1
CAPITOLO 2

Numeri reali

Storicamente i numeri reali sono stati introdotti per misurare le grandezze geome-
triche. Se ad esempio vogliamo assegnare un numero al rapporto tra la lunghezza
d della diagonale e la lunghezza l del lato del quadrato, applichiamo il teorema di
Pitagora e scriviamo l2 + l2 = d2 ossia (d/l)2 = 2. Siamo portati a dire che il numero
cercato,√ reale in quanto esprime una relazione geometrica reale, è esattamente uguale a
d/l = 2. Analogamente, dalla geometria siamo convinti dell’esistenza di π , il numero
che esprime
√ il rapporto tra la circonferenza e la lunghezza del diametro del cerchio. I
numeri 2 e π non si possono scrivere come rapporto di numeri interi, non sono cioè
razionali. Viceversa, ogni numero razionale, potendosi pensare come un numero che
esprime il rapporto tra lunghezze di coppie di segmenti commensurabili, ha da essere
un numero reale.
Che cosa sono, dunque, i numeri reali? Si potrebbe dire che sono delle entità
adeguate a misurare la lunghezza di ogni segmento. Questa risposta è insoddisfacente
dal punto di vista formale, anche se per molti versi accurata. La risposta formale viene
formulata nell’ambito della teoria degli insiemi mediante la costruzione, a partire dai
numeri naturali, di un insieme normalmente denotato R e i cui elementi si dicono
numeri reali. L’insieme R ha tutte le proprietà algebriche che si desiderano. In esso
cioè valgono le regole usuali che governano la somma, il prodotto e le relazioni d’ordine,
e ha l’ulteriore cruciale proprietà che si chiama completezza. Essa consente di compiere
uno dei passi più importanti della matematica: pensare i punti di una retta come
numeri e viceversa, costruendo cioè una corrispondenza biunivoca1 tra la retta ed R.
La corrispondenza tra punti e numeri non è unica, né banale, ma è proprio ad essa che
la costruzione di R è ispirata. Non è unica perché la scelta di un’origine e di una scala
sono arbitrarie, ossia la selezione di due punti sulla retta cui si danno i nomi zero e
uno. Una volta fatta questa scelta, esiste un modo essenzialmente unico, quantomeno
canonico, per procedere nell’identificazione punto–numero.
Naturalmente, per parlare di corrispondenza biunivoca tra due insiemi è necessario
dapprima sapere che cosa sono, cioè come sono definiti. Da un lato si presuppone
nota la nozione di retta; si assume di sapere che cosa sia l’insieme retta e quali ne
siano le proprietà che siamo disposti ad accettare a priori. Dall’altro, bisogna disporre
dell’insieme R dei numeri reali, definito in modo più o meno astratto. Solo a questo
punto si può procedere alla definizione di una corrispondenza. La costruzione di R
può essere fatta in diverse maniere equivalenti ma presenta difficoltà concettuali ed

1La nozione esatta di corrispondenza biunivoca tra due insiemi verrà data nel Capitolo 3. Infor-
malmente, ciò significa che ad ogni elemento di un insieme si associa uno ed un solo elemento dell’altro
e viceversa, cosicché i due insiemi risultano identificabili l’uno con l’altro.
17
18 Analisi Matematica 1

espositive che esulano dagli scopi di questi appunti. Noi procederemo per una via più
breve. Elencheremo dapprima una serie di proprietà, i cosiddetti assiomi dei numeri
reali. In seguito enunceremo, senza dimostrarla, l’esistenza di un insieme non vuoto
R, essenzialmente unico, che soddisfa tutti gli assiomi elencati. Accenneremo infine
brevemente alla corrispondenza tra R e la retta.

1. Descrizione assiomatica dei numeri reali.


Le proprietà che individuano l’insieme dei numeri reali riguardano, in primo luogo:
• le operazioni di somma e prodotto
• la relazione di ordine
• la compatibilità tra operazioni e ordinamento.
Chiariamo subito che cosa si intenda per relazione di ordine.
Definizione 1.1. Una relazione binaria su un insieme A, denotata “<”, è detta
relazione d’ordine se essa soddisfa
(i) se a, b ∈ A, allora una ed una sola delle seguenti possibilità si verifica: a < b,
oppure a = b oppure b < a;
(ii) se a, b, c ∈ A sono tali che a < b e b < c, allora si ha anche a < c.
Le proprietà di somma e prodotto definiscono su R la struttura algebrica di corpo,
mentre la compatibilità delle operazioni con la relazione d’ordine definiscono ciò che
si chiama un corpo ordinato. Tutte queste proprietà sono godute anche da Q, che è
quindi anch’esso un corpo ordinato. Esse stabiliscono le regole di calcolo, che valgono
in R quanto in Q.
Definizione 1.2. Un corpo è un insieme F su cui siano definite le due operazioni
di addizione (o somma) e moltiplicazione (o prodotto), che soddisfano i seguenti as-
siomi:
(A) Assiomi dell’addizione.
(A1) Se x ∈ F e y ∈ F allora x + y ∈ F .
(A2) L’addizione è commutativa: x + y = y + x per ogni x, y ∈ F .
(A3) L’addizione è associativa: x + (y + z) = (x + y) + z per ogni x, y, z ∈ F .
(A4) Esiste un elemento 0 ∈ F tale che x + 0 = x per ogni x ∈ F .
(A5) Ad ogni x ∈ F corrisponde un elemento −x ∈ F tale che x + (−x) = 0.
(M) Assiomi della moltiplicazione.
(M1) Se x ∈ F e y ∈ F allora xy ∈ F .
(M2) La moltiplicazione è commutativa: xy = yx per ogni x, y ∈ F .
(M3) La moltiplicazione è associativa: x(yz) = (xy)z per ogni x, y, z ∈ F .
(M4) Esiste un elemento 1 ∈ F , 1 �= 0, tale che 1x = x per ogni x ∈ F .
(M5) Ad ogni x ∈ F , x �= 0, corrisponde un elemento 1/x ∈ F tale che: x(1/x) =
1.
(D) Proprietà distributiva.
Per ogni x, y, z ∈ F si ha x(y + z) = xy + xz .
Numeri reali 19

L’elemento −x si dice l’opposto di x, mentre l’elemento 1/x si dice il reciproco


di x. Come conseguenza degli assiomi di corpo valgono le regole di calcolo che sono
enunciate negli Esercizi 1, 2 e 3 di questo capitolo.
Passiamo adesso agli assiomi che stabiliscono la compatibilità tra le operazioni e la
relazione d’ordine.
Definizione 1.3. Un corpo ordinato è un corpo F in cui sia definita una relazione
d’ordine < per la quale siano soddisfatti i seguenti assiomi
(O) Assiomi dell’ordine.
(O1) Se x, y, z ∈ F e y < z , allora x + y < x + z .
(O2) Se x, y ∈ F e x > 0, y > 0, allora xy > 0.
Nel seguito, con la scrittura x ≤ y intendiamo che sia x < y oppure x = y .
Ribadiamo che tutti gli assiomi finora elencati sono soddisfatti in particolare da Q,
che è quindi un corpo ordinato. I numeri razionali tuttavia non soddisfano l’assioma
che segue, il vero e proprio tratto distintivo di R.
(C) Assioma di completezza.
Un insieme F munito di una relazione d’ordine < si dice (ordinalmente) completo
se dati due sottoinsiemi non vuoti A e B di F tali che
a≤b per ogni a ∈ A e per ogni b ∈ B,
esiste un elemento s ∈ F , detto elemento separatore, tale che
a≤s≤b per ogni a ∈ A e per ogni b ∈ B.

Si faccia attenzione al fatto che l’elemento separatore non è necessariamente unico.


Per esempio ciascun razionale compreso tra 0 e 1 separa in Q i sottoinsiemi {0} e
{1} di Q. Osserviamo però che i sottoinsiemi A = {a ∈ Q : a2 < 2} e B = {b ∈
Q : a2 > 2} di Q non sono separati in Q. Non esiste cioè alcun numero razionale
s tale che a ≤ s ≤ b per ogni a ∈ A ed ogni b ∈ B ; se esistesse un tale elemento
s, infatti, si avrebbe s2 = 2. Quest’ultima implicazione è intuitivamente chiara, ma
ha una dimostrazione che richiede l’archimedeità di Q, una proprietà che discuteremo
più avanti in questo capitolo (cfr il Teorema (5.1)). Il lettore curioso può svolgere
gli Esercizi (16) e (17) al riguardo. La proposizione che segue mostra peraltro che
l’equazione s2 = 2 non ha soluzioni in Q, il che prova che A e B non sono separati in
Q. Ne discende che Q non è completo.
Proposizione 1.4. Non esiste alcun numero razionale s tale che s2 = 2.
Dimostrazione. Se esistesse, si potrebbero trovare due interi positivi p e q primi tra
loro tali che (p/q)2 = 2, ossia p2 = 2q 2 . Poiché il membro destro è pari, tale è anche
p2 e quindi p (il quadrato di un numero dispari è dispari). Ma allora p = 2r e quindi
4r2 = 2q 2 , cioè 2r2 = q 2 . Con lo stesso ragionamento si conclude che allora q è pari,
contro l’ipotesi che p e q siano primi fra loro. �
Enunciamo finalmente il teorema di esistenza.
Teorema 1.5. Esiste un corpo ordinato completo R.
20 Analisi Matematica 1

Il teorema di esistenza andrebbe in realtà perfezionato, specificando che R è es-


senzialmente unico. Il significato dell’avverbio “essenzialmente” fa riferimento alla
nozione di isomorfismo di corpi ordinati che viene omessa per semplicità. In sostanza,
la cosiddetta unicità a meno di isomorfismi di R, consiste nel fatto che ogni altro
corpo ordinato e completo F può essere messo in corrispondenza biunivoca con R in
modo da rispettare le operazioni e l’ordine, cosicché distinguere R da F diviene una
questione solamente nominalistica, inessenziale.

2. La retta e i numeri reali.


La retta geometrica non è un corpo ordinato e completo, nel senso che su di essa
non sono definite a priori la somma e il prodotto, ne’ è chiaro quali siano, ad esempio, i
punti 0 e 1. Non possiamo quindi fare appello all’unicità di R per identificare la retta
con R. Sarà piuttosto la costruzione di una corrispondenza biunivoca a consentirci di
trasferire sulla retta le operazioni ed avere in tal modo un modello geometrico di R.
La costruzione che tratteggiamo qui di seguito è basata sulla nozione intuitiva di retta.
Il primo passo consiste nello scegliere due punti distinti sulla retta, che chiami-
amo rispettivamente O (lo zero) e U (l’uno). La retta privata di O consiste di due
semirette. Chiamiamo semiretta positiva quella che contiene il punto U . Per semplifi-
care l’esposizione, supponiamo di immaginare la retta in posizione orizzontale e che U
stia a destra di O .
Il secondo passo consiste nell’individuare i punti interi sulla retta. Consideriamo
dapprima la semiretta positiva. Sia S un segmento di lunghezza uguale alla lunghezza
del segmento OU ed il cui estremo sinistro coincida con il punto U . L’estremo destro
D di S sarà il punto che corrisponde al numero naturale 2.

✉ ✉ ✉ � � � � �
O U D↔2

OU S

Ripetendo la costruzione, otteniamo via via i punti che corrispondono ai numeri 3, 4,


5,..., ossia un insieme di punti sulla retta che chiameremo punti naturali. Riportando
specularmente i punti naturali sulla semiretta negativa si ottengono i punti interi nega-
tivi. Abbiamo quindi determinato una corrispondenza biunivoca tra Z ed un certo
sottoinsieme della retta i cui elementi abbiamo chiamato punti interi.
Il terzo passo consiste nell’individuare i punti razionali sulla retta. Partiamo al
solito dalla semiretta positiva. Diciamo che il punto R su di essa è un punto razionale
se esistono due interi positivi p e q (cui corrispondano rispettivamente i punti interi
P e Q) tali che il segmento OP coincida con il segmento di estremo sinistro O e di
estremo destro il punto a distanza q -volte la lunghezza di OR. In tal caso associamo
ad R il numero razionale positivo p/q .

✉ ✉ ❡
❜ ✉ ✉ � � � � �
O R ↔ 3/2 P ↔3

OR

OP = 2 OR
Numeri reali 21

Viceversa, dato il numero razionale positivo p/q , il punto razionale R che ad esso
corrisponde è costruito dividendo in q segmenti uguali il segmento OP : esso sarà
l’estremo destro del primo di tali segmenti. Riportando specularmente i punti razionali
positivi sulla semiretta negativa si ottengono i punti razionali negativi. Abbiamo quindi
determinato una corrispondenza biunivoca tra Q ed un certo sottoinsieme della retta i
cui elementi abbiamo chiamato punti razionali. Osserviamo che tra due punti razionali
distinti vi è sempre almeno un altro punto razionale, ad esempio il punto medio.
Il quarto passo consiste nel completare la corrispondenza tra i punti della retta ed
i numeri reali. Questo è ovviamente il passo più sottile. Innanzitutto definiamo sulla
retta l’ordine naturale, stabilendo cioè che P > Q se P è a destra di Q, nel senso
intuitivo cui abbiamo fatto già riferimento. In secondo luogo, ci appelliamo ancora
una volta alla nostra intuizione geometrica per osservare che l’assioma di completezza
(ordinale) ha sulla retta un significato evidente e lo assumiamo quindi come vero: se
due sottoinsiemi giacciono l’uno completamente alla destra dell‘altro, salvo avere al più
un punto in comune, si potrà “tagliare” la retta in due semirette in modo che uno dei
due insiemi sia completamente contenuto in una semiretta e l’altro nell’altra, perdendo
al più il punto di taglio.
Prendiamo dunque un punto qualunque X sulla retta e consideriamo gli insiemi A
e B formati rispettivamente da tutti i punti razionali a sinistra di X e da tutti i punti
razionali a destra di X . Come conseguenza del fatto che tra punti razionali distinti ve
ne è sempre un altro, si può vedere che X è l’unico elemento separatore tra A e B .
Ai sottoinsiemi A e B della retta corrispondono sottoinsiemi A� e B � in R formati
da numeri razionali e per i quali risulta a < b per ogni a ∈ A� e per ogni b ∈ B � .
Si può dimostrare che l’elemento separatore x ∈ R tra A� e B � , certo esistente per
via dell’assioma di completezza, è anch’esso unico. Associamo quindi a X il numero
reale x. Viceversa, dato il numero reale x, consideriamo i sottoinsiemi A� e B � di
R formati rispettivamente da tutti i numeri razionali minori di x e da tutti i numeri
razionali maggiori di x. Agli insiemi A� e B � corrispondono sottoinsiemi A e B della
retta formati da punti razionali e per i quali risulta P < Q per ogni P ∈ A e per ogni
Q ∈ B . Il punto X della retta che separa A e B è anch’esso unico, ed è il punto
associato ad x.

3. Intervalli. Insiemi aperti e intorni.


Questa sezione è dedicata a introdurre una classe di sottoinsiemi di R particolar-
mente rilevanti: gli intervalli. Mediante gli intervalli si possono poi formulare i concetti
di insieme aperto e insieme chiuso, ed il concetto di intorno di un punto. Essi definisco-
no ciò che si suole chiamare la topologia della retta, ossia la nozione di “punti vicini”
ad un dato punto.
Un intervallo è un insieme di numeri reali cui corrisponde un segmento o una
semiretta, estremi inclusi o esclusi. Gli intervalli sono quindi definiti in termini di
ordinamento. Se a e b sono numeri reali e a < b, poniamo:
(a, b) = {x ∈ R : a < x < b} intervallo aperto;
[a, b] = {x ∈ R : a ≤ x ≤ b} intervallo chiuso;
(a, b] = {x ∈ R : a < x ≤ b} intervallo aperto a sinistra e chiuso a destra;
22 Analisi Matematica 1

[a, b) = {x ∈ R : a ≤ x < b} intervallo aperto a destra e chiuso a sinistra.


Per quanto riguarda le semirette, introduciamo i simboli +∞ e −∞. È bene chiarire
che essi non rappresentano alcun numero reale, ma servono semplicemente a scrivere
in modo efficiente. Poniamo:
(−∞, a) = {x ∈ R : x < a} semiretta aperta e superiormente limitata2;
(−∞, a] = {x ∈ R : x ≤ a} semiretta chiusa e superiormente limitata;
(a, +∞) = {x ∈ R : a < x} semiretta aperta e inferiormente limitata;
[a, +∞) = {x ∈ R : a ≤ x} semiretta chiusa e inferiormente limitata.

Si dicono intervalli degeneri gli insiemi del tipo {a} ove a ∈ R. Infine, R stesso è da
riguardarsi come un intervallo, fatto che viene evidenziato scrivendo R = (−∞, +∞).
Si noti che l’intersezione di due intervalli è sempre un intervallo, eventualmente degenere
o vuoto, mentre l’unione di due intervalli può essere un intervallo oppure no. Ad
esempio, (0, 3] ∪ [4, 5) non è un intervallo, mentre (0, 3) ∪ [1, 3] = (0, 3].
Convenzionalmente, come abbiamo fatto noi, si usano parentesi tonde in corrispon-
denza di estremi esclusi e parentesi quadre in corrispondenza di estremi inclusi. Nel
primo caso, abbiamo usato la parola aperto e nel secondo la parola chiuso. Queste
parole hanno, come vedremo, un significato preciso.
Si dice intervallo aperto centrato nel punto x0 di semiampiezza a > 0 l’intervallo
(x0 − a, x0 + a). Esso è un intervallo aperto il cui punto medio è esattamente x0 .

� � � ✉ � � �
x0 − a x0 x0 + a
( )

Se consideriamo un punto x0 ∈ R, ogni intervallo aperto centrato in x0 contiene


tutti i punti vicini ad x0 , nel senso che in ogni intervallo (x0 − a, x0 + a) vi sono
tutti i punti che distano da x0 meno di a. Ognuno di questi intervalli costituisce una
sorta di bolla che isola x0 : tutti i punti al di fuori dell’intervallo sono ad una certa
distanza (almeno a) da x0 e quindi non sono poi cosı̀ vicini ad x0 . Gli intervalli aperti
centrati in x0 sono il prototipo di ciò che si chiama un intorno di x0 , come chiarito
dalla definizione che segue.
Definizione 3.1. Sia x0 ∈ R. Si dice intorno di x0 un insieme U che soddisfi le
due seguenti proprietà:
(i) x0 ∈ U
(ii) esiste un intervallo aperto I centrato in x0 tale che I ⊂ U .
Un insieme G si dice aperto se esso è intorno di ogni suo punto, ossia se per ogni
x ∈ G esiste un intervallo aperto centrato in x che sia tutto contenuto in G . Infine,
un insieme F si dice chiuso se il suo complementare in R è aperto.
È a questo punto evidente che gli intervalli aperti sono aperti nel senso della
Definizione (3.1). Infatti, dato un intervallo (s, d) ed un suo punto qualunque x0
2Leparole superiormente limitata e inferiormente limitata hanno un significato preciso che verrà
discusso nella Sezione 6. Per ora esse hanno da essere intese in senso informale e intuitivo.
Numeri reali 23

potremo certo trovare un a > 0 tale che (x0 − a, x0 + a) ⊂ (s, d): basta scegliere a
minore o uguale al più piccolo tra (x0 − s)/2 e (d − x0 )/2.
s d
� � � ✉ � � �
� x0 − a x0 x0 + a �
( )

Similmente, sono aperte le semirette aperte del tipo (−∞, a) oppure (a, +∞).
Osserviamo che l’unione di due o più insiemi aperti è sempre aperta. È invece forse un
po’ meno evidente che gli intervalli chiusi sono chiusi nel senso della Definizione (3.1).
Basta però notare che
[a, b] = R \ {(−∞, a) ∪ (b, +∞)}
e siccome (−∞, a)∪(b, +∞) è aperto, [a, b] risulta essere il complementare di un aperto
ed è quindi chiuso. Similmente, da
(−∞, a] = R \ (a, +∞), [a, +∞) = R \ (−∞, a)
si vede che le semirette chiuse sono chiuse nel senso della Definizione (3.1).

4. Valore assoluto e disuguaglianza triangolare.


La nozione di valore assoluto serve ad esprimere l’idea di distanza che abbiamo
implicitamente usato nella sezione precedente.
Definizione 4.1. Per ogni numero reale x definiamo

x se x ≥ 0
|x| =
−x se x < 0.
Il numero |x| si chiama il valore assoluto (o il modulo) di x.
Il numero non negativo |x| esprime la distanza di x dall’origine:

� � � ✉ � � �
x 0 |x|

Evidentemente |x − y| esprime allora la distanza di x da y :

� � � � � �
x y

Riassumiamo alcune proprietà del valore assoluto nella proposizione che segue. Si
faccia particolare attenzione al punto (iii).
Proposizione 4.2. Valgono le seguenti proprietà:
(i) | − x| = |x| per ogni x ∈ R;
24 Analisi Matematica 1

(ii) se a > 0 la relazione |x| < a è equivalente alla relazione −a < x < a e
similmente |x| ≤ a è equivalente alla relazione −a ≤ x ≤ a;
(iii) per ogni x, y ∈ R vale la disuguaglianza triangolare, cioè |x + y| ≤ |x| + |y|;
(iv) |xy| = |x| |y| per ogni x, y ∈ R;
(v) ||x| − |y|| ≤ |x − y| per ogni x, y ∈ R.
Dimostrazione. (i) Questo è ovvio.
(ii) Se x ≥ 0 allora x > −a è sempre soddisfatta, ed inoltre x = |x| < a. Se invece
x < 0 allora x < a è sempre soddisfatta, ed inoltre x = −|x| > −a.
(iii) Se x ed y sono entrambi non negativi, allora |x + y| = x + y = |x| + |y|, mentre
se sono entrambi negativi tale è anche x+y e quindi |x+y| = −(x+y) = (−x)+(−y) =
|x| + |y|. Supponiamo allora che siano l’uno negativo e l’altro non negativo, ad esempio
x < 0 ≤ y . Allora x + y < y < y + |x| = |y| + |x| e x + y ≥ x ≥ x − |y| = −|x| − |y|.
In altre parole abbiamo
−(|x| + |y|) ≤ x + y ≤ (|x| + |y|)
e l’asserto segue da (ii).
(iv) Questo è ovvio per via di (i).
(v) Dalla disuguaglianza triangolare si ha
|x| = |x − y + y| ≤ |x − y| + |y|,
ossia |x| − |y| ≤ |x − y|. D’altra parte anche
|y| = |y − x + x| ≤ |y − x| + |x|,
ossia −|x − y| ≤ |x| − |y|. Abbiamo visto che −|x − y| ≤ |x| − |y| ≤ |x − y| e possiamo
perciò concludere utilizzando (ii). �

5. Alcune proprietà dei numeri reali.


Dall’assioma di completezza si può derivare una importante conseguenza, nota come
la proprietà archimedea di R. Essa è una proprietà più debole della completezza.
Infatti, anche Q è archimedeo, pur non essendo completo.
Teorema 5.1 (Archimedeità di R). Per ogni y ∈ R ed ogni x ∈ R, x > 0, esiste
un intero positivo n tale che nx > y .
Dimostrazione. Se y < 0 oppure 0 < y ≤ x non c’è nulla da dimostrare. Dunque
è lecito assumere x < y . Supponiamo che la tesi sia falsa. Posto A = {nx : n ∈ N},
si ha a ≤ y per ogni a ∈ A, cosicché se B = {b ∈ R : b ≥ a per ogni a ∈ A} risulta
B �= ∅ in quanto y ∈ B . Sia s un elemento separatore tra A e B . Poiché x > 0,
s−x < s. Se d = s−x soddisfacesse d ≥ nx per ogni n, allora sarebbe d ∈ B cosicché
s ≤ d per definizione di elemento separatore; ma questo contraddice il fatto che d < s.
Pertanto deve esistere un intero positivo n tale che d = s − x < nx ossia s < (n + 1)x.
D’altra parte (n + 1)x ∈ A e s ≥ a per ogni a ∈ A. Da questa contraddizione segue
che la tesi è vera. �
Corollario 5.2. Sia x ∈ R. Se per ogni intero n > 0 si ha |x| ≤ 1/n, allora
x = 0.
Numeri reali 25

Dimostrazione. Se fosse |x| > 0, allora in virtù del teorema precedente esisterebbe
un intero positivo tale che n|x| > 1, contro l’ipotesi. �
Un’altra proprietà importantissima di R è la cosiddetta densità dei razionali, ossia
il fatto che tra due reali qualunque cade sempre un razionale.
Teorema 5.3 (Densità di Q). Se x, y ∈ R e x < y , allora esiste r ∈ Q tale che
x < r < y.
Dimostrazione. Poiché x < y si ha y − x > 0 e per la proprietà archimedea di
R esiste un intero positivo n tale che n(y − x) > 1. Applicando ancora due volte la
proprietà archimedea, otteniamo due interi positivi m1 ed m2 tali che m1 = m1 1 > nx
e m2 = m2 1 > −nx, ossia
−m2 < nx < m1 .
Perciò esiste un intero m con −m2 ≤ m ≤ m1 tale che
m − 1 ≤ nx < m.
Dalle disuguaglianze precedenti otteniamo
nx < m ≤ 1 + nx < ny.
Infine, siccome n > 0 si ha
m
x< <y
n
e l’asserto è dimostrato con r = m/n. �

6. Estremo superiore e inferiore.


L’assioma di completezza riveste, come abbiamo visto, un ruolo di fondamentale
importanza. Come spesso accade in matematica, un concetto può essere riformulato
ed assumere una valenza maggiormente operativa. E’ questo il caso dell’assioma di
completezza, che risulta essere equivalente all’esistenza del cosiddetto estremo superio-
re di ogni insieme non vuoto che si trovi, per cosı̀ dire, tutto a sinistra di un certo
punto. Si potrebbe dire che l’estremo superiore di un siffatto insieme S è il punto
più appiccicato ad S tra quelli che stanno ancora a destra di S , quando non ne è
proprio l’elemento più grande. La definizione di estremo superiore non è molto più
concreta di quella di elemento separatore ma le caratterizzazioni che se ne possono
dare ne consentono un uso in un certo senso abbastanza pratico. Mediante la nozione
di estremo superiore è possibile esprimere in modo sintetico e persino intuitivamente
soddisfacente molte verità sottili dell’Analisi Matematica.
Iniziamo col precisare che cosa abbiamo inteso dire con l’espressione “S sta tutto
a sinistra (o a destra) di un certo punto”.
Definizione 6.1. Sia S un sottoinsieme non vuoto di R. Diremo che S è supe-
riormente limitato se esiste M ∈ R tale che s ≤ M per ogni s ∈ S . In questo caso, M
si dirà un maggiorante di S . Analogamente, diremo che S è inferiormente limitato se
esiste m ∈ R tale che m ≤ s per ogni s ∈ S . In questo caso, m si dirà un minorante
di S . Diremo infine che S è limitato se è superiormente e inferiormente limitato.
26 Analisi Matematica 1

Si può riformulare la definizione precedente considerando l’insieme dei maggioranti


di S , ponendo cioè S ∗ = {M ∈ R : M ≥ s per ogni s ∈ S} e dicendo che S è supe-
riormente limitato se S ∗ �= ∅. Analogamente si può procedere introducendo l’insieme
S∗ = {m ∈ R : m ≤ s per ogni s ∈ S} dei minoranti di S .
Esempi.
(1) Le semirette (−∞, 0] e (−∞, 0) sono entrambe superiormente limitate ma non
inferiormente limitate. In effetti, 0 è un maggiorante per entrambe ma non vi sono
minoranti ne’ per l’una ne’ per l’altra. Quindi non sono limitate.
(2) L’intervallo (0, 1] è limitato inferiormente da 0 e superiormente limitato da 1.
Quindi è limitato.
(3) L’insieme I = {1/n : n ∈ N \ {0}} è limitato inferiormente da 0 e superiormente
da 1, perché 1/n ≤ 1 per ogni naturale non nullo n. Quindi è limitato. In particolare
abbiamo provato che I ⊂ (0, 1].
(4) Prendendo spunto dall’esempio precedente, possiamo dimostrare che se A ⊆ B e
B è limitato, tale è anche A. Infatti se M ed m sono rispettivamente un maggiorante
ed un minorante di B , allora m ≤ b ≤ M per ogni b ∈ B . D’altra parte, per ogni
a ∈ A risulta a ∈ B cosicché m ≤ a ≤ M per ogni a ∈ A.
Se un insieme S ha un maggiorante M , sono maggioranti di S anche tutti i numeri
maggiori di M . Non è invece detto che ve ne sia qualcuno più piccolo di M . Se c’è
un maggiorante M � < M , possiamo dire che M � è meglio di M nel senso che M �
descrive più accuratamente la regione in cui è localizzato S , approssimandone meglio
il confine destro. Poniamoci quindi la seguente domanda: esiste il migliore, cioè il più
piccolo, dei maggioranti? Questo certamente avviene se S possiede un elemento che è
più grande di tutti gli altri suoi elementi: esso marca il confine.
Definizione 6.2. Sia S un sottoinsieme non vuoto di R. Diremo che S ammette
massimo e che M ∈ R è il massimo di S se M ∈ S e se M ≥ x per ogni x ∈ S . In
tal caso scriveremo M = max S . Analogamente, diremo che S ammette minimo e che
m ∈ R è il minimo di S se m ∈ S e se m ≤ x per ogni x ∈ S . In tal caso scriveremo
m = min S .
Possiamo ora definire i concetti di estremo superiore e di estremo inferiore. Si
noti che la definizione fa uso esclusivamente della relazione d’ordine e di nessun’altra
proprietà di R.
Definizione 6.3. Sia S un sottoinsieme non vuoto di R. Si chiama estremo
superiore di S il minimo dei maggioranti di S , se esso esiste. In tal caso esso si
denota sup S . Si chiama estremo inferiore di S il massimo dei minoranti di S , se
esso esiste. In tal caso esso si denota inf S . Definiamo inoltre sup S = +∞ se S non
è superiormente limitato e inf S = −∞ se S non è inferiormente limitato.
Osserviamo che se S ammette un massimo M , allora M è anche l’estremo superiore
di S . Infatti, M è un maggiorante e se ve ne fosse uno più piccolo M � , si avrebbe
M � < M , contraddicendo il fatto che M � sia un maggiorante, in quanto M ∈ S ; perciò
Numeri reali 27

M è il minimo dei maggioranti, cioè M = sup S . Similmente, se S ammette minimo


m, allora m = inf S .
Ne segue in particolare che se esiste sup S ma sup S �∈ S , allora S non ha massimo.
Infatti, se esistesse il massimo M esso coinciderebbe con l’estremo superiore, cioè
M = sup S , cosicché si avrebbe sup S ∈ S , contro l’ipotesi. Similmente, se esiste inf S
ma inf S �∈ S , allora S non ha minimo.
Esempi.
(5) Riprendiamo l’esempio (1) e proviamo che max(−∞, 0] = sup(−∞, 0] = 0. Infatti
0 ∈ (−∞, 0] e x ≤ 0 per ogni x ∈ (−∞, 0], da cui max(−∞, 0] = 0. Per quanto
osservato sopra, sup = max se il massimo esiste e quindi sup(−∞, 0] = 0.
Proviamo ora che sup(−∞, 0) = 0, mentre il massimo di (−∞, 0) non esiste.
Chiaramente, 0 è un maggiorante. Se M < 0, M non è un maggiorante in quanto
M < M/2 < 0 e M/2 ∈ (−∞, 0). Perciò per ogni maggiorante M si ha 0 ≤ M e
questo prova che 0 è il minimo dei maggioranti, cioè 0 = sup(−∞, 0). Infine, siccome
0 �∈ (−∞, 0), il massimo di (−∞, 0) non esiste.
(6) Riprendiamo l’esempio (4) e proviamo che, posto I = {1/n : n ∈ N \ {0}}, si
ha max I = sup I = 1, inf I = 0, ma min I non esiste. Per ogni intero positivo n
si ha n ≥ 1, cosicché 1/n ≤ 1 e 1 è un maggiorante di I . Siccome 1 = 1/1 ∈ I ,
esso è il massimo e quindi anche il sup. Ora, 0 è un minorante per I in quanto ogni
elemento di I è strettamente positivo. Sia ora m un numero reale positivo. Siccome
R è archimedeo, dati i numeri reali m > 0 e 1, esiste un intero positivo n tale che
nm > 1, cioè 1/n < m. Abbiamo provato che nessun numero positivo m può essere
un minorante per I . Quindi, per ogni minorante m di I si ha m ≤ 0 e 0 è dunque il
massimo dei minoranti, cioè 0 = inf I . D’altra parte, I non ha minimo perché 0 �∈ I .
La definizione di estremo superiore può essere riformulata mediante l’insieme S ∗
dei maggioranti di S , ponendo

min S ∗ se S ∗ �= ∅ e se S ∗ ammette minimo
sup S =
+∞ se S ∗ = ∅.
Potrebbe quindi darsi che S sia superiormente limitato, cioè S ∗ �= ∅, ma che S ∗
non ammetta minimo, nel qual caso non esisterebbe l’estremo superiore di S . Ciò
non si verifica mai, nel senso che se S ∗ �= ∅, allora esiste min S ∗ ∈ R, ossia ogni
insieme superiormente limitato ammette estremo superiore. Omettiamo la non difficile
dimostrazione del seguente teorema, a cui abbiamo accennato all’inizio di questa sezione
e da cui segue l’affermazione che abbiamo appena fatto, nonché l’analoga per l’estremo
inferiore.
Teorema 6.4. Sia F un corpo ordinato. Le asserzioni seguenti sono equivalenti:
(i) F è ordinalmente completo;
(ii) ogni sottoinsieme non vuoto e superiormente limitato di F ammette estremo
superiore in F ;
(iii) ogni sottoinsieme non vuoto e inferiormente limitato di F ammette estremo
inferiore in F .
28 Analisi Matematica 1

Dal Teorema (6.4) segue appunto che poiché R è ordinalmente completo, cioè vale
la proprietà (i), allora ogni sottoinsieme non vuoto e superiormente limitato di R
ammette estremo superiore, ossia vale la proprietà (ii). Di più è vero: si potrebbe
sostituire l’assioma di completezza ordinale (C) con una qualunque delle proprietà (ii)
oppure (iii) e ancora si otterrebbe un unico corpo ordinato con tale proprietà, ossia R.
Passiamo ora a dare una caratterizzazione di sup e inf .
Proposizione 6.5. Sia S un sottoinsieme non vuoto di R.
Il numero β ∈ R è l’estremo superiore di S se e solo se
(i) β è un maggiorante per S ;
(ii) per ogni x ∈ R con x < β esiste s ∈ S tale che x < s.
Il numero α ∈ R è l’estremo inferiore di S se e solo se
(i) α è un minorante per S ;
(ii) per ogni x ∈ R con x > α esiste s ∈ S tale che s < x.
Dimostrazione. Supponiamo che β = sup S e proviamo che β soddisfa (i) e (ii). La
(i) è banalmente soddisfatta. Sia ora x ∈ R con x < β . Siccome β è il minimo dei
maggioranti, x non è un maggiorante e quindi esiste un s ∈ S più grande di x, cioè
tale che s > x.
Viceversa, supponiamo che β soddisfi (i) e (ii) e proviamo che allora β = sup S .
Dobbiamo provare che β è il minimo dei maggioranti. Supponiamo invece che vi sia
un maggiorante x più piccolo di β , cioè tale che x < β . Per la (ii) esiste allora s ∈ S
tale che x < s, in contraddizione con l’ipotesi che x sia un maggiorante. Pertanto β è
il minimo dei maggioranti.
La dimostrazione dell’enunciato relativo all’estremo inferiore è del tutto analoga e
viene lasciata per esercizio. �

7. Potenze e radici.
Se x ∈ R ed n ∈ N \ {0} è ben noto che cosa si intenda per la potenza n-esima di
x, denotata xn , ossia
xn = x
� · x��· · · x� .
n volte
La associatività del prodotto rende non ambigua l’espressione precedente. Si osservi
che se x > 0 allora xn > 0 per ogni intero positivo n (mentre se x < 0, il segno di
xn dipende da n: se n è pari allora xn > 0 mentre se n è dispari, allora xn < 0). In
particolare quindi, se fissiamo un intero positivo n l’insieme
Pn = {xn : x > 0}
è un sottoinsieme di R+ = (0, +∞). Una domanda naturale da porsi è se Pn sia un
sottoinsieme proprio di R+ o se viceversa coincida con esso. In questo secondo caso,
che è naturalmente quello che si verifica, si ha che per ogni intero positivo n ed ogni
y > 0 esiste x > 0 tale che xn = y (vedi il Teorema (1.30) qui sotto). Il numero reale
positivo x si chiama la radice n-esima di y , e si denota con uno dei simboli y 1/n oppure
√n y . Per poter dimostrare questo semplice ma fondamentale teorema, premettiamo due

semplici osservazioni.
Numeri reali 29

Lemma 7.1. Sia k un intero positivo. Se 0 < a < b allora 0 < ak < bk .
Dimostrazione. Esercizio. �
Lemma 7.2. Se 0 < a < b ed n è un intero positivo, allora
(7.5) bn − an ≤ n(b − a)bn−1
Dimostrazione. Fattorizzando ed utilizzando il lemma precedente si ha
bn − an = (b − a)(bn−1 + bn−2 a + · · · + ban−2 + an−1 )
≤ (b − a)(bn−1 + bn−2 b + · · · + bbn−2 + bn−1 )
= (b − a)nbn−1 .

Teorema 7.3. Per ogni numero reale positivo y ed ogni intero positivo n esiste
una ed una sola radice n-esima positiva y 1/n .
Dimostrazione. L’unicità è ovvia per via del Lemma (7.1): se 0 < x1 < x2 si ha
anche 0 < xn1 < xn2 . Sia ora y > 0 fissato e consideriamo l’insieme
A = {x ∈ R : xn ≤ y}.
Questo insieme non è vuoto, perché α = min{1, y} ∈ A ed è limitato superiormente
perché β = max{1, y} è un maggiorante. Infatti:
αn = (min{1, y})n ≤ min{1, y} ≤ y
β n = (max{1, y})n ≥ max{1, y} ≥ y.
Esiste quindi x = sup A. Proveremo ora che xn = y . Scegliamo un qualunque numero
positivo ε. Siccome x ≥ α > 0, posto
� ε x�
δ = min ;
n2n xn−1 2
si ha ovviamente 0 < δ < x. Allora, da
0<x−δ <x<x+δ
segue
(x − δ)n < xn < (x + δ)n .
D’altra parte, per le proprietà dell’estremo superiore, tra x − δ ed x vi è certamente
un elemento di A, mentre senz’altro x + δ �∈ A. Quindi
(x − δ)n < y < (x + δ)n .
Da queste diseguaglianze, e da (7.5), segue
|xn − y| < (x + δ)n − (x − δ)n ≤ 2δn(x + δ)n−1 < 2δn(2x)n−1 = δn2n xn−1 ≤ ε.
Poiché quindi |xn − y| < ε per ogni ε > 0 si ha xn = y , come volevasi. �
30 Analisi Matematica 1

Esercizi

1. Provare che gli assiomi dell’addizione implicano le seguenti proprietà


(a) Se x + y = y + z allora x = z .
(b) Se x + y = y allora x = 0.
(c) Se x + y = 0 allora y = −x (unicità dell’opposto).
(d) −(−x) = x.

2. Provare che gli assiomi della moltiplicazione implicano le seguenti proprietà


(a) Se x �= 0 e xy = xz , allora y = z .
(b) Se x �= 0 e xy = y , allora x = 1.
(c) Se x �= 0 e xy = 1, allora y = 1/x (unicità del reciproco).
(d) Se x �= 0, allora 1/(1/x) = x.

3. Provare che gli assiomi di corpo implicano le seguenti proprietà


(a) 0x = 0.
(b) Se x �= 0 e y �= 0, allora xy �= 0.
(c) (−x)y = −(xy) = x(−y).
(d) (−x)(−y) = xy .

Nota: gli esercizi dal (4) al (13) servono per ripassare l’algebra delle disuguaglianze.
Essi sono “in ordine”, nel senso che per svolgerne uno può essere necessario utilizzarne
uno precedente.
4. Siano x, y ∈ R. Provare che x ≤ y se e solo se y − x ≥ 0 e x < y se e solo
se y − x > 0. Dedurne che l’opposto di un numero positivo è un numero negativo e
l’opposto di un numero negativo è un numero positivo.
5. Siano x1 , x2 , y1 , y2 ∈ R. Provare che se x1 ≤ y1 e x2 ≤ y2 allora si ha anche
x1 + x2 ≤ y1 + y2 ; provare inoltre che quest’ultima diseguaglianza è stretta (ossia “<”)
se e solo se una delle due precedenti lo è.
6. Provare che la somma di un numero finito di numeri reali non negativi è non negativa
e che se almeno uno di essi è positivo, la somma è positiva.
7. Siano x, y , z ∈ R con z < 0. Provare che se x ≤ y , allora xz ≥ yz e se x < y ,
allora xz < yz .
8. Provare che per ogni numero reale x si ha x2 ≥ 0 e che se x2 = 0 allora x = 0.
9. Siano x1 , x2 , y1 , y2 ∈ R. Provare che
(a) se 0 ≤ x1 ≤ y1 e 0 ≤ x2 ≤ y2 allora x1 x2 ≤ y1 y2 ;
(b) se y1 > 0 e y2 > 0 e x1 < y1 oppure x2 < y2 , allora x1 x2 < y1 y2 .
Numeri reali 31

10. Provare che il prodotto di un numero finito di numeri reali positivi è positivo.
11. Provare che se x ∈ R è positivo, allora 1/x > 0 e se è negativo allora 1/x < 0.
12. Siano x e y due numeri reali positivi. Provare che x ≤ y se e solo se y/x ≥ 1 e
x < y se e solo se y/x > 1.
13. Siano x, y ∈ R entrambi non nulli. Provare che
(a) se 0 < x < y oppure x < y < 0, allora 1/x > 1/y ;
(b) se x < 0 < y allora 1/x < 1/y .
14. Risolvere le seguenti disequazioni
(i) x(x + 2)2 < 0;
(ii) (2x + 3)4 (x + 4) < 0;
2x − 1
(iii) ≥ 0;
x+2
x2 − 3x − 10
(iv) < 0.
x2 + x + 1
15. Siano Ak = {x ∈ R : kx − 5 ≥ 0} e B = {x ∈ R : x − 3 < 0}. Per quali k ∈ R si
ha Ak ⊆ B ? Per quali k ∈ R si ha Ak ∩ B �= ∅?
16. Sia s ∈ Q tale che s2 < 2.
(i) si provi utilizzando l’archimedeità di Q che esiste un intero n > 1 per il quale
n(2 − s2 ) > 2s + 1;
(ii) utilizzando il punto precedente, si provi che esiste un numero razionale del
tipo r = s + 1/n con n intero positivo, tale che r2 < 2.
17. Si provi che se esistesse un razionale s che separa gli insiemi A = {a ∈ Q : a2 < 2}
e B = {b ∈ Q : b2 > 2}, allora necessariamente s2 = 2. [Traccia: si proceda provando
che né s2 < 2 né s2 > 2 possono essere vere per via di quanto visto all’esercizio
precedente.]
18. Provare che se A e B sono sottoinsiemi limitati di R tali sono anche A ∪ B e
A ∩ B.
19. Dimostrare il punto (ii) della Proposizione 6.5.
20. Dimostrare il Lemma 7.1.
CAPITOLO 3

Funzioni

Moltissime leggi della scienza sono espresse come relazioni che legano fra loro due
o più quantità. Tipicamente, una legge fisica si formula affermando che una certa
quantità y dipende da un’altra quantità x secondo una precisa regola, ossia che x e y
soddisfano una relazione per la quale ad ogni valore di x corrisponde un ben preciso
valore di y . Il modo in cui y è determinato a partire dalla conoscenza di x è, né più
né meno, il contenuto della legge fisica. Per questa ragione, i modelli classici della
fisica sono anche noti come modelli deterministici: la conoscenza del valore di uno o
più parametri fisici determina univocamente il valore di altri parametri ad essi legati
mediante ciò che si suol definire una relazione funzionale. Si potrebbe parafrasare
dicendo che una legge della fisica classica è spesso un’affermazione del tipo: “dimmi
quanto vale x e io ti dico quanto vale y ”.
Il tipo di relazione appena descritta si presenta in molte altre situazioni, non solo
nelle leggi fisiche. Ad esempio, se ogni persona che entra in un negozio ritira un biglietto
numerato, ad ogni numero chiamato dal negoziante corrisponderà un unico avventore:
“dimmi un numero e io ti dico a chi tocca”. Se una banca pattuisce un certo interesse
annuo per le somme in deposito, ad ogni cliente verrà riconosciuta a fine anno una
somma di competenza: “dimmi quanto hai in deposito e io ti dico quale è l’interesse
dovuto”. La lista dei possibili esempi è naturalmente infinita.
Il punto di vista matematico consiste nell’estrarre gli elementi essenziali di una
vasta classe di modelli di riferimento e definire un concetto generale che si possa poi
adattare a varie possibili situazioni, non solo ai modelli da cui si è partiti. Il concetto
generale cui stiamo alludendo è il concetto di funzione. Il punto di partenza consiste
nell’individuare due insiemi, diciamo A e B . L’insieme A sarà l’insieme all’interno del
quale x può variare – e per questa ragione x sarà detta una variabile – mentre B sarà
l’insieme dei possibili valori di y . Una funzione da A a B non è altro che una legge
che ad ogni x ∈ A fa corrispondere uno ed un solo y ∈ B . Formalizziamo ciò in una
definizione.

Definizione 0.4. Una funzione (o applicazione) tra gli insiemi A e B è una


regola f che ad ogni elemento a ∈ A associa uno ed un solo elemento f (a) ∈ B , detto
l’immagine di a mediante f . Una funzione si indica con il simbolo f : A → B . Spesso
si scrive a �→ b in luogo di f (a) = b per indicare che b è l’immagine di a mediante f .

Una funzione è quindi una terna (A, B, f ), nel senso che per avere una funzione
devono essere specificati l’insieme A di partenza, l’insieme B di arrivo e la regola che
abbiamo sinteticamente indicato con la lettera f . Ne segue che due funzioni f : A → B
e g : C → D sono uguali se e solo se (A, B, f ) = (C, D, g), ossia se e solo se coincidono
33
34 Analisi Matematica 1

gli insiemi di partenza, cioè A = C , gli insiemi di arrivo, cioè B = D e le regole, cioè
f = g , nel senso che f (a) = g(a) per ogni a ∈ A = C .
Alle volte è utile rappresentare le funzioni mediante disegni del tipo

f
A ✲ B

in cui si evidenzia che f , per cosı̀ dire, porta i punti di A in punti di B .


Esempi.
(1) Siano A = N, B = Z e sia f : N → Z la funzione definita dalla regola n �→ n − n2 .
È evidente che ad ogni intero non negativo n ∈ N corrisponde uno ed un solo intero
mediante f , cioè f (n) = n − n2 . Ad esempio, f (0) = 0, f (1) = 0, f (2) = −2 e
f (3) = −6. Qual’è l’immagine di 10 mediante f ?
(2) Siano D l’insieme degli interi positivi dispari e P l’insieme degli interi positivi
pari. La legge f (n) = n2 non definisce una funzione f : D → P in quanto non è vero
che ad ogni numero dispari n corrisponda il numero pari n2 ; infatti se n è dispari tale
è anche n2 e quindi f (n) = n2 �∈ P . Per una ragione analoga, non abbiamo neppure
una funzione f : P → D . Piuttosto, la corrispondenza n �→ n2 definisce una funzione
g : D → D , ma anche una funzione h : P → P , perché se n è pari tale è anche n2 .
D’altra parte, si potrebbe pensare che n �→ n2 definisca una funzione dagli interi agli
interi, o dai razionali ai razionali, o dai reali ai reali.... se non si specifica con esattezza
quali siano l’insieme di partenza e l’insieme d’arrivo, la sola legge di corrispondenza
non individua necessariamente una funzione.
(3) Sia M l’insieme dei mesi dell’anno 2003 e sia G = {28, 30, 31}. La corrispondenza
g che ad ogni mese fa corripondere il numero dei giorni di quel mese è una funzione
g : M → G. Ad esempio g(marzo 2003) = 31. Se invece M fosse l’insieme dei mesi
dell’anno 2004, la stessa corrispondenza non definirebbe una funzione, in quanto il
mese di febbraio 2004 ha 29 giorni e 29 �∈ G.
Funzioni 35

(4) Le potenze x �→ xn con n intero e positivo sono funzioni da R ad R. Sono anche


funzioni le seguenti
f : R \ {0} → R, x �→ x−n , n ∈ N \ {0};
f : (0, +∞) → (0, +∞), x �→ x 1/n
, n ∈ N \ {0};
f : (0, +∞) → (0, +∞), x �→ 1/x 1/n
, n ∈ N \ {0}.

(5) Indichiamo con [x] la cosiddetta parte intera di x, dove x è un numero reale
qualsiasi. Essa è definita come il più grande numero intero minore o uguale a x, cioè
[x] = max{m ∈ Z : m ≤ x}.
Chiaramente, [x] ∈ Z per ogni x ∈ R, cosicché [ · ] : R → Z, x �→ [x] è una funzione.
Una questione di terminologia: spesso si usa il termine mappa invece di applicazione
o funzione. La ragione è semplice. Ci si riferisce al fatto che una mappa è un disegno
che rappresenta una certa regione, o città, o edificio. Ad ogni punto del disegno è
associato uno ed un solo luogo geografico.

La maggior parte delle funzioni nelle quali siamo interessati in questi appunti sono
funzioni tra sottoinsiemi degli insiemi numerici N, Z, Q ed R. In particolare, il vero
oggetto di studio saranno le funzioni del tipo f : I → R dove I è un sottoinsieme
di R. Per questa ragione è utile stabilire una convenzione che abbrevia in molti casi
la scrittura e che in un certo senso rimuove l’ambiguità illustrata nell’Esempio (2.4).
Vogliamo cioè poter assegnare formule che definiscano funzioni in modo chiaro, senza
dover specificare di volta in√volta quali siano gli insiemi di partenza e di arrivo. Se ad
√ f (x) = 1 − x vogliamo dire che f è la funzione f : [−1, 1] → R
esempio scriviamo 2

definita da x �→ 1 − x2 .
36 Analisi Matematica 1

Convenzione 0.5. Se scriviamo f (x) = “formula che coinvolge x” intendiamo la


funzione f : I → R dove I è il più grande sottoinsieme di R in cui la formula ha senso
e definisce un unico numero reale. L’insieme I verrà detto l’insieme di definizione di
f , oppure il suo dominio, oppure ancora il suo campo di esistenza.

Esempi.
(6) Il dominio di f (x) = x2 è I = R: si può fare il quadrato di ogni numero reale.
√ √
(7) Il dominio di f (x) = x + −x è l’insieme {0}. Infatti, devono valere simultane-
amente le diseguaglianze x ≥ 0 e −x ≥ 0.
(8) Il dominio I di f (x) =
�tan(1−x
2
) si trova imponendo 1−x2 �∈ {π/2+kπ : k ∈ Z}.
� �
Esso è quindi I = R \ {± j π + 12 + 1 : j ∈ Z}. Il lettore è naturalmente invitato a
verificare quest’ultima affermazione.

1. Prodotto cartesiano. Il grafico di una funzione.


Cosı̀ come i punti della retta possono essere pensati come numeri reali, è utile
pensare i punti del piano come coppie di numeri reali. L’idea, dovuta a Cartesio,
consiste nell’osservare che se tracciamo nel piano due rette r ed s non parallele, quindi
incidenti in un punto O , ogni punto P fuori di esse determina altri due punti, uno su
r ed uno su s: i punti di intersezione tra r ed s e le parallele ad esse passanti per P .
La costruzione è più naturale se r ed s sono ortogonali.

❡ ✉
P

✉ ❡
O
r

Poiché r ed s possono essere identificate con R, a ciascuno dei due punti di inter-
sezione può essere associato un numero reale. In ultima analisi, possiamo associare a
P una coppia di numeri reali.
Ogniqualvolta si sia fissata la scelta delle identificazioni di r ed s con R, la proce-
dura appena descritta definisce ciò che si chiama un sistema di coordinate nel piano.
Solitamente, si scelgono r ed s ortogonali e si identifica con 0 ∈ R il punto O di inter-
sezione su entrambe le rette. In questo caso il sistema di coordinate si dirà ortogonale
Funzioni 37

ed il punto O si dirà l’origine del sistema di coordinate. Pensiamo ad r come ad una


retta orizzontale e ad s come ad una retta verticale. È consuetudine scegliere il punto
Ur che corrisponde al numero reale 1 su r a destra dell’origine ed il punto Us che
corrisponde al numero reale 1 su s sopra l’origine. Se la lunghezza di OUs è uguale
alla lunghezza di OUr , il sistema di coordinate si dirà monometrico.
s

✉ Us


O Ur
r

La scelta di Ur e di Us definisce su r e su s un orientamento, che viene normalmente


indicato mediante l’uso di frecce. La retta orizzontale r viene detta l’asse delle ascisse
ed i numeri reali che corrispondono ai suoi punti si indicano con la lettera x e si
dicono ascisse; la retta verticale s viene detta l’asse delle ordinate ed i numeri reali che
corrispondono ai suoi punti si indicano con la lettera y e si dicono ordinate.
La scelta di un sistema di coordinate ortogonale e monometrico è sintetizzata nel
seguente disegno:
y✻

O ✲
1 x

Riprendiamo la discussione iniziale sulla corrispondenza tra punti del piano e coppie
di numeri reali. A ben vedere, il concetto di coppia è del tutto generale, e si formallizza
nella seguente definizione.
Definizione 1.1. Siano A e B due insiemi. Si chiama prodotto cartesiano di A e
B l’insieme denotato A × B i cui elementi sono le coppie (a, b) dove a ∈ A e b ∈ B :
� �
A × B = (a, b) : a ∈ A, b ∈ B .
Sottolineiamo che gli elementi di un prodotto cartesiano sono coppie ordinate, nel
senso che in generale (a, b) �= (b, a). In effetti, si richiede che il primo elemento della
38 Analisi Matematica 1

coppia (a, b), cioè a, stia nel primo insieme A ed il secondo, b, nel secondo insieme B .
Quindi, se a ∈ A e b ∈ B , la coppia (b, a) non appartiene a A × B , ma a B × A, che
è un insieme diverso. Questa osservazione diventa cruciale quando A = B . In questo
caso gli insiemi A × B e B × A coincidono, in quanto sono entrambi formati dalle
coppie (a, b) con a e b in A = B . Ma se a �= b, la coppia (a, b) è diversa dalla coppia
(b, a).
Il caso che a noi interessa maggiormente è il prodotto cartesiano R × R, perché
vogliamo stabilire una corrispondenza biunivoca tra i suoi elementi ed i punti del piano.
Supponiamo dunque di aver fissato un sistema di coordinate ortogonale e monometrico
nel piano. Ad ogni punto P0 del piano associamo la coppia (x0 , y0 ) ∈ R × R, dove
x0 è l’ascissa del punto di intersezione tra la retta passante per P0 e parallela all’asse
verticale delle ordinate e y0 è l’ordinata del punto di intersezione tra la retta passante
per P0 e parallela all’asse orizzontale delle ascisse.

y✻

y0 . . . . . . . . . . . . .� P0
..
..
. ✲
x0 x

Viceversa, data la coppia (x0 , y0 ) ∈ R × R, tracciamo la retta parallela all’asse delle


ordinate e passante per il punto x0 sulla retta delle ascisse, e la retta parallela all’asse
delle ascisse e passante per il punto y0 sulla retta delle ordinate. Queste due rette si
incontreranno in un punto P0 del piano. Associamo dunque a (x0 , y0 ) ∈ R × R il punto
P0 . Si noti in particolare, che alla coppia (0, 0) corrisponde l’origine O .
Per via dell’identificazione che abbiamo stabilito tra il piano e il prodotto carte-
siano R × R, scriveremo con lieve abuso P0 = (x0 , y0 ). Per brevità di notazione, si
suole scrivere R2 in luogo di R × R. Possiamo concludere dicendo che un sistema di
coordinate nel piano determina una corrispondenza biunivoca tra R2 e il piano. Salvo
esplicito avviso del contrario, supporremo sempre di aver fatto una scelta di un sistema
di coordinate ortogonale e monometrico e di aver identificato R2 col piano.
Supponiamo ora di avere una funzione f : I → R dove I è un sottoinsieme di R,
ad esempio un intervallo. Un modo spesso molto efficiente di visualizzare la funzione
f è quello di disegnarne il grafico. Esso è il sottoinsieme del piano
� �
Γ(f ) = (x, f (x)) : x ∈ I .

Sia ad esempio I = [a, b]. Un tipico grafico potrebbe essere:


Funzioni 39

y✻

. . . . . . . . . . . . . . . .�
(x0 , f (x0 ))
f (x0 )
..
..

..
..

..
...
..
..

a x0 b x

Data una funzione f : I → R si ottiene perciò un sottoinsieme del piano, il suo


grafico. Quali sottoinsiemi del piano si ottengono come grafici di funzioni f : I → R e
quali sottoinsiemi invece non possono rappresentare grafici di funzioni di questo tipo?
La risposta è che i sottoinsiemi che si possono ottenere sono tutti e soli quegli insiemi
(non vuoti) Γ che godono della proprietà seguente: ogni retta verticale interseca Γ in
al più un punto. Infatti, data f : I → R ed una retta verticale di ascissa x, avremo
che essa interseca il grafico di f nel solo punto (x, f (x)) se x ∈ I ed in nessun punto
se x �∈ I . Viceversa, dato un insieme Γ del tipo detto, esiste una ed una sola funzione
f che ha Γ come grafico: basta definire I come l’insieme delle ascisse x di quelle rette
che hanno intersezione non nulla con Γ e, per ogni siffatto x, porre f (x) = y , dove
(x, y) è il punto di intersezione della retta di ascissa x con Γ.

Esempi.

(9) La funzione più semplice è forse f (x) = x, il cui grafico è naturalmente:

(10) Mettiamo subito in guardia il lettore sul fatto che, contrariamente a ciò che si
potrebbe forse pensare, non tutte le funzioni hanno grafici disegnabili. Si consideri per
40 Analisi Matematica 1

esempio la seguente funzione, nota come funzione di Dirichlet:



1 se x ∈ Q ∩ [0, 1]
D : [0, 1] → R, D(x) =
0 se x ∈ [0, 1] \ Q.
Ovviamente, non è possibile stabilire graficamente se un punto ha coordinate razionali
oppure no e quindi nessun disegno ragionevole può essere fatto del grafico di questa
funzione.
(11) Dalla discussione svolta sopra, si deduce che la circonferenza centrata nell’origine
e di raggio r non è il grafico di una funzione f : I → R in quanto tutte le rette verticali
di ascissa in (−r, r) intersecano la circonferenza in due punti.

−r r

(12) La funzione x �→ |x| ha grafico:


Funzioni 41

(13) Le funzioni x �→ x2 e x �→ x3 hanno grafici, rispettivamente:

(14) Consideriamo ora una interessante funzione, la mantissa di x, denotata (x). Essa
è definita a partire dalla parte intera [x] (cfr. ’esempio (5)) dalla relazione
(x) = x − [x].
Si osservi che naturalmente [x] = n se n ≤ x < n + 1. Il grafico di x �→ [x] sarà quindi
42 Analisi Matematica 1

La mantissa soddisfa la relazione


(x + n) = (x)
per ogni x ∈ R ed ogni n ∈ Z. Da questo deduciamo che il grafico di x �→ (x) è
ottenuto in modo semplice a partire dal grafico che si ottiene considerando solo i valori
di x in [0, 1). Per tali valori si ha infatti (x) = x in quanto [x] = 0. Dalla precedente
relazione si deduce che per x ∈ [1, 2) si ha (x) = (x−1) = x−1 perché x−1 ∈ [0, 1). In
generale, per ogni intero positivo n ed x ∈ [n, n + 1) si ha (x) = (x − n) = x − n perché
x − n ∈ [0, 1). In particolare, i valori della mantissa sono tutti compresi nell’intervallo
[0, 1). Da queste considerazioni risulta chiaro che il grafico della mantissa sarà

(15) La funzione trigonometrica x �→ sin x, definita su R, ha il grafico familiare:

e similmente il grafico di x �→ cos x, anch’essa definita su R, è

Quali sono i valori di x che corrispondono alle intersezioni con gli assi e ai valori
massimi e minimi?
Funzioni 43

(16) È bene abituarsi a saper disegnare il grafico delle funzioni definite, come si suol
dire, “a pezzi”. Anziché tentare di dare una definizione generale astrusa, consideriamo
il seguente esempio 
 3
sin(x ) se x < 0
f (x) = cos x se 0 ≤ x < π

−1 se x ≥ π.
Il grafico sarà ottenuto “incollando” varie parti di grafici di funzioni semplici.

2. Operazioni sui grafici e simmetrie.


Sia f : I → R una funzione. Fissiamo a ∈ R e ci chiediamo se le scritture
f (x + a), f (x) + a, f (ax), af (x)
definiscano in qualche senso naturale delle “nuove” funzioni. In caso affermativo, quale
legame sussiste tra f e le nuove funzioni? Ci aspettiamo che i grafici delle nuove fun-
zioni siano ottenuti dal grafico di f mediante operazioni elementari di tipo geometrico.
Esaminiamo il primo caso. Per ragioni che saranno chiare tra breve, conviene
considerare piuttosto f (x − a) anziché f (x + a). Per poter dar senso all’espressione
f (x − a) bisogna che l’argomento x − a appartenga al dominio I ⊆ R di f . In tal caso
si avrà x − a = y per qualche y ∈ I e quindi x = y + a. Se perciò poniamo
I + a = {y + a : y ∈ I},
la formula x �→ f (x − a) ha senso per ogni x ∈ I + a e definisce una funzione. Questa
funzione si chiama la traslata di f mediante a e si denota spesso τa f . In simboli:
τa f : I + a −→ R, τa f (x) = f (x − a).
Cerchiamo ora di comprendere quale sia il legame tra il grafico Γ(f ) di f ed il
grafico Γ(τa f ) di τa f . È evidente che I + a è ottenuto traslando I di a. Se a > 0,
la traslazione sarà a destra, nel senso che I + a si ottiene spostando I a destra della
44 Analisi Matematica 1

quantità a. Questa è la ragione per considerare f (x − a) anziché f (x + a): a valori


positivi di a corrispondono traslazioni a destra. Se a < 0 la traslazione sarà a sinistra,
della quantità |a|. Se ad esempio I = (0, 1) e a = 3, allora I + a = (3, 4).

� � � � � �
0 1 3 4
( ) ( )
I ✲ I +a
Il grafico Γ(τa f ) si otterrà semplicemente traslando Γ(f ) a destra di una lunghezza a,
se a > 0. Infatti, il valore in x = y + a di τa f è uguale al valore in y di f , in quanto
τa f (y + a) = f (y).

Γ(f ) Γ(τa f )

Analizziamo ora la funzione definita da f (x) + a. Essa ha senso esattamente per


le stesse x per le quali ha senso f , cioè per x ∈ I . I valori assunti da questa funzione,
che si denota semplicemente f + a, sono traslati di a rispetto ai valori assunti da f .
Il grafico sarà quindi ottenuto traslando Γ(f ) in alto di una lunghezza a, se a > 0: i
grafici di f e di f + a sono uno sopra l’altro.

Γ(f + a)

� �

Γ(f )
Funzioni 45

Passiamo ora ad analizzare gli effetti della moltiplicazione. Innanzitutto, possiamo


supporre a �= 0. Per ragioni che saranno spiegate tra breve, consideriamo f (a−1 x)
anziché f (ax). Affinché l’espressione abbia senso, bisognerà che a−1 x ∈ I . In tal caso
a−1 x = y per qualche y ∈ I e quindi x = ay . Se perciò poniamo
aI = {ay : y ∈ I},
la formula x �→ f (a−1 x) ha senso per ogni x ∈ aI e definisce una funzione. Questa
funzione si chiama la dilatata di f mediante a e si denota spesso δa f . In simboli:
δa f : aI −→ R, δa f (x) = f (a−1 x).
Per quanto riguarda il legame tra Γ(f ) e Γ(δa f ), osserviamo innanzitutto che aI
è ottenuto dilatando I di un fattore a. Quindi, se a > 1 si avrà effettivamente
una dilatazione, mentre se a < 1 si avrà una contrazione. Questa è la ragione per
considerare f (a−1 x) anziché f (ax): a valori di a maggiori di 1 corrispondono vere e
proprie dilatazioni, cioè ingrandimentti.
La traslazione è uno spostamento rigido e quindi è insensibile alla posizione di I ,
nel senso che la posizione relativa di I e di I + a è sempre la medesima. La dilatazione
dipende invece dalla posizione di I . Sia ad esempio a = 3 e consideriamo gli intervalli
I = (0, 1/2) e J = (1, 3/2), entrambi di lunghezza 1/2. Avremo aI = (0, 3/2), mentre
aJ = (3, 9/2). Si osservi che I ∩ 3I �= ∅, mentre J ∩ 3J = ∅.

� � � � � �
0 1/2 3/2
( ) )

� � � � � �
1 3/2 3 9/2
( ) ( )

Il grafico Γ(δa f ) si otterrà dilatando Γ(f ) di un fattore a, se a > 1. Infatti, il valore


in x = ay di δa f è esattamente uguale al valore in y di f , in quanto δa f (ay) = f (y).

Γ(f )

Γ(δ2 f )

In figura sono riportati i grafici di una sinusoide e della sua dilatata di un fattore
due: il grafico viene dilatato orizzontalmente. Sotto invece, la stessa sinusoide è dilatata
di un fattore 1/2: il grafico viene compresso orizzontalmente.
46 Analisi Matematica 1

Γ(δ1/2 f )

Γ(f )

Analizziamo infine la funzione definita da af (x). Come f + a, essa ha senso per le


stesse x per le quali ha senso f , cioè per x ∈ I . I valori assunti da questa funzione,
che si denota semplicemente af , sono dilatati di a rispetto ai valori assunti da f . Il
grafico sarà quindi ottenuto dilatando Γ(f ) in verticale di un fattore a. Se a > 1, si
ha una effettiva dilatazione, mentre se a < 1 si ha una compressione. In figura sono
riportate una sua sinusoide la sua dilatata verticalmente di un fattore 2.

Γ(f )

Γ(2f )

Esaminiamo ora due proprietà di simmetria molto importanti sia dal punto di vista
teorico sia nelle applicazioni. Si tratta delle nozioni di funzione pari e funzione dispari.
Per evitare inutili complicazioni formali, è bene considerare sin dall’inizio funzioni
definite su insiemi simmetrici, nel senso che chiariamo immediatamente:
Definizione 2.1. Un sottoinsieme S di R si dirà simmetrico rispetto all’origine
se vale la seguente proprietà: x ∈ S ⇐⇒ −x ∈ S . Un sottoinsieme S di R si dirà
simmetrico rispetto al punto x0 ∈ R se S − x0 = {s − x0 : s ∈ S} è simmetrico rispetto
all’origine.
Sono ovviamente simmetrici rispetto all’origine gli intervalli del tipo [−a, a], ma an-
che insiemi che non contengono l’origine, come ad esempio (−b, −a)∪(a, b). L’intervallo
S = [1, 3] è simmetrico rispetto al punto x0 = 2 in quanto il traslato S −2 = [1, 3]−2 =
[−1, 1] è simmetrico rispetto all’origine. Ci interesseremo primariamente di insiemi
simmetrici rispetto all’origine, ma altre simmetrie possono essere utili.
Definizione 2.2. Sia I ⊆ R un insieme simmetrico rispetto all’origine e sia f :
I → R una funzione. Diremo che f è una funzione pari se
f (−x) = f (x) per ogni x ∈ I,
Funzioni 47

e diremo invece che f è una funzione dispari se


f (−x) = −f (x) per ogni x ∈ I.

Esempi.
(17) Il prototipo di funzione pari è dato da una potenza pari di x. In effetti se
f (x) = x2n con n ∈ N, allora evidentemente (−x)2n = x2n per ogni x ∈ R. Anche
la funzione |x| è chiaramente pari. Il prototipo di funzione dispari è invece dato da
una potenza dispari di x. In effetti se f (x) = x2n+1 con n ∈ N, allora evidentemente
(−x)2n+1 = −(x2n+1 ). Naturalmente, tutte le potenze, pari e dispari, sono definite su
tutto R che è un insieme simmetrico rispetto all’origine.
(18) Altri esempi canonici di funzioni simmetriche si ottengono dalla trigonometria: è
pari il coseno e sono dispari il seno e la tangente.
Il grafico di una funzione pari è simmetrico rispetto all’asse y : la parte sinistra del
grafico (ascisse negative) è l’immagine speculare della parte destra. Ad esempio

è l’aspetto di una tipica funzione pari. Per ottenere la parte sinistra del grafico di una
funzione dispari è necessario rifletterne la parte destra due volte: prima nell’asse x
e poi nell’asse y . Oppure, più semplicemente, la si riflette rispetto all’origine. Una
funzione dispari è quindi del tipo:
Si osservi che se l’origine appartiene all’insieme I , allora la richiesta f (x) = f (−x) si
riduce, per x = 0, all’identità f (0) = f (0), che è sempre verificata. In altri termini, se
f è pari su un insieme che contiene l’origine, possiamo modificarne il valore nell’origine
in modo arbitrario ed essa rimarrà pari. La richiesta f (x) = −f (−x) si riduce invece,
per x = 0, all’uguaglianza f (0) = −f (0), che implica f (0) = 0. Quindi, se f è dispari
su un insieme che contiene l’origine, necessariamente f (0) = 0.
In generale, una funzione, quand’anche definita su un insieme simmetrico rispetto
all’origine, non sarà né pari né dispari. Ad esempio, la funzione f (x) = x3 + x2 è
definta su R ma f (1) = 2 e f (−1) = 0 e quindi non è né pari né dispari. Si noti
peraltro che f è la somma di una funzione pari, cioè x �→ x2 , e di una funzione dispari,
48 Analisi Matematica 1

cioè x �→ x3 . Come appureremo nella Proposizione 2.4, ogni funzione definita su un


insieme simmetrico rispetto all’origine si può esprimere in modo unico come la somma
di una funzione pari e di una funzione dispari.
Definizione 2.3. Sia I ⊆ R simmetrico rispetto all’origine e sia f : I → R. Le
funzioni fp e fd definite su I dalle formule:
1 1
(2.6) fp (x) = (f (x) + f (−x)) , fd (x) = (f (x) − f (−x))
2 2
si chiamano, rispettivamente, parte pari e parte dispari di f .
Le proprietà di fp e fd sono descritte nella proposizione che segue.

Proposizione 2.4. Sia I ⊆ R simmetrico rispetto all’origine e sia f : I → R.


Allora fp è pari, fd è dispari e f = fp + fd . Questa decomposizione è unica, nel senso
che se f = p + d con p, d : I → R funzioni rispettivamente pari e dispari, allora p = fp
e d = fd .
Dimostrazione. Innanzitutto, abbiamo
1
fp (−x) = (f (−x) + f (x)) = fp (x)
2
1
fd (−x) = (f (−x) − f (x)) = −fd (x)
2
per ogni x ∈ I . Ciò prova che fp è pari e fd è dispari. Inoltre, per ogni x ∈ I si ha
1 1
fp (x) + fd (x) = (f (x) + f (−x)) + (f (x) − f (−x)) = f (x),
2 2
ed anche il secondo asserto è provato. Infine, si supponga f = p + d, con p, d : I → R
funzioni rispettivamente pari e dispari. Allora per ogni x ∈ I si ha
1 1
fp (x) = (f (x) + f (−x)) = (p(x) + d(x) + p(−x) + d(−x)) = p(x)
2 2
Funzioni 49

in quanto p(x) = p(−x) e d(x) = −d(−x). Similmente, per ogni x ∈ I si ha


1 1
fd (x) = (f (x) − f (−x)) = (p(x) + d(x) − p(−x) − d(−x)) = d(x),
2 2
come volevasi. �
Esempi.
(19) Riprendiamo in esame la funzione f (x) = x3 + x2 . Abbiamo già osservato che
x �→ x2 è pari, mentre x �→ x3 è dispari. In virtù della proposizione precedente,
possiamo concludere che fp (x) = x2 e fd (x) = x3 .
(20) Consideriamo ora la funzione


 2 se x ≤ −1



−2x se −1<x<0
f (x) = 2(x2 − 1) se 0≤x≤1



 x−1 se 1<x≤2


1 se 2 < x.
Il grafico di f è:

Abbiamo marcato con un cerchio pieno il punto (0, −2) = (0, f (0)) che appartiene al
grafico e marcato con un cerchio vuoto il punto (0, 0) che non è sul grafico.
Questo tipo di convenzione grafica sarà adottata anche nel seguito, quando sia
necessario chiarire situazioni analoghe a questa.
Il dominio di f è R, ovviamente simmetrico rispetto all’origine. Ha quindi senso
cercare di determinare fp , fd e di disegnarne i grafici. È chiaro che conviene analizzare
le formule che definiscono fp e fd separatamente nei seguenti sottoinsiemi di R:
(−∞, −2), {−2}, (−2, −1), {−1}, (−1, 0), {0}.
Saranno poi considerazioni di simmetria a guidare l’analisi nell’insieme (0, +∞). Ini-
ziamo col determinare fp in (−∞, −2). Se x ∈ (−∞, −2), allora −x ∈ (2, +∞).
50 Analisi Matematica 1

Quindi f (x) = 1 e f (−x) = 1/2. La formula (2.6) fornisce pertanto:


1 1 3
fp (x) = (f (x) + f (−x)) = (2 + 1) = .
2 2 2
Per quanto riguarda il punto −2, il valore f (2) è ottenuto calcolando x − 1 in x = 2,
cioè f (2) = 1. Quindi
1 1 3
fp (2) = (f (−2) + f (2)) = (2 + 1) = .
2 2 2
Ragionando similmente per i rimanenti insiemi, avremo:
1 1
fp (x) = (2 + ((−x) − 1)) = (1 − x) , x ∈ (−2, −1)
2 2
1
fp (−1) = (2 + 0) = 1
2
1� � �� � �
fp (x) = −2x + (−x)2 − 1 = x2 − x − 1 , x ∈ (−1, 0)
2
1
(2.7) fp (0) = (f (0) + f (−0)) = f (0) = −1
2
Per simmetria, ossia facendo ricorso al fatto che fp (x) = fp (−x), si ottiene l’espressione
di fp in (0, +∞). Il lettore è invitato a verificare in tutti i dettagli che


 3/2 se x ≤ −2



 (1 − x) /2 se − 2 < x ≤ −1



 2
x − x − 1 se − 1 < x < 0
(2.8) fp (x) = −2 se x = 0


x + x − 1 se 0 < x < 1
 2



 (1 + x)/2 se 1 ≤ x < 2



3/2 se x ≥ 2
e che la funzione qui scritta è effettivamnete pari. Con le convenzioni grafiche stabilite
sopra, il suo grafico è presto disegnato:
Funzioni 51

Calcoli del tutto analoghi conducono alla seguente espressione esplicita di fd :




 1/2 se x ≤ −2



 (3 + x) /2 se − 2 < x ≤ −1



 2
−x − x + 1 se − 1 < x < 0
(2.9) fd (x) = 0 se x = 0



 2
x −x−1 se 0 < x < 1



 (x − 3)/2 se 1 ≤ x < 2



−1/2 se x ≥ 2.
Il grafico di fd è:

Il lettore è invitato a fare ancora qualche verifica: in primo luogo, che le formule per
fd conducono alla funzione ora scritta, in secondo luogo che quest’ultima sia dispari,
e infine che effettivamente fp + fd = f . D’altra parte, utilizzando ancora una volta la
Proposizione 2.4, sappiamo che se (2.8) e (2.9) definiscono rispettivamente una funzione
pari ed una dispari e se la loro somma è f , allora sono necessariamente fp e fd .
Ancora qualche osservazione. Se f è definita su un insieme che contiene l’origine,
allora il calcolo svolto in (2.7) è del tutto generale. Unitamente all’osservazione già
fatta che una funzione dispari si annulla in zero , abbiamo le formule
fp (0) = f (0), fd (0) = 0.
Le funzioni pari e dispari si comportano rispettivamente come il segno più e il segno
meno rispetto al prodotto e alla somma: il prodotto (oppure la somma) di due funzioni
pari è sempre pari; il prodotto di due funzioni dispari è sempre pari mentre la loro
somma è dispari; il prodotto di una funzione pari per una dispari è sempre dispari;
la somma di una funzione pari e di una dispari è... qualunque cosa, come abbiamo
appena imparato.
52 Analisi Matematica 1

3. Funzioni surgettive, iniettive e bigettive.


In questa sezione vogliamo discutere due nozioni generali: la nozione di applicazione
surgettiva e quella di applicazione iniettiva. Se f : A → B è una applicazione, l’insieme
im (A) := {f (a) : a ∈ A},
denotato spesso anche con f (A), si chiama l’immagine di A mediante f , oppure
l’immagine di f . Si osservi che naturalmente f (A) ⊂ B ma in generale f (A) �= B .

f
A ✲ im (A)

Ad esempio, la funzione f : Z → N definita da f (n) = n2 ha come immagine i quadrati


perfetti e siccome non tutti i numeri naturali sono quadrati perfetti si ha f (Z) �= N.
Definizione 3.1. Sia f : A → B una applicazione. Diremo che f è surgettiva se
f (A) = B , ossia se per ogni b ∈ B esiste a ∈ A tale che f (a) = b.

f
A ✲ f (A) = B
Funzioni 53

Utilizzando i quantificatori logici, la definizione precedente può essere formulata cosı̀


(3.10) ∀b∈B ∃ a ∈ A t.c. f (a) = b.
Come già osservato nel primo capitolo, quando si introduce un concetto matematico
mediante una definizione, è opportuno essere in grado di scrivere la formulazione esatta
anche della sua negazione. Se ad esempio ci chiediamo se una certa funzione sia surget-
tiva o meno, sarà utile sapere che cosa significa essere non surgettiva, ossia non essere
surgettiva. Nella fattispecie, è chiaro che una applicazione f : A → B non è surgettiva
se f (A) �= B , cioè se l’immagine di f è strettamente contenuta in B , cioè ancora se vi
sono elementi di B (almeno uno!) che non fanno parte di f (A) e sono quindi diversi
da tutti quelli del tipo f (a):
(3.11) ∃ b ∈ B t.c. ∀ a ∈ A si ha f (a) �= b.
Si osservi che in (3.11) i quantificatori ∀ ed ∃ hanno, per cosı̀ dire, scambiato i loro
ruoli rispetto a (3.10). Questo è un fatto di natura generale su cui il lettore è invitato
a riflettere, ma la cui discussione dettagliata esula dagli scopi di questi appunti.
Definizione 3.2. Diremo che l’applicazione f : A → B è iniettiva se essa manda
punti distinti in punti distinti, ossia se dati comunque a1 , a2 ∈ A con a1 �= a2 risulta
f (a1 ) �= f (a2 ).

a1 � ✲ � f (a1 )

a2 � ✲ � f (a2 )

Nella definizione di mappa iniettiva compare l’implicazione: a1 �= a2 ⇒ f (a1 ) �= f (a2 ).


Essa può essere riscritta in modo forse più agile mediante la sua versione contronomi-
nale, ossia f (a1 ) = f (a2 ) ⇒ a1 = a2 . Quest’ultima facilita anche la comprensione di
che cosa significhi negare l’iniettività: una applicazione f non è iniettiva ogniqualvolta
∃ a1 , a2 ∈ A, a1 �= a2 t.c. f (a1 ) = f (a2 ).
Una funzione non iniettiva presenterà cioè un comportamento del tipo:
54 Analisi Matematica 1

a1 �   



✿ �

f (a1 ) = f (a2 )✘③

✘✘
✘ ✘✘✘
✘✘✘✘
� ✘✘✘
✘ ✘
a2

Per chiarire ulteriormente i concetti di applicazione iniettiva e surgettiva, è utile


introdurre la nozione di controimmagine di un insieme. Se f : A → B è una appli-
cazione e se J ⊆ B , si chiama controimmagine di J mediante f l’insieme di quei punti
di A che vengono mandati in J da f :

f −1 (J) = {a ∈ A : f (a) ∈ J} ⊆ A.

In particolare, se J consiste di un solo punto, se cioè J = {b}, l’insieme f −1 ({b}) è


formato da quei punti a ∈ A tali che f (a) = b.
Come abbiamo già implicitamente osservato, una funzione iniettiva ha la proprietà
che le controimmagini dei punti sono insiemi formati (al più) da un punto solo. Se
infatti per un qualche b ∈ B risultasse f −1 ({b}) ⊇ {a1 , a2 }, dove a1 �= a2 , allora, per
definizione, si avrebbe f (a1 ) = b = f (a2 ), contro l’ipotesi che f è iniettiva. Natural-
mente può benissimo capitare che f −1 ({b}) = ∅, cioè che nessun elemento di A venga
mandato da f in b. In questo caso si verifica esattamente ciò che è scritto in (3.11),
cioè che f non è surgettiva.
Le osservazioni appena fatte ci consentono di interpretare iniettività e surgettività
nel contesto che ci interessa di più, quello delle funzioni f : I ⊆ R → R. Se f è una
siffatta funzione e se Γ(f ) è il suo grafico, le controimmagini dei punti si trovano in
modo semplicissimo. Sia y0 ∈ R una ordinata. La controimmagine f −1 ({y0 }) è, per
definizione, l’insieme delle ascisse x ∈ I tali che f (x) = y0 . Quindi

f −1 ({y0 }) = {x ∈ I : (x, y0 ) ∈ Γ(f )}.

In altre parole, per determinare f −1 ({y0 }) basta tracciare la retta parallela all’asse x
di ordinata y0 e considerare tutti i punti in cui tale retta intercetta il grafico di f . La
controimmagine di y0 non sarà altro che l’insieme delle ascisse dei punti trovati.
Funzioni 55


y1

y0 � �
.. ..

.. ..
.. ..

.. ..
.. ..
.. ..
.� .�
.. ..

a x1 x2 b
f −1 ({y0 }) = {x1 , x2 }, f −1 ({y1 }) = ∅

In conclusione, una funzione risulta iniettiva se ogni retta orizzontale interseca il


grafico in al più un punto, mentre essa risulta surgettiva se ogni retta orizzontale1
interseca il grafico in almeno un punto. La funzione dell’esempio in figura non è né
iniettiva (infatti f −1 ({y0 }) = {x1 , x2 }) né surgettiva (infatti f −1 ({y1 }) = ∅).
Definizione 3.3. Sia f : A → B una applicazione. Diremo che f è bigettiva se
essa è iniettiva e surgetiva. In questo caso si dice anche che f stabilisce una bigezione,
oppure corrispondenza biunivoca, tra A e B .
Nel Capitolo 2 abbiamo descritto la corrispondenza tra numeri reali e retta. Con il
linguaggio appena introdotto possiamo dunque dire che la scelta di due punti su una
retta consente di stabilire in modo canonico una bigezione tra i due insiemi.
Esempi.
(21) La funzione f : [0, 1] → [0, 1] definita da x �→ x è una bigezione. Naturalmente
anche x �→ xn stabilisce una bigezione di [0, 1] in [0, 1] per ogni intero positivo n.
(22) La mappa ϕ : [−π/2, π/2] → [−1, 1] definita da ϕ(x) = sin(x) è una bigezione.
È invece chiaro che f (x) = sin x, ossia la mappa su tutto R definita da x �→ sin x non
è bigettiva in quanto non è iniettiva: sin(x) = sin(x + 2kπ) per ogni k ∈ Z.

4. Elementi di calcolo combinatorio.


Nella precedente sezione abbiamo introdotto il concetto di bigezione tra insiemi.
Consideriamo una coppia A e B di insiemi finiti con lo stesso numero di elementi. È
evidente che si potrà definire almeno una bigezione tra A e B . Ad esempio gli insiemi
A = {1, 2, 3} e B = {Tizio, Caio, Sempronio} hanno lo stesso numero di elementi, cioè
tre. Una possibile bigezione tra A e B è
1 �→ Tizio, 2 �→ Caio, 3 �→ Sempronio.
1Questa caratterizzazione grafica della surgettività si riferisce al caso di una f : I → R ; se
f : I → J , le rette orizzontali da considerare sono solo quelle con ordinata in J . Si veda la discussione
svolta nella Sezione 7.
56 Analisi Matematica 1

Essa non è certamente l’unica bigezione possibile. Il lettore può facilmente verificare
che ve ne sono esattamente 6. Naturalmente, è lecito pensare che vi sia una formula
generale che esprima il numero di bigezioni tra insiemi che hanno lo stesso numero di
elementi, ed è anche ovvio che da questo punto di vista non c’è ragione per suppore
che i due insiemi siano diversi: la formula cercata, se c’è, dipenderà solo dal numero n
di elementi e si potrà quindi supporre A = B = {1, 2, . . . , n}.
Il computo del numero di bigezioni di un insieme di n elementi in sè è il prototipo
di problema del Calcolo Combinatorio, quella branca della Matematica che si occupa
in generale di problemi di conteggio. Di molti insiemi si sa infatti a priori che sono
costituiti da un numero finito di elementi, ma la determinazione del numero esatto
di essi può presentare delle difficoltà: è sorprendente la varietà e vastità dei problemi
di conteggio che sorgono nelle discipline tecnico-scientifiche. Per ragioni che hanno
in parte a che vedere con lo sviluppo dell’informatica, il Calcolo Combinatorio è un
settore di ricerca estremamente attivo. Ci limiteremo qui a presentare alcune formule
elementari di frequente utilizzo.

4.1. Bigezioni di un insieme, o permutazioni. Il primo problema di conteggio


che affrontiamo è quello già formulato sopra: quante sono le bigezioni di un insieme di
n elementi in se stesso? Per semplicità possiamo pensare che l’insieme sia costituito
dai primi n interi positivi. Trattando problemi di natura combinatoria, adotteremo
pertanto la notazione
In = {1, 2, . . . , n}.
Vogliamo contare quante sono tutte le possibili bigezioni σ : In → In . Chiaramente, vi
sono n possibili modi per definire il valore σ(1), cioè tutti i possibili numeri 1, 2, . . . , n.
Per ogni scelta di σ(1), rimangono esattamente n − 1 numeri a disposizione per poter
definire σ(2) in modo da rispettare l’iniettività di σ , cioè in modo che sia σ(2) �= σ(1).
Vi sono pertanto n(n − 1) scelte possibili per la coppia (σ(1), σ(2)). Per ogni scelta
compiuta di tali valori , rimangono esattamente n − 2 numeri a disposizione per poter
definire σ(3) in modo che sia σ(3) �∈ {σ(1), σ(2)}. Vi sono pertanto n(n − 1)(n − 2)
scelte possibili per la terna (σ(1), σ(2), σ(3)). Il lettore avrà già immaginato che il
numero di possibili bigezioni è il numero
n! = n(n − 1)(n − 2) · · · 3 · 2 · 1,
che si legge n fattoriale. Per esprimere in modo coerente varie formule che appaiono
in matematica, si pone 0! = 1 per definizione. Riportiamo i primi valori del fattoriale.
Essi diventano molto grandi al crescere di n:
0! = 1 5! = 120
1! = 1 6! = 720
2! = 2 7! = 5.040
3! = 6 8! = 40.320
4! = 24 9! = 362.880
Funzioni 57

È costume chiamare permutazione di n elementi una bigezione di un insieme di


n elementi in sè, e indicare mediante Pn il numero di tali permutazioni. Abbiamo
pertanto dimostrato l’uguaglianza
Pn = n!
Si osservi che dalla definizione segue in modo ovvio la proprietà
(4.12) n! = (n − 1)! n
Essa ha anche una semplice interpretazione dal punto di vista del calcolo del numero
delle permutazioni: per ciascuna delle n possibili scelte per σ(n), vi sono (n−1)! modi
per scegliere i rimanenti σ(1), . . . , σ(n − 1).

4.2. Mappe iniettive, o disposizioni. Ci poniamo ora il problema: quante sono


le mappe iniettive da Ik a In ? A ben riflettere, una mappa iniettiva δ : Ik → In si
descrive semplicemente mediante la lista δ(1), δ(2), . . . , δ(k). L’ipotesi di iniettività
consiste semplicemente nell’assumere che gli elementi δ(1), δ(2), . . . , δ(k) siano tutti
distinti, e quindi dovremo in particolare supporre che si abbia k ≤ n. Una lista di k
elementi distinti scelti tra n elementi si dice una disposizione di n oggetti presi k alla
volta, oppure in sequenze di k . Denotiamo con Dn,k il numero di tali disposizioni.
Vi sono n modi per scegliere δ(1), gli n elementi di In . Per ogni scelta di δ(1)
abbiamo n − 1 modi per sceglere δ(2). Vi sono pertanto n(n − 1) possibili scelte per la
coppia (δ(1), δ(2)). È evidente che possiamo arguire in modo assolutamente analogo al
caso del computo delle permutazioni, con la differenza che quando abbiamo effettuato
le prime k scelte il processo termina. Avremo pertanto
Dn,k = n(n − 1)(n − 2) · · · = n(n − 1)(n − 2) · · · (n − k + 1).
� �� �
k termini

La formula precedente può anche essere riscritta nella forma


n!
(4.13) Dn,k =
(n − k)!
per la semplice ragione algebrica
� �� �
n! = n(n − 1) · · · (n − k + 1) (n − k)(n − k − 1) · · · 2 · 1 = Dn,k · (n − k)!
La (4.13) ha peraltro un’interpretazione combinatoria: per formare una permutazione
di n elementi, possiamo dapprima scegliere k elementi, ossia formare una disposizione,
e poi scegliere i rimanenti n − k . Quindi Pn sarà uguale al numero di possibili per-
mutazioni di n − k elementi per ogni disposizione in sequenze di k . Ciò equivale alla
formula
(4.14) Pn = Pn−k Dn,k ,
che è una ulteriore versione di (4.13). Si noti la coerenza: se k = n, allora Dn,n
deve essere uguale a Pn dal punto di vista combinatorio, in quanto una disposizione in
sequenze di n è esattamente una permutazione di n elementi. D’altra parte, abbiamo
posto 0! = 1, ossia Pn−n = P0 = 1. Dunque, la formula (4.14) vale anche nel caso
k = n, cosı̀ come la formula (4.13).
58 Analisi Matematica 1

4.3. Mappe qualunque, o disposizioni con ripetizione. Ci poniamo ora il


problema di calcolare il numero totale di mappe R : Ik → In , abbandonando cioè
l’ipotesi di iniettività e in particolare l’ipotesi k ≤ n. Per ragioni che dovrebbero
essere a questo punto chiare, una mappa R : Ik → In si dice una disposizione con
ripetizione di n elementi presi k alla volta, oppure in sequenze di k . Il loro numero
r r
complessivo si denota Dn,k . Il calcolo di Dn,k è molto semplice. Ci sono n scelte per
R(1); per ogni siffatta scelta ci sono ancora n scelte per R(2), e cosı̀ via. Si ottiene
dunque
r
Dn,k = nk .
Un’applicazione della formula precedente ai pronostici sportivi: date k partite, indovi-
nare per ciascuna di esse se vincerà la squadra di casa (simbolo 1), la squadra ospite
(simbolo 2), oppure se l’incontro terminerà in un pareggio (simbolo X ). Si tratta di
scegliere una mappa che a ciascuna delle k partite assegni uno dei tre simboli 1, X, 2.
r
Il numero dei possibili pronostici è quindi D3,k , di cui riportiamo il valore nei casi
k = 9, k = 13 e k = 14:
r
D3,9 = 39 = 19.683
r
D3,13 = 313 = 1.594.323
r
D3,14 = 314 = 6.377.292.

4.4. Sottoinsiemi di un insieme, o combinazioni. Vogliamo ora determinare


il numero di sottoinsiemi di In costituiti da k elementi. Dobbiamo nuovamente as-
sumere k ≤ n. Un sottoinsieme di k elementi si dice una combinazione di n elementi
presi k alla volta ed il numero complessivo di esse si indica con Cn,k . Il calcolo di
Cn,k può essere fatto in molti modi. Un modo rapido consiste nell’osservare che una
combinazione è una disposizione in cui si sia “dimenticato” l’ordine. In altre parole, se
si pensano le disposizioni (di n elementi in sequenze di k ) come mappe iniettive e si
identificano tra loro tutte le k! disposizioni le cui immagini coincidono, si individua in
modo unico il particolare sottoinsieme costituito dagli elementi dell’immagine. In altre
parole, avremo
Dn,k n!
Cn,k = = .
k! k!(n − k)!
Il numero appena trovato si chiama in matematica coefficiente binomiale per ragioni
che saranno chiarite tra breve. Esso è definito dalla formula
� �
n n!
=
k k!(n − k)!
e si legge “n su k ” oppure, all’inglese, “n choose k ”. Abbiamo pertanto dimostrato
� �
n
Cn,k = .
k
Un’applicazione semplice della formula ora ottenuta riguarda le estrazioni di lotte-
ria. Una estrazione di k numeri su n numeri è evidentemente la scelta di un sottoin-
sieme di k elementi di In . Quindi il numero di possibili estrazioni è proprio Cn,k . Ad
Funzioni 59

esempio, il numero di sestine scelte tra 90 numeri è


90! 90 · 89 · 88 · 87 · 86 · 85
C90,6 = = = 622.614.630.
6!84! 720
I coefficienti binomiali godono di una sorprendente quantità di proprietà notevoli.
Ci limitiamo ad indicarne alcune tra le più rilevanti. Innanzitutto, la simmetria
� � � �
n n
= .
k n−k
Come spesso accade in Calcolo Combinatorio, questa formula ha una doppia interpre-
tazione, quella meramente algebrica e quella, appunto, combinatoria. Algebricamente
essa è ovvia: � � � �
n n! n
= = .
n−k k!(n − k)! k
Dal punto di vista del problema di conteggio associato, è altrettanto chiara: ad ogni
sottoinsieme formato da k elementi corrisponde il suo complementare, che è formato da
n − k elementi. Quindi Cn,k = Cn,n−k . Lasciamo al lettore la (doppia) dimostrazione
delle semplici formule:
� � � � � � � �
n n n n
(4.15) = = 1, = = n.
n 0 1 n−1
Un poco meno semplice è la dimostrazione della formula seguente, nota come formula
di Stiefel: � � � � � �
n n−1 n−1
= + .
k k−1 k
In effetti dal punto di vista algebrico abbiamo, utilizzando varie volte (4.12)
� � � �
n−1 n−1 (n − 1)! (n − 1)!
+ = +
k−1 k (k − 1)!(n − k)! k!(n − k − 1)!
k(n − 1)! + (n − k)(n − 1)!
=
k!(n − k)!
n(n − 1)!
=
k!(n − k)!
� �
n
= .
k
Dal punto di vista combinatorio, la formula di Stiefel si interpreta come segue. Si
possono suddividere i sottoinsiemi di k elementi di In in due classi. La prima classe
è formata da quelli che non contengono n, che sono in numero uguale al numero dei
sottoinsiemi di k elementi di In−1 , ossia Cn−1,k . La seconda classe è formata da quelli
che invece contengono n, che sono in numero uguale al numero dei sottoinsiemi di In−1
che contengono k − 1 elementi, perchè uno è già stato scelto, e quindi tolto; questi
ultimi sono Cn−1,k−1 . Dal punto di vista combinatorio abbiamo quindi
Cn,k = Cn−1,k + Cn−1,k−1 ,
che si traduce nella formula di Stiefel.
60 Analisi Matematica 1

Riportiamo in una tabella i valori di Cn,k per n ≤ 5. Il lettore riconoscerà il


rinomato triangolo di Tartaglia, che serve per costruire i coefficienti nello sviluppo del
binomio (a + b)n . Come noto, ogni riga è ottenuta dalla precedente sommando valori
adiacenti, ossia utilizzando proprio la formula di Stiefel.

n\k 0 1 2 3 4 5

1 1 1
2 1 2 1
3 1 3 3 1
4 1 4 6 4 1
5 1 5 10 10 5 1

Passiamo ora ad enunciare e dimostrare un celeberrimo risultato, che giustifica il


termine “coefficiente binomiale”. Adottiamo la convenzione a0 = 1 se a �= 0.
Proposizione 4.1. Per ogni a, b ∈ R \ {0} e per ogni n intero positivo si ha
� n � �
n n n−k k
(a + b) = a b ,
k=0
k
detta la formula del binomio di Newton.
Dimostrazione. Proviamo l’asserto mediante il principio di induzione. Innanzitutto,
la formula è vera per n = 1 in quanto a destra si legge
� � � �
1 1 0 1 0 1
ab + a b = a + b.
0 1
Supponiamo ora che la formula del binomio sia vera per l’esponente n. Allora
(a + b)n+1 = (a + b)n (a + b)
� n � � �
� n
= an−k bk (a + b)
k=0
k
� �n �
n �n � �
n n−k k+1
n+1−k k
= a b + a b .
k=0
k k=0
k
Consideriamo separatamente i due addendi. Il primo si riscrive
�n � � � � n � � n � �
n n+1−k k n n+1 0 � n n+1−k k n+1
� n n+1−k k
a b = a b + a b =a + a b .
k=0
k 0 k=1
k k=1
k
Per il secondo, traslando gli indici, ossia ponendo j = k + 1, si ottiene
�n � � n−1 � � � �
n n−k k+1 � n n−k k+1 n 0 n+1
a b = a b + ab
k=0
k k=0
k n
�n � �
n
= an+1−j bj + bn+1 .
j=1
j−1
Funzioni 61

Quindi, chiamando nuovamente k l’indice muto j , sommando i due membri e utiliz-


zando la formula di Stiefel, otteniamo
�n �� � � ��
n+1 n+1 n n
(a + b) =a + + a(n+1)−k bk + bn+1
k=1
k k − 1
�n � �
n+1 n + 1 (n+1)−k k
(Stiefel) = a + a b + bn+1
k=1
k
� n + 1�
n+1 �
= a(n+1)−k bk ,
k=0
k
che è quanto richiesto. �
Corollario 4.2. Il numero di sottoinsiemi di un insieme di n elementi è 2n ,
laddove si contino anche l’insieme vuoto e l’insieme stesso.
Dimostrazione. Il numero di sottoinsiemi di In , compresi ∅ e In , è evidentemente
�n �n � � �n � �
n n n−k k
Cn,k = = 1 1 = (1 + 1)n = 2n .
k=0 k=0
k k=0
k

5. Funzioni monotone.
Che cosa hanno in comune i seguenti grafici?
Una risposta ragionevole è: ciascuno di essi o scende oppure sale, oppure non sale,
oppure non scende. Essi hanno un “solo tipo di comportamento”. La nozione che
andiamo ora a definire esprime in modo preciso questa unicità di andamento: è la
nozione di funzione monotona2.
Definizione 5.1. Siano f : I ⊆ R → R una funzione e J ⊆ I . Diremo che f è:
(i) crescente su J se per ogni x, y ∈ J tali che x < y si ha f (x) < f (y);
(ii) decrescente su J se per ogni x, y ∈ J tali che x < y si ha f (x) > f (y);
(iii) non decrescente su J se per ogni x, y ∈ J tali che x < y si ha f (x) ≤ f (y);
(iv) non crescente su J se per ogni x, y ∈ J tali che x < y si ha f (x) ≥ f (y).
Una funzione che soddisfi una qualunque delle precedenti proprietà di sice monotona su
J . Se J = I , essa si dirà monotona. Una funzione che soddisfi la proprietà (i) oppure
la (ii) si dice strettamente monotona su J , e strettamente monotona se J = I .
Purtroppo non vi è consenso generale sulla terminologia introdotta nella definizione
precedente. Alcuni autori utilizzano piuttosto le parole strettamente crescente per indi-
care l’implicazione x < y ⇒ f (x) < f (y) e strettamente decrescente per l’implicazione
x < y ⇒ f (x) > f (y), mentre chiamano rispettivamente crescenti oppure decrescenti
le funzioni che soddisfano le diseguaglianze deboli, come in (iii) e (iv).
2La pronuncia della parola è monotòna, ma l’accento solitamente non si scrive.
62 Analisi Matematica 1

In sintesi, la proprietà rilevante della classe delle funzioni monotone è il loro com-
portamentto rispetto alla relazione d’ordine di R: una funzione monotona trasforma
sempre coppie di punti per le quali vale “<” in coppie di punti per cui vale una tra le
relazioni “<”, “≤”, “>” oppure “≥”. Quindi preserva oppure inverte l’ordine.

Esempi.

(23) Sono crescenti su R le funzioni x �→ x, x �→ x3 e, in generale, ogni potenza


dispari d(x) = x2n+1 con n intero positivo. Le funzioni f (x) = ax + b sono crescenti
se a > 0 in quanto in tal caso se x < y allora ax < ay e quindi f (x) < f (y).
Analogamente, se a < 0 esse sono decrescenti. La funzione g(x) = x2 è crescente su
[0, +∞) e decrescente su (−∞, 0]. Lo stesso vale per ogni potenza pari p(x) = x2n con
n intero positivo.

(24) Le radici r(x) = x1/n con n intero positivo sono tutte crescenti sul loro dominio
[0, +∞). A ben vedere, questo fatto è conseguenza del fatto che tutte le potenze sono
crescenti sulla semiretta positiva, e verrà discusso nei dettagli nella Sezione 7.

(25) Si osservi che la somma di funzioni monotone con lo stesso tipo di monotonia,
ad esempio la somma di funzioni crescenti, è ancora monotona dello stesso tipo, in
quanto se f1 (x) < f1 (y) e f2 (x) < f2 (y) allora anche f1 (x) + f2 (x) < f1 (y) + f2 (y).
Quest’ultima diseguaglianza vale ancora se f1 (x) ≤ f1 (y) oppure se f2 (x) ≤ f2 (y).
Lasciamo al lettore la disamina di tutti i vari possibili casi.
Funzioni 63

(26) La funzione


0 se x < 0
f (x) = x se 0 ≤ x < 1

1 se 1 ≤ x

è non decrescente, ossia non decrescente su R. In effetti il grafico

mette bene in evidenza il fatto che al crescere di x l’ordinata f (x) non scende mai.
Questa f non è però crescente in quanto ad esempio 3 < 4 ma f (3) = f (4) = 1.
(27) La funzione mantissa introdotta nella Sezione (1.1) è crescente su ogni intervallo
[n, n + 1) con n ∈ Z ma non è monotona. Infatti m(3/4) > m(3/2). La funzione parte
intera è invece non decrescente, anche se costante su ogni intervallo del tipo [n, n + 1)
con n ∈ Z.
(28) Si consideri ora la funzione f (x) = 1/x. Naturalmente, in obbedienza alle nostre
consuete convenzioni, intendiamo f : I → R dove I = (−∞, 0) ∪ (0, +∞). Il grafico
di questa funzione ha il seguente aspetto
64 Analisi Matematica 1

Guardando il grafico, si vedono due rami (di iperbole), ciascuno dei quali ha andamento
decrescente. Ci chiediamo quindi se f è monotona. La risposta è no. Infatti, nonos-
tante la funzione sia decrescente nell’intervallo J = (−∞, 0) e anche nell’intervallo
K = (0, +∞) – come il lettore è invitato a verificare per esercizio – essa non è affatto
decrescente, ossia decrescente su tutto I . Infatti, tutte le ordinate f (x) corrispondenti
a x < 0 sono negative e quindi minori di tutte le ordinate f (y) corrispondenti a y > 0.
In altre parole, per tutte le coppie x, y con x < 0 < y si ha f (x) < f (y) e quindi f
non è decrescente né non crescente.
Come appena illustrato, una funzione può benissimo essere crescente su ciascuno
di due insiemi disgiunti J e K senza essere crescente su J ∪ K . È quindi necessario
specificare con chiarezza l’insieme su cui si indaga la monotonia di una funzione.
Proposizione 5.2. Se f : I ⊆ R → R è strettamente monotona, essa è iniettiva.
Dimostrazione. Supponiamo che f sia crescente. Siano x, y ∈ I con x �= y . Allora
necessariamente x < y oppure x > y . Poiché f è crescente, avremo f (x) < f (y)
nel primo caso e f (x) > f (y) nel secondo. In ogni evenienza, f (x) �= f (y) e f è
iniettiva. Il caso in cui f sia decrescente è trattato in modo analogo e viene lasciato
per esercizio. �
La proposizione precedente si sintetizza nell’implicazione: “f strettamente mono-
tona ⇒ f iniettiva”. L’implicazione opposta è invece falsa, come mostra l’Esempio (28)
discusso sopra. Infatti, la funzione f (x) = 1/x è iniettiva, ma non è monotona.

6. Composizione di funzioni.
Abbiamo spesso disegnato schematicamente le applicazioni come diagrammi. Con-
sideriamo ora un diagramma del tipo:

f g
A ✲ C ✲ D
Funzioni 65

Stiamo supponendo di avere: una applicazione f : A → C e un’altra applicazione


g : C → D . Ci chiediamo se l’idea suggerita dal diagramma di poter andare da
A a D utilizzando prima f e poi g sia sensata, ovvero se dalle due applicazioni di
partenza sia possibile crearne una nuova, concatenando le precedenti. Questo è possibile
in condizioni anche un po’ più generali. Si supponga cioè di avere le applicazioni
f : A → B e g : C → D soggette alla sola ipotesi f (A) ⊆ C .

f ✲
A f (A) g
C ✲ D

Preso allora a ∈ A, l’elemento f (a) appartiene a C per ipotesi ed ha quindi senso


considerare g (f (a)). Cosı̀ facendo possiamo associare ad ogni a ∈ A uno ed un solo
elemento di D , cioè g (f (a)). Abbiamo definito una nuova applicazione. Si noti che
nulla è detto sull’insieme B , che gioca un ruolo relativamente inessenziale. Non è
affatto chiaro che sia B ⊆ C oppure C ⊆ B ; in generale nessuna delle due relazioni è
vera, anche se naturalmenete B ∩ C �= ∅ in quanto f (A) ⊆ (B ∩ C). Formalizziamo
questa discussione nella definizione che segue.
Definizione 6.1. Siano f : A → B e g : C → D due applicazioni e si supponga
che f (A) ⊆ C . Si chiama composta di g ed f l’applicazione
g ◦ f : A −→ D, a �→ g (f (a))

Esempi.
(29) Siano f (x) = (1/x) + 2 e g(y) = (y 2 + 1)/|y − 2|. Coerentemente con la Conven-
zione (0.5), la funzione f è definita su A = R \ {0} e la sua immagine è il sottoinsieme
R \ {2} di B = R. Poiché la funzione g è a sua volta definita su C = R \ {2} = f (A),
la funzione �1 �2 � �
x
+2 +1 1 2
g ◦ f (x) = ��� 1 � � = |x| + +5
x
+ 2 − 2� x2 x
è ben definita su A = R \ {0}.
66 Analisi Matematica 1

(30) Si considerino le funzioni f : √R → R e g : [0, +∞) → [0, +∞) definite rispet-


2
tivamente da f (x) = x e g(x) = x. Ci chiediamo se hanno senso f ◦ g , g ◦ f e,
in caso affermativo, quali funzioni esse definiscano. Ora, in virtù del Teorema (1.30),
sappiamo che g([0, +∞)) = [0, +∞) ⊂ R. Quindi possiamo fare f ◦ g , ottenendo

f ◦ g(x) = f (g(x)) = (g(x))2 = ( x)2 = x
per ogni x ∈ [0, +∞). Siccome x2 ∈ [0, +∞) per ogni x ∈ R, si ha f (R) ⊆ [0, +∞),
cosicché possiamo fare anche g ◦ f , ottenendo
� √
g ◦ f (x) = g(f (x)) = f (x) = x2 = |x|
per ogni x ∈ R.

(31) Sia h : R → R definita da h(x) = x2 + 2x − 1 e sia g la radice quadrata, pensata


√ Ovviamente è possibile fare h ◦ g : [0, +∞) → R e la funzione
come nell’Esempio (30).
ottenuta è x �→ x + 2 x − 1. Viceversa però non è possibile formare la composta g ◦ h
in quanto h(R) �⊆ [0, +∞). In effetti vi sono valori di x per i quali risulta h(x)√< 0,
cioè tutti i√numeri nell’intervallo (r1 , r2 ) di estremi le due radici r1 = −1 − 2 e
r2 = −1 + 2 del polinomio x2 + 2x − 1. Si osservi che se definiamo la nuova funzione
h̃ : I → [0, +∞) mediante h̃(x) = x2 + 2x − 1 dove I = (−∞, r√1 ] ∪ [r2 , +∞) allora
effettivamente h̃(I) ⊆ [0, +∞) e la composizione g ◦ h̃(x) = x2 + 2x − 1 è ben
definita. La funzione h̃ è diversa da h, ma h̃(x) = h(x) se x ∈ I .
Motivati dall’Esempio (31), approfondiamo la nozione di composizione per includere
anche quei casi in cui una coppia di funzioni f : A → B e g : C → D non soddisfi
strettamente l’ipotesi f (A) ⊆ C ma un’ipotesi un po’ più debole, cioè f (A) ∩ C �= ∅.

g
C ✲ D

f ✲
A f (A)
Funzioni 67

In questo caso esiste certamente qualche a ∈ A, anche se magari non tutti, per il
quale è possibile fare la composizione a �→ f (a) �→ g(f (a)). In effetti, se a ∈ A
è tale che f (a) ∈ C , cioè se a ∈ f −1 (f (A) ∩ C), allora ha senso scrivere g(f (a)).
Come nell’esempio (31), potremo definire una nuova funzione f˜ che coinciderà con f
nell’insieme f −1 (f (A) ∩ C) e per la quale avrà senso la composizione g ◦ f˜.
Per sintetizzare efficacemente quanto appena discusso è utile introdurre una nozione
generale. Se f : A → B è una applicazione e se E ⊂ A è un sottoinsieme di A, la
funzione definita solo su E che associa ad e ∈ E l’elemento f (e) ∈ B si chiama la
restrizione di f a E e si denota f |E . In breve:
f |E : E −→ B, e �→ f (e).
Riprendiamo il discorso precedente, che riassumiamo nella seguente:
Convenzione 6.2. Siano f : A → B e g : C → D due applicazioni e supponiamo
che f (A)∩C �= ∅. Posto E = f −1 (f (A)∩C) scriveremo per semplicità (con lieve abuso
di notazione) g ◦ f in luogo di g ◦ (f |E ) per denotare la funzione composta x �→ g(f (x))
che è definita su E .
La precedente convenzione è coerente con la Convenzione (0.5) in quanto si stipula
che g ◦ f sia definita sul più grande insieme possibile.
Esempio.

(32) Si consideri la funzione ϕ(x) = sin(x2 ). Analizziamo f coerententemente con
le Convenzioni
� (0.5) e (6.2). Possiamo pensare, in modo inizialmente un po’ impreciso,
che ϕ = (·) ◦ sin ◦(·)2 := g ◦ f ◦ e, nel senso che la composizione sarà

x �→ x2 �→ sin(x2 ) �→ sin(x2 )
ma dobbiamo ancora determinare gli insiemi su cui sono definite e, f , g . Analizziamo
ϕ dall’esterno all’interno,√scrivendo cioè ϕ(x) = g (f (e(x))) e guardando dapprima la
composizione g ◦ f (y) = sin y . Coerententemente con le nostre convenzioni, questa
sarà definita per quelle y per le quali sin y ≥ 0. Naturalmente, sin y ≥ 0 se e solo se

y∈ [2kπ, π + 2kπ] = B.
k∈Z

Pertanto g ◦ f : B → [0, 1]. Infine, analizziamo la composizione (g ◦ f ) ◦ e. Essa


sarà ovviamente definita sull’insieme A = e−1 (B) costituito da quelle x per le quali
e(x) = x2 ∈ B . Poiché x2 ≥ 0, si ha x2 ∈ B se e solo se x2 sta in un intervallo del
tipo [2kπ, π + 2kπ] per qualche intero non negativo k , il che avviene se e solo se
�� √ √ √ √ �
x∈ [− π + 2kπ, − 2kπ] ∪ [ 2kπ, π + 2kπ] = A.
k∈N
In conclusione abbiamo:
A −→ B −→ [0, +∞) −→ [0, 1]

x �→ x2 �→ sin(x2 ) �→ sin(x2 ).
68 Analisi Matematica 1

Graficamente, risulta:

f ◦ e(x) = sin(x2 )


g ◦ f ◦ e(x) = sin(x2 )
√ √ √ √ √ √
[− 3π, − 2π] [− π, π] [ 2π, 3π]

7. Funzioni invertibili.
Sia Q il sottoinsieme di N costituito dai quadrati perfetti:
Q = {m2 : m ∈ N}.
Consideriamo la mappa S : N → Q che ad ogni intero non negativo associa il suo
quadrato: S(n) = n2 . Ci chiediamo se sia possibile definire una mappa che “torni
indietro”, ossia, nel nostro esempio, una mappa R : Q → N che applicata ad un
intero del tipo n2 restitusce n. Vogliamo cioè che la composizione R ◦ Q soddisfi
n �→ n2 �→ n. È ovvio che, se esiste, la mappa R non può essere altro che la radice

quadrata. D’altra parte, se q ∈ Q, il numero q è un numero naturale e naturalmente

succede ciò che volevamo, cioè R ◦ S(n) = n2 = n. Se avessimo considerato invece
di S l’applicazione S̃ definita mediante la stessa legge, cioè S̃(x) = x2 ma vista
come mappa S̃ : R → R, allora una R̃ : R → R che torna indietro, cioè tale che
per ogni x ∈ R si abbia R̃(S̃(x)) = x, non sarebbe esistita! Infatti, sicuramente
saremmo forzati a definire R̃(4) = 2 in quanto R̃(4) = R(22 ) = R̃(S̃(2)) = 2, ma
allora R̃(S̃(−2)) = R̃((−2)2 ) = R̃(4) = 2 �= −2.
Funzioni 69

Con i nostri consueti diagrammi il problema generale che vogliamo affrontare si


schematizza nel disegno

f

A g B

... e dall’esempio trattato sappiamo che data f : A → B non sempre esiste una mappa
g : B → A che torna indietro al punto di partenza. Per rendere precisa l’espressione
“tornare al punto di partenza”, introduciamo la seguente notazione: se A è un insieme
qualunque, si chiama identità su A la mappa idA : A → A definita da idA (a) = a per
ogni a ∈ A.
Definizione 7.1. Sia f : A → B una applicazione. Diremo che f è invertibile se
esiste una applicazione g : B → A tale che
(i) g ◦ f = idA
(ii) f ◦ g = idB .
In tal caso g si chiama l’inversa di f e si scrive g = f −1 .
Nella definizione precedente compare implicitamente una affermazione che non è
stata di fatto provata: nel dire “g si chiama l’inversa di f ” anziché “g si chiama
una inversa di f ” stiamo dicendo che g è unica. Questo fatto è un corollario della
proposizione che segue.
Proposizione 7.2. Siano f : A → B e g : B → A tali che g ◦ f = idA . Allora
f è iniettiva e g è surgettiva.
Dimostrazione. Siano a1 , a2 ∈ A tali che f (a1 ) = f (a2 ). Allora
a1 = idA (a1 ) = g ◦ f (a1 ) = g(f (a1 )) = g(f (a2 )) = g ◦ f (a2 ) = idA (a2 ) = a2 .
Quindi f è iniettiva. Sia ora a ∈ A. Siccome,
a = idA (a) = g(f (a)),
l’elemento b = f (a) soddisfa g(b) = a e quindi g è surgettiva. �
Corollario 7.3. Sia f : A → B invertibile. Allora l’inversa di f è unica.
70 Analisi Matematica 1

Dimostrazione. Supponiamo che g1 e g2 siano entrambe inverse di f . Siccome


f ◦ gi = idB , con i = 1, 2, sappiamo dalla Proposizione 7.2 che f è surgettiva. Dato
b ∈ B , sia quindi a ∈ A tale che f (a) = b. Allora
g1 (b) = g1 (f (a)) = g1 ◦ f (a) = idA (a) = g2 ◦ f (a) = g2 (f (a)) = g2 (b).
Pertanto g1 (b) = g2 (b) per ogni b ∈ B e le due applicazioni coincidono. �
Proposizione 7.4. Sia f : A → B una applicazione. Allora f è invertibile se e
solo se f è bigettiva.
Dimostrazione. Supponiamo f invertibile e sia g l’inversa di f . Dalla definizione
di invertibilità e dalla Proposizione 7.2 abbiamo:
g ◦ f = idA =⇒ f iniettiva
f ◦ g = idB =⇒ f surgettiva.
Quindi f è bigettiva. Viceversa, supponiamo f bigettiva. Dobbiamo definire una
applicazione g : B → A che soddisfi le proprietà (i) e (ii) della Definizione 7.1. Sia
b ∈ B fissato. Siccome f è surgettiva per ipotesi, esiste a ∈ A tale che f (a) = b. Tale
a è inoltre unico in quanto f è iniettiva: se f (a) = f (a� ) allora a = a� . Definiamo
allora una mappa g : B → A assegnando ad ogni b ∈ B l’unico elemento g(b) di A la
cui immagine mediante f è b. Si noti che g(f (a)) = a, perché a è l’unico elemento di
A la cui immagine mediante f è f (a), e che f (g(b)) = b in quanto g(b) = a dove a
è l’unico elemento di A per il quale f (a) = b, e quindi f (g(b)) = f (a) = b. Ne segue
che g ◦ f = idA e f ◦ g = idB , ossia che f è invertibile con inversa g . �
Esempi.
(33) Si consideri la funzione di elevamento al quadrato
q : [0, +∞) → [0, +∞), x �→ x2 .
Essa è iniettiva in quanto
x2 = y 2 =⇒ x2 − y 2 = 0 =⇒ (x − y)(x + y) = 0 =⇒ x = y oppure x = −y.
D’altra parte, a meno che x e y non siano entrambi uguali a zero, il caso x = −y
non si può dare perché x e y devono essere entrambi positivi. Perciò necessariamente
x = y e q è iniettiva. Inoltre q è surgettiva per via del Teorema 1.30: per ogni y > 0

esiste un (solo) x > 0 tale che x2 = y , ossia x = y . Quindi q è invertibile. La sua
inversa è evidentemente l’estrazione di radice quadrata:

r : [0, +∞) → [0, +∞), x �→ x.
Si faccia attenzione al fatto che la funzione s(x) = x2 invece non è invertibile. Infatti,
secondo la nostra consueta convenzione, essa è definita su R e non è ivi iniettiva.
(34) Si consideri ora la funzione

f : [0, 1] → R, x �→ 2 + 1 − x2 .
Poiché se x ∈ [0, 1] si ha x2 ∈ [0, 1], la radice è sempre ben definita. Inoltre, con la
stessa dimostrazione vista nell’esempio precedente, la funzione x �→ x2 è iniettiva su
Funzioni 71

qualunque sottoinsieme di [0, +∞). La radice è anch’essa iniettiva e x �→ x + 2 lo è in


modo ovvio. In quanto composta di funzioni iniettive,√ f è iniettiva (vedi l’Esercizio 6).
Siccome x2 ∈ [0, √ 1], anche 1 − x 2
∈ [0, 1] e 1 − x2 ∈ [0, 1], cosicché per ogni
2
x ∈ [0, 1] si ha 2 + 1 − x ∈ [2, 3], ossia f ([0, 1]) = [2, 3]. Pertanto la funzione
f˜ : [0, 1] → [2, 3], f˜(x) = f (x)
ottenuta da f ridefinendo l’insieme di arrivo è surgettiva e sicuramente anche iniettiva.
Quindi f˜ è invertibile. Calcoliamone l’inversa, ponendo per semplicità f˜(x) = y
√ √
y = 2 + 1 − x2 =⇒ y − 2 = 1 − x2
=⇒ (y − 2)2 = 1 − x2
=⇒ 1 − (y − 2)2 = x2

=⇒ 1 − (y − 2)2 = x.
Quindi siamo portati a concludere che la funzione inversa g = (f˜)−1 soddisfa

g : [2, 3] → [0, 1], g(x) = 1 − (x − 2)2 .
In effetti, tenendo presente che per ogni x ∈ [0, 1] si ha f˜(x) = f (x), per tali x avremo:

g ◦ f˜(x) = 1 − (f (x) − 2)2
� √
= 1 − (2 + 1 − x2 − 2)2
� √
= 1 − ( 1 − x2 ) 2

= 1 − (1 − x2 )
= x,
ossia g ◦ f˜ = id[0,1] . Il lettore è invitato a verificare che analogamente f˜ ◦ g = id[2,3] .
L’esempio precedente mette in evidenza alcuni aspetti non ancora discussi del pro-
blema dell’inversione. Sia f : A → B una applicazione tra insiemi qualunque. In
virtù della Proposizione 7.4 la ricerca di una eventuale inversa g : B → A ha senso
solo se f è surgettiva, ossia solo se B = f (A). D’altra parte, la richiesta di surget-
tività è innaturale se l’obbiettivo è “tornare indietro”: si può tornare solo da dove è
possibile arrivare, ossia da f (A). È pertanto legittimo riguardare f come una fun-
zione il cui insieme d’arrivo sia costituito dalla sola immagine f (A), e dimenticare la
richiesta di surgettività, ovvero renderla automatica. Nell’Esempio 34 abbiamo calco-
lato l’immagine di f , ossia f ([0, 1]) = [2, 3], e affrontato il problema di trovare una
g : [2, 3] → [0, 1] che funga da inversa.
Formalizziamo le osservazioni appena fatte. Data una mappa qualunque f : A → B
è sempre possibile definirne un’altra
(7.16) f˜ : A → f (A), f˜(a) = f (a)
che diviene automaticamente surgettiva. L’applicazione f˜ è, in generale, diversa da
f perché diverso è, a priori, l’insieme d’arrivo. Infatti in generale sarà f (A) �= B .
72 Analisi Matematica 1

L’insieme di partenza e la legge sono però le medesime e quindi si può convenire che
l’informazione contenuta in f˜ è la stessa di quella contenuta in f .
Convenzione 7.5. Data una applicazione f : A → B chiameremo applicazione
surgettiva naturale associata a f l’applicazione definita in (7.16), spesso denotata an-
cora f invece di f˜. Diremo anche che una applicazione è pensata come surgettiva per
intendere l’applicazione surgettiva naturale ad essa associata.

Sia f : I ⊆ R → R una funzione. Come discusso sopra, il problema dell’invertibiltà


di f si può riformulare in modo più naturale come una coppia di domande: f è
iniettiva? qual’è l’immagine J di f ? Se f è iniettiva, l’applicazione surgettiva naturale
ad essa associata sarà evidentemente invertibile. Supponiamo che ciò sia vero, ossia che
f sia iniettiva. Il problema successivo è come fare a calcolarne l’inversa. L’Esempio 34
mostra una tecnica standard per questo tipo di calcolo. Innanzitutto, se possibile, si
riguarda f come una composizione f = f1 ◦ f2 ◦ · · · ◦ fn di mappe, definita su J . Non
è difficile convincersi del fattto che esse sono tutte necessariamente iniettive: se una
di esse non fosse iniettiva, non sarebbe iniettiva neppure f . Ciascuna di esse è quindi
invertibile sull’insieme opportuno. Si pone allora y = f (x) e si calcola:
y = f1 (f2 ◦ · · · ◦ fn (x)) =⇒ f1−1 (y) = f2 ◦ · · · ◦ fn (x)
=⇒ f2−1 (f1−1 (y)) = f3 ◦ · · · ◦ fn (x)
=⇒ f2−1 ◦ f1−1 (y) = f3 ◦ · · · ◦ fn (x)
=⇒ . . .
=⇒ fn−1 ◦ · · · ◦ f2−1 ◦ f1−1 (y) = x,
invertendo, per cosı̀ dire, dall’esterno all’interno. In formule, abbiamo provato che
(f1 ◦ f2 · · · ◦ fn )−1 = fn−1 ◦ · · · ◦ f2−1 ◦ f1−1 .
Discutiamo infine l’aspetto grafico del problema dell’inversione, ossia di come sia
posizionato Γ(f −1 ) rispetto a Γ(f ). Verifichiamo cioè che i grafici Γ(f −1 ) e Γ(f ) sono
l’uno il simmetrico dell’altro rispetto alla bisettrice y = x.
Funzioni 73

Sia infatti f : I → J una funzione invertibile con inversa f −1 : J → I . Se


(x, y) ∈ Γ(f ), allora x ∈ I , y ∈ J e y = f (x). Quindi f −1 (y) = f −1 (f (x)) = x e
(y, x) = (y, f −1 (y)) ∈ Γ(f −1 ). In altre parole abbiamo provato che se (x, y) ∈ Γ(f ),
allora (y, x) ∈ Γ(f −1 ). È del tutto ovvio che scambiando i ruoli di f e f −1 si ottiene
l’implicazione opposta. In conclusione,
(x, y) ∈ Γ(f ) ⇐⇒ (y, x) ∈ Γ(f −1 ),
che è quanto si voleva mostrare. Concludiamo questa sezione con un semplice ed utile
risultato, la cui dimostrazione è lasciata per esercizio.
Proposizione 7.6. L’applicazione surgettiva naturale associata ad una funzione
crescente (risp. decrescente) ha inversa crescente (risp. decrescente).

8. Esponenziali e logaritmi.
Le funzioni esponenziali che introduciamo in questa sezione costituiscono una classe
di fondamentale importanza in matematica. In sintesi, esse sono le funzioni x �→ ax ,
dove a è un numero positivo fissato e x ∈ R. La ragione del termine esponenziale
risiede evidentemente nel fatto che la variabile gioca il ruolo di esponente, mentre la
base è fissata. La definizione di ax è piuttosto delicata, ed avviene per passi.
Esponente intero positivo, base qualunque. Abbiamo visto nella Sezione 7 il
significato dell’espressione an per a ∈ R e n ∈ N∗ intero positivo. Ricordiamo che
an = a
� · a��· · · a� .
n volte
n n
e che a > 0 se a > 0, mentre 0 = 0 per ogni intero positivo. Valgono evidentemente
le proprietà
(8.17) an+m = an am ,
(8.18) (an )m = anm
per ogni a ∈ R e per ogni coppia di interi positivi n, m.
Esponente intero, base non nulla. Sia ora a �= 0 e sia n ∈ Z. Vogliamo
estendere la definizione di an al caso in cui sia n ≤ 0. Poniamo allora:

n 1 se n = 0
a = 1
a−n
se n < 0.
La definizione funziona, in quanto se n < 0 allora −n è un intero positivo e quindi
a−n definisce un numero reale non nullo se la base a è a sua volta non nulla. Quindi
1/a−n ha senso. Non avrebbe invece senso se a = 0, in quanto in tal caso a−n = 0. Si
osservi che per ogni n ∈ Z si ha nuovamente an > 0 se a > 0 e che le proprietà (8.17)
e (8.18) valgono per ogni a �= 0 e per coppia di interi n, m.
74 Analisi Matematica 1

Base nulla, esponente positivo. Abbiamo visto che anche rimanendo nell’ambito
di esponenti interi se a = 0 si può solamente definire an per n > 0, e naturalmente
0n = 0. Estendiamo quindi la definizione a tutti gli esponenti reali positivi:
0x = 0 per ogni x ∈ (0, +∞).

Esponente razionale, base positiva. Vogliamo estendere la definizione al caso


di esponente razionale. Il punto di partenza è il Teorema 1.30 che ci consente di definire
a1/q se a > 0 e q è un intero √ positivo. Come noto, se a < 0 non è possibile dare un
senso coerente all’espressione a ossia a1/2 , nel senso che certamente non esiste alcun
numero reale il cui quadrato sia il numero negativo a. Per questa ragione la definizione
di ar con r ∈ Q deve essere ristretta al caso di basi non negative. Poiché il caso a = 0
è già stato discusso, ci limitiamo al caso a > 0. Si pone
ap/q = (ap )1/q , p ∈ Z, q ∈ N∗ .
Poiché a > 0, anche ap > 0 per qualunque intero p. Quindi il Teorema 1.30 garantisce
esistenza e unicità della radice q –esima di ap , che è ancora un numero positivo. Si noti
che l’ipotesi q > 0 non è restrittiva, in quanto il segno di p/q può essere scaricato sul
segno di p. Le proprietà (8.17) e (8.18) valgono per ogni a > 0 e per ogni n, m ∈ Q.
Proviamo ora un risultato che risulterà utile sia nel definire potenze con esponenti reali
sia nel provare la monotonia delle funzioni esponenziali.
Lemma 8.1. Sia a > 1 e siano r, s ∈ Q tali che r < s. Allora ar < as .
Dimostrazione. Utilizzando la (8.17), l’asserto è equivalante a
� �
ar as−r − 1 = as − ar > 0
e siccome ar > 0 per ogni r ∈ Q, è sufficiente provare che as−r > 1. Il numero
razionale positivo s − r può essere scritto
p
s−r = , p, q ∈ N∗ .
q
Ora, dal Lemma 7.1, segue che
a > 1 =⇒ ap > 1p = 1
dal momento che p è un intero positivo. Affermiamo che per la stessa ragione3
ap > 1 =⇒ (ap )1/q > 11/q = 1.
Se in effetti fosse (ap )1/q ≤ 11/q allora usando ancora il Lemma 7.1 si avrebbe
� �q � �q
ap = (ap )1/q ≤ 11/q = 1,
contro quanto appena provato. Ma allora as−r = (ap )1/q > 1, come volevasi. �
Ancora un interessante risultato di natura elementare.
Lemma 8.2. Se a > 1, allora inf {ar : r ∈ Q, r > 0} = 1.
3Si veda la Proposizione 7.6.
Funzioni 75

Dimostrazione. Siano E = {ar : r ∈ Q, r > 0} e b = inf E . Dal lemma precedente


sappiamo che ar > 1 per ogni razionale positivo r e quindi che gli elementi di E
sono tutti maggiori di 1. Perciò 1 è un minorante di E e b ≥ 1. Se fosse b < 1,
allora sarebbe b < b2 e quindi, per le proprietà dell’estremo inferiore discusse nella
Proposizione 6.5, esisterebbe un elemento di E , ossia un esponente razionale r > 0,
tale che ar < b2 . Estraendo le radici quadrate, si avrebbe allora ar/2 < b. Siccome r/2
è anch’esso un numero razionale positivo, avremmo trovato ar/2 ∈ E più piccolo di b.
Questa contraddizione implica b = 1, come desiderato. �
Esponente reale, base positiva. Siamo finalmente in grado di definire ax per
ogni a > 0 e x ∈ R. La definizione è fondata sulla possibilità di approssimare ax dal
sotto e dal sopra mediante esponenti razionali con precisione arbitraria. La proposizione
che segue chiarifica, nel caso a > 1, il senso del processo di approssimazione.
Proposizione 8.3. Siano a > 1 e x ∈ R. Consideriamo gli insiemi
R = {ar : r ∈ Q, r < x}, S = {as : s ∈ Q, s > x}.
Esiste uno ed un solo elemento separatore tra R ed S , che è sup R = inf S .
Dimostrazione. Per via del Lemma 8.1 si ha x ≤ y per ogni x ∈ R e per ogni
y ∈ S . Quindi esiste certamente un elemento separatore tra R e S . Proviamo che esso
è unico. Se ξ < η fossero due elementi separatori distinti, si avrebbe ar ≤ ξ < η ≤ as
per ogni coppia di razionali r, s tali che r < x < s. Ma allora si avrebbe
as η
as−r = r ≥ > 1
a ξ
per ogni coppia di razionali r, s tale che r < x < s. Ogni numero razionale positivo p
è peraltro del tipo s − r dove r, s ∈ Q sono tali che r < x < s, e quindi si avrebbe
η
ap ≥ > 1
ξ
per ogni razionale positivo p. Questo contraddice il Lemma 8.2. Quindi l’elemento
separatore è unico e verrà denotato provvisoriamente con ω .
Per definizione di elemento separatore, R è superiormente limitato da ω . Sia
pertanto ρ = sup R ≤ ω . Se fosse ρ < ω , allora ρ sarebbe un altro elemento separatore
tra R e S diverso da ω . Infatti, ovviamente ρ ≥ x per ogni x ∈ R ed inoltre ρ < ω ≤ y
per ogni y ∈ S . L’unicità dimostrata sopra implica perciò ρ = ω . In modo del tutto
analogo si prova che ω = inf S . Quindi l’unico elemento separatore è sup R = inf S .

Dato dunque a > 1 e x ∈ R, si definisce
ax = sup {ar : r ∈ Q, r < x} = inf {as : s ∈ Q, s > x}.
Poiché in particolare ax è un maggiorante di un insieme di numeri strettamente positivi,
evidentemente ax > 0 per ogni a > 1 e per ogni x ∈ R. Infine, se a < 1 si pone
� �−x
x 1
(8.19) a = .
a
76 Analisi Matematica 1

Abbiamo pertanto definito ax per ogni esponente x ∈ R e per ogni base positiva a.
Esso è sempre un numero positivo. Per ogni a > 0 si ha a0 = 1 e le proprietà (8.17)
e (8.18) valgono per ogni n, m ∈ R. La dimostrazione di quest’ultimo asserto viene
omessa. Il lettore curioso può trovarla a pag.79 di [DM], oppure provare a dimostrarla.
Nel libro citato si dimostra anche che per ogni a > 0 si ha
(8.20) {ax : x ∈ R} = (0, +∞).
La (8.20) può essere vista come una conseguenza del fattto che F = {ax : x ∈ R} è un
gruppo moltiplicativo (ossia soddisfa gli assiomi (M) visti nella Definizione 1.2 del primo
capitolo) per il quale F ∩ (1, +∞) non ha minimo. Queste due proprietà consentono
di concludere che F ricopre tutta la semiretta (0, +∞).
Dal Lemma 8.1 segue facilmente che se a > 1, allora x < y implica ax < ay ;
viceversa, dalla definizione (8.19), se a < 1, allora x < y implica ax > ay .
Definiamo per ogni a > 0 la funzione
(8.21) expa : R → (0, +∞), expa (x) = ax ,
detta funzione esponenziale di base a. Riassumiamo le principali proprietà delle fun-
zioni esponenziali in una lista:
(E0) expa (1) = a;
(E1) expa (x + y) = expa (x) expa (y) per ogni x, y ∈ R;
(E2) expa (0) = 1;
(E3) expa (R) = (0, +∞) se a �= 1;
(E4) expa è crescente se a > 1 e decrescente se a < 1;
(E5) expexpa (x) (y) = expa (xy) per ogni x, y ∈ R;
(E6) exp1 (x) = 1 per ogni x ∈ R.
Il grafico di una funzione esponenziale con base a > 1 ha il seguente aspetto:
Funzioni 77

Nella figura che segue sono disegnati i grafici di expa con a = 1/2, 1/4, 1, 4 e 2.

� 1 �x
4
4x

� 1 �x
2
2x

1x = 1

Per basi maggiori di 1 le funzioni esponenziali divengono via via più ripide al
crescere della base. Vale la pena di osservare esplicitamente che come conseguenza di
(E1) ed (E2) si ha 1 = a0 = ax−x = ax a−x per ogni x ∈ R, e quindi per ogni base
a > 0 risulta
1
(8.22) a−x = , per ogni x ∈ R.
ax
Fissiamo ora una base a > 0 e consideriamo la corrispondente funzione esponenziale
expa . La proprietà (E3) dice che essa è surgettiva, mentre la (E4) implica che essa è
iniettiva se a �= 1. Dunque, se a �= 1, expa è invertibile e la sua funzione inversa

loga : (0, +∞) → R, a �= 1,

si chiama il logaritmo in base a. Per simmetria rispetto alla bisettrice, possiamo subito
dire che il grafico della funzione logaritmo con base a > 1 sarà del tipo
78 Analisi Matematica 1

La definizione di loga che abbiamo dato, ossia come funzione inversa della funzione
esponenziale, è equivalente alle due seguenti fondamenteali identità:
(8.23) loga (ax ) = x per ogni x ∈ R;
(8.24) aloga x = x per ogni x ∈ (0, +∞).
Le proprietà del logaritmo sono presto dedotte dalle proprietà dell’esponenziale:
(L0) loga (a) = 1
(L1) loga (xy) = loga (x) + loga (y) per ogni x, y ∈ (0, +∞);
(L2) loga (1) = 0;
(L3) loga ((0, +∞)) = R se a �= 1;
(L4) loga è crescente se a > 1 e decrescente se a < 1;
(L5) loga (xy ) = y loga (x) per ogni x ∈ (0, +∞) e ogni y ∈ R;
(L6) logb (x) = (logb a)(loga x) per ogni x ∈ (0, +∞) e ogni b > 0.

Infatti (L1), (L2) e (L3) sono immediate conseguenze delle proprietà (E1), (E2) e (E3).
La (L4) è conseguenza di (E4) e della Proposizione 7.6. Per la (L5), osserviamo che,
in virtù di (E5) e dell’identità fondamentale (8.24), si ha
� �y y
ay loga (x) = aloga (x) = xy = aloga (x ) .
Dall’iniettività dell’esponenziale segue y loga (x) = loga (xy ). Infine la (L6) viene detta
la formula di cambiamento di base dei logaritmi, ed è conseguenza di (L5) e di (8.24):
� �
(loga x)(logb a) = logb aloga x = logb x.
Funzioni 79

Esercizi

1. Verificare la formula per il dominio di f (x) = tan(1 − x2 ) provata nell’Esempio 8.


2. Tracciare i grafici delle seguenti funzioni:
f1 (x) = |x + 2|; f2 (x) = |x − 3|; f3 (x) = |x| − 2;

f4 (x) = 1 − |x|; f5 (x) = |3x|; f6 (x) = |2 − x2 |;

1
f7 (x) = 1 − |(x − 2)2 − 1|; f8 (x) = ; f9 (x) = |x + 1| − |2(x + 1)|;
|x|

|x| � � � � ���

f10 (x) = + 2|x| − �1 − |x|�; f11 (x) = �1 − �1 − |x|��; f12 (x) = |x + 2| − (x + 2);
x

3. Tracciare il grafico di f (x) = x/(x − 2). [Suggerimento: aggiungere e togliere 2 al


numeratore.]
4. Tracciare il grafico di f (x) = x2 + 2x e di g(x) = 1/f (x).
5. Dato il grafico di y = f (x) disegnato in figura,

−3 −1 2 4 6

disegnare i grafici delle funzioni:


f1 (x) = −f (x); f2 (x) = f (−x); f3 (x) = |f (x)|;

f4 (x) = f (|x|); f5 (x) = f (x − 1); f6 (x) = f (x + 2);


80 Analisi Matematica 1

f7 (x) = f (x) − 2; f8 (x) = 2f (x); f9 (x) = f (x)/2;

f10 (x) = f (3x); f11 (x) = f (x/2).


6. Provare che la composizione di funzioni iniettive è iniettiva.
7. Provare che la composizione di funzioni crescenti è crescente, e che lo stesso vale
per le funzioni non decrescenti, decrescenti e non crescenti.
8. Provare che se f è crescente e g è decrescente, allora f ◦ g e g ◦ f sono decrescenti,
se e quando sono definite.
9. Provare che se f è crescente e negativa e g è decrescente e positiva allora f g è
crescente (e naturalmente negativa). Che cosa si può dire del prodotto f g se f è
crescente e positiva e g è decrescente e negativa?
10. Dimostrare la Proposizione 7.6.
1 3
11. Si consideri la funzione f (x) = − .
x2 − x + 3 11
(a) Disegnare il grafico di f .
(b) Sia g(x) = f (x) per x > (1/2). Determinare g −1 , se esiste, specificandone
l’insieme di definizione.
12. Si consideri la funzione f : (−∞, +∞) → [−1, 1] definita da

 1

 se x ∈ (−∞, −1]

 x
x se x ∈ (−1, 0)
f (x) =

 1 − x se x ∈ [0, 1)


− 1

se x ∈ [1, +∞).
x
(a) Disegnare il grafico di f ;
(b) dire se f è iniettiva e/o surgettiva;
(c) determinare in quali intervalli f è crescente;
(d) disegnare il grafico di f (|x|).
13. Si consideri la funzione f : (−∞, +∞) → (− π2 , π2 ] definita da
 π π
arctanπx se x ∈ (−∞, − 4 ] ∪ [ 4 , +∞)

f (x) = 2x + se x ∈ (− π4 , 0]

 2
−2x se x ∈ (0, π4 ).
(a) Disegnare il grafico di f ;
(b) Dire se f è iniettiva e/o surgettiva;
(c) determinare in quali intervalli f è crescente;
(d) scrivere la decomposizione f = fp + fd dove fp è pari e fd è dispari.
1
14. Sia f (x) = � .
1 + |x − 2|
Funzioni 81

(a) Determinare l’insieme di definizione di f .


(b) Verificare se per x > 2 f è invertibile e in caso affermativo determinare la
funzione inversa f −1 .
(c) Disegnare il grafico di f , giustificandone il procedimento.
(d) Determinare la parte pari e la parte dispari della funzione g(x) = f (x + 2).
1
15. Sia f (x) =
1 − 3x
(a) Determinare l’insieme di definizione I di f e l’immagine di f .
(b) Studiare la monotonia di f e stabilire se f è invertibile.
(c) Disegnare il grafico di f , giustificando il procedimento.
(d) Se esiste, determinare f −1 specificandone insieme di definizione e immagine.
16. Provare che (8.17) e (8.18) valgono per ogni a �= 0 e per coppia di interi n, m.
17. Provare che (8.17) e (8.18) valgono per ogni a > 0 e per coppia di razionali n, m.
18. Riscrivere le proprietà (E1), (E2) e (E3) delle funzioni esponenziali sostituendo
expa y con ay .
19. Dimostrare le proprietà (L1), (L2) e (L4) delle funzioni logaritmo.
20. Stabilre quale è più grande tra le seguenti coppie di numeri reali:

(i) log 2 + 47 log 27, 141 log 3 (ii) log2 3, log3 2 (iii) log3 10, log4 15

(iv) 251 , 334 (v) 477 , 751 (vi) log6 108, log5 125.
CAPITOLO 4

Limiti e continuità

Una delle nozioni centrali dell’Analisi Matematica è la nozione di continuità di


una funzione. Quando riferita ad una funzione del tipo f : I ⊂ R → R, essa può
essere formulata in modo grossolano dicendo che una funzione è continua se è possibile
disegnarne il grafico “senza staccare la penna dal foglio”, ovvero “senza fare salti”.
Purtroppo non ci sono carta e penna in matematica: bisogna fare lo sforzo di tradurre
le nostre intuizioni in definizioni stringenti, possibilmente anche abbastanza semplici e
generali da poterle poi adattare a contesti diversi. La definizione rigorosa di continuità
viene formulata oggigiorno mediante la nozione di limite, il vero cuore dell’Analisi. Essa
incorpora l’idea intuitiva dell’avvicinarsi sempre più, diventare arbirariamente vicini,
ossia tendere ad un certo valore, senza necessariamente raggiungerlo.
Un’applicazione dell’idea di limite molto facile da comprendere è l’esempio delle
successive bisezioni di un segmento. Dato un segmento S0 di lunghezza L, sia S1
uno dei due segmenti ottenuti tagliando S0 nel punto medio, ossia in due. Esso avrà
lunghezza L/2. Il segmento S2 ottenuto tagliando S1 a metà avrà lunghezza (L/2)/2 =
L/22 e la metà di questo, ossia S3 , avrà lunghezza L/23 , e cosı̀ via. Il processo ideale di
iterata suddivisione in due di un segmento produce, al passo n–esimo, un segmento Sn
di lunghezza L/2n . Poiché 2n può essere reso grande quanto vogliamo, pur di prendere
n opportunamente grande, la lunghezza di Sn può essere resa piccola a piacere, ovvero,
come impareremo ad esprimerci, essa tende a zero. Dunque, astraendo, a mano a mano
che la variabile (nel nostro caso, n) cresce indefinitamente, una grandezza che da essa
dipende si avvicina sempre più ad un certo valore limite (nel nostro caso, zero).
Nella discussione svolta, è importante interpretare la crescita indefinita di n come
l’approssimarsi di n ad una meta ideale che non sarà mai raggiunta. La meta cui allu-
diamo in questo caso non è identificabile in un punto preciso, cosı̀ come non è un punto
preciso l’orizzonte visivo. I matematici creano espressioni quali tendere all’infinito
per suggerire un’immagine, per consentire una sorta di visualizzazione dei fenomeni
che si intendono studiare: la conclusione matematica dell’esempio della bisezione del
segmento sarà espressa dicendo che L/2n tende a zero quando n tende all’infinito.
In generale, saremo interessati al comportamento che una funzione di variabile reale
può esibire quando la variabile si avvicina sempre più ad una certa meta. Essa potrà
essere – come discusso finora – un punto all’infinito, cioè una meta indefinitamente
grande o indefinitamente grandemente negativa, oppure può essere un punto al finito,
cioè un numero reale x0 . In quest’ultimo caso, si tratterà di analizzare che cosa succede
ai valori della funzione quando la variabile si trova nelle regioni immediatamente vicine
ad x0 , senza peraltro curarsi di che cosa accada in x0 . Illustriamo questo caso me-
diante un vero “classico”, che verrà ripreso più avanti. Consideriamo la circonferenza

83
84 Analisi Matematica 1

trigonometrica e un arco “piccolo e positivo” x, ossia minore di π/2 se espresso in


radianti. Vale la disuguaglianza 0 < sin(x) < x, come indicato in figura.

sin x

Vogliamo valutare il rapporto tra il seno di x e x, ossia il valore della funzione


sin x
f (x) =
x
quando l’argomento x diviene sempre più piccolo. Come ogni buon costruttore di
pendoli sa bene, questo rapporto diviene sempre più prossimo ad uno se si considerano
archi x sempre più piccoli. Si osservi peraltro che il valore x0 = 0 non può neppure
essere preso in considerazione, dal momento che f non è definita per x0 = 0. Quindi
ci interessano valori sempre più piccoli di x ma non il valore x0 = 0. La conclusione
sarà formulata dicendo che f (x) tende a uno1 quando x tende a zero.
Il processo che trasforma le idee che abbiamo presentato, per ora abbastanza fu-
mose, in definizioni precise – ossia fondate solamente sui vari concetti primitivi che
siamo disposti ad accettare senza ulteriori spiegazioni – ha dato luogo storicamente alla
nascita della cosiddetta analysis situs, locuzione che potremmo parafrasare in “analisi
locale dello spazio”. Le teorie moderne che hanno sviluppato le conseguenze più dirette
della nozione di limite sono l’Analisi e la Topologia, due branche della matematica in-
timamente interconnesse. Il grande successo dell’apparato concettuale che si sviluppa
a partire da questa autentica pietra miliare del pensiero - cioè il concetto di limite - è
dovuto all’accuratezza con la quale i modelli matematici che da essa traggono origine
descrivono un gran numero di fenomeni fisici, perlomeno quelli per schematizzare i
quali si fa segretamente appello all’antica convinzione che natura non facit saltus.

1Vedi ad esempio le formule (1.26) e (2.53).


Limiti e continuità 85

1. Successioni e loro limiti.


L’esempio delle bisezioni iterate di un segmento è un’istanza particolare di una
classe di fenomeni o esempi che possono essere formalizzati introducendo le successioni.
Una successione è infatti una lista di numeri reali. Il linguaggio matematico trae
ispirazione dal linguaggio corrente anche in questo caso: nel dire lista, intendiamo
proprio dire che c’è un primo e poi un secondo e poi un terzo, e cosı̀ via. Diamo
senz’altro la definizione formale:
Definizione 1.1. Una successione è una applicazione
a : N → R.
Solitamente l’immagine di n ∈ N si scrive an invece di a(n) e si legge “a con n”.
Evidentemente, una successione è nota se sono noti i numeri reali a0 , a1 , a2 . . . ,
che formano una lista ordinata. Per coerenza con le notazioni adottate nel caso degli
elementi del prodotto cartesiano R × R, in cui cioè abbiamo distinto la coppia (x, y)
dalla coppia (y, x) perché diverso è l’ordine in cui essi sono scritti, conveniamo di
denotare una successione mediante (a0 , a1 , a2 , . . . ), ovvero, sinteticamente
(an )n≥0 oppure (an )n∈N .
Va detto che in molti testi viene preferita una delle scritture
{an }n≥0 oppure {an }n∈N ,
a nostro avviso meno coerenti in quanto l’uso delle parentesi graffe è solitamente riser-
vato agli insiemi, per i quali invece nessun tipo di ordinamento è rilevante.
Spesso si descrive una successione mediante una formula generale che individua
l’applicazione, cosı̀ come abbiamo visto per molte funzioni2 f : I ⊂ R → R. Se
ad esempio scriviamo an = n + 2 intendiamo la successione a : N → R definita da
n �→ n + 2 ossia la lista (2,
√3, 4, 5, . . . ). Dovrebbe essere peraltro evidente che anche
una formula del tipo an = n − 3 definisce una successione anche se non sono definiti
i valori a0 , a1 e a2 e quindi, a rigore, non è definita una
√ mappa
√ a : N → R. Infatti,

la formula dà comunque luogo ad una lista, cioè (0, 1, 2, 3, 2, 5, . . . ). Per essere
pignoli, dovremmo allora dire che una successione è una applicazione del tipo
a : {n ∈ N : n ≥ k} → R
dove k è un qualche intero non negativo. In effetti questa pignoleria può essere incor-
porata senza difficoltà nella scrittura standard: basta scrivere
(an )n≥k .
Nell’enunciare i vari risultati sulle successioni ci risparmieremo senz’altro questo eccesso
di zelo formale, confidando nella capacità del lettore di riadattarli di volta in volta.

2Da questo punto di vista, valgono tutte le convenzioni stabilite finora per le funzioni del tipo
f : I ⊂ R → R , perché N è a tutti gli effetti un particolare sottoinsieme di R .
86 Analisi Matematica 1

Esempi.
(1) Sia L un numero reale positivo. La formula an = L/2n , con n ≥ 0, definisce la suc-
cessione (L, L/2, L/4, L/8, . . . ). Essa è la successione che funge da modello matematico
per il processo di bisezione iterata di un segmento – o di qualunque altra grandezza L.
(2) La formula an = (−1)n , con n ≥ 0, definisce la successione (1, −1, 1, −1, . . . ).
Infatti per n ∈ N si ha evidentemente

1 se n è pari
(−1)n =
−1 se n è dispari.

(3) Studieremo nei dettagli l’importante successione definita per n ≥ 1 dalla formula
� �n
1
an = 1 + .
n

(4) La formula an = 1/n, con n ≥ 1, definisce la successione (1, 12 , 13 , 14 , . . . ).


(5) La formula an = n/(n + 1), con n ≥ 0, definisce la successione (0, 21 , 23 , 34 , 45 , . . . ).
(6) Dato un qualunque numero reale λ ∈ R, possiamo formare la successione i cui
valori sono tutti uguali a λ, ossia an = λ per ogni n ∈ N. Una siffatta successione
verrà detta successione costante.
(7) Date due successioni (an )n≥0 e (bn )n≥0 si può naturalmente definirne la somma e il
prodotto nel modo naturale: la loro somma sarà la successione n �→ an + bn , denotata
(an + bn )n≥0 , mentre il loro prodotto sarà n �→ an bn , e sarà denotato (an bn )n≥0 .
Quest’ultima definizione comprende anche il caso in cui (bn )n≥0 sia una successione
costante, e quindi possiamo formare anche la successione (λan )n≥0 per ogni λ ∈ R.
È importante osservare che la particolare struttura di N consente di definire suc-
cessioni mediante una procedura che ricorda il principio di induzione. Si tratta della
definizione per ricorrenza. Vediamo un esempio. Consideriamo le formule
a0 = 1
1
an+1 = .
1 + an
Se prendiamo n = 0, esse implicano
1 1 1
a1 = = =
1 + a0 1+1 2
e quindi per n = 1 abbiamo
1 1 2
a2 = = 1 = .
1 + a1 1+ 2
3
È chiaro che cosa succede: la conoscenza di a0 consente di calcolare a1 , la conoscenza
del quale consente di calcolare a2 , e cosı́ via. Nota l’immagine di n possiamo conoscere
l’immagine del successivo, cioè di n+1 e quindi possiamo conoscere tutta la successione,
almeno in linea di principio. Il procedimento ha senso proprio perché tra numeri
Limiti e continuità 87

naturali esiste la nozione di successivo. Si osservi che se avessimo dato ad a0 un valore


diverso da 1, avremmo ottenuto una successione diversa, ancorché ottenuta mediante
la stessa formula ricorsiva.
L’esempio precedente può essere generalizzato. Consideriamo per esempio la famosa
successione di Fibonacci3, ossia la successione 1, 1, 2, 3, 5, 8, 13, 21, 34, . . . Dal terzo in
poi, ciascun elemento della successione è ottenuto sommando i due precedenti. In altre
parole, abbiamo la regola an+2 = an + an+1 . Essa permette di costruire la successione
di Fibonacci quando siano noti i primi due valori, cioè a0 = a1 = 1. Cambiando
questi valori si ottengono successioni diverse; se ad esempio a0 = a1 = 0 si ottiene la
successione costantemente nulla. Il punto importante che vogliamo mettere in evidenza,
è che ogni coppia di valori (an , an+1 ) consente di calcolare il successivo an+2 , mentre
la conoscenza di uno solo di essi, an oppure an+1 , non è sufficiente.
Il lettore avrà intuito che esistono metodi ricorsivi di passo arbitrario: nulla vieta
infatti di definire una successione assegnandone esplicitamente i primi k valori – dove k
è un intero positivo qualsiasi – e di procedere mediante una formula che attribuisca un
valore all’elemento an+k a partire dalla conoscenza della k -upla (an , an+1 , . . . , an+k−1 ).
Nel caso della successione di Fibonacci k = 2. L’intero k , ossia il minimo numero di
valori consecutivi che devono essere noti per poter calcolare il successivo si dice il passo
della successione definita per ricorrenza.
Abbiamo già osservato che una successione è, in particolare, una funzione del tipo
f : I ⊂ R → R. Come tale, essa avrà certamente un grafico. Siccome in tutti i casi
I = N (o quasi, nel senso discusso sopra), il grafico di una successione avrà un aspetto
del tutto peculiare: esso è costituito da punti di ascissa intera non negativa. Quindi, il
grafico di una successione sarà tipicamente



✉ ✉ ✉
✉ ✉
✉ ✉
✉ ✉

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

3Leonardo Fibonacci, matematico pisano del secolo XII, fu il primo ad introdurre in Italia e in
Europa la numerazione araba.
88 Analisi Matematica 1

1.1. Successioni convergenti. Il problema che ci interessa soprattutto di af-


frontare è come si possa formalizzare l’idea che i valori di an tendano ad un valore
limite al crescere di n, come discusso all’inizio del capitolo.
Limiti e continuità 89

Proviamo ad esempio a tracciare il grafico della successione an = n/(n + 1). In


questo caso, sarà opportuno utilizzare un sistema di coordinate non monometrico.

✉ ✉
.........................................................
✉ ✉
1
✉ ✉


2/3 ✉

1/2 ✉

✉ ✲
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10

La successione che stiamo analizzando è (0, 12 , 23 , 34 , 45 , . . . ) e naturalmente ipotizziamo


che il valore limite sia 1. Siccome
� � � � � �
� n � � n − (n + 1) � � 1 � 1
|an − 1| = �� − 1�� = �� �=� �< ,
n+1 n + 1 � �n + 1� n
la distanza |an − 1| diviene piccola quanto vogliamo. Meglio: fissato ad arbitrio un
numero reale ε > 0, per la proprietà archimedea di R esiste certamente un N ∈ N
tale che N ε > 1. Al cambiare di ε cambierà anche N e quindi scriviamo Nε invece di
N . Per un siffatto Nε , e a maggior ragione per ogni n ≥ Nε , si ha nε > 1. Per tutti
gli interi n ≥ Nε risulta quindi
1
|an − 1| < < ε.
n
Abbiamo provato: per ogni ε > 0 esiste un Nε tale che se n ≥ Nε , allora |an − 1| < ε.
Questa affermazione ispira la definizione che segue, di grande importanza.
Definizione 1.2. Siano (an )n≥0 una successione e � ∈ R. Diremo che (an )n≥0
converge ad �, oppure che tende ad �, oppure ancora che il limite di (an )n≥0 è uguale
ad �, e in tal caso scriveremo
lim an = � oppure an → �,
n

se per ogni ε > 0 esiste un intero positivo Nε tale che se n ≥ Nε , allora |an − �| < ε.
Il senso della definizione è questo: fissato un qualunque margine di errore4, ossia
un qualunque numero reale positivo ε, la differenza tra il valore limite e il valore di an
è più piccola di ε per tutti gli n da un certo Nε in poi. Ancora una interpretazione, di
4La lettera greca ε che si legge epsilon è una e, indica proprio il termine errore.
90 Analisi Matematica 1

natura più grafica: fissato � ∈ R, i punti (x, y) del piano per i quali |y − �| < ε sono
quelli contenuti nella striscia di semiampiezza ε centrata attorno all’ordinata �:

�+ε

✉ (x, y)
� .........................................................
�−ε

La richiesta |an − �| < ε per n > Nε equivale perciò alla richiesta che il punto
(n, an ) sia interno alla striscia. Ricapitolando: per ogni ε > 0 deve esistere un intero
Nε tale che tutti i punti del grafico della successione che sono a destra della retta
verticale di ascissa Nε risultano interni alla striscia di semiampiezza ε centrata in �.

� �
.........................................................
� �
�=1
� �



� ✲

Nella definizione di limite appare la frase: “esiste un intero positivo N tale che se
n ≥ N , allora...” Essa può essere parafrasata mediante la frase italiana “da un certo
punto in poi”, oppure “tranne al più per un numero finito di termini”. Questo concetto
verrà richiamato in molte circostanze e merita senz’altro una definizione.

Definizione 1.3. Diremo che la successione (an )n≥0 soddisfa definitivamente la


proprietà P se esiste un intero positivo N tale che an soddisfa P per ogni n ≥ N .
Limiti e continuità 91

Prima di discutere alcuni esempi, un commento circa le notazioni. Oltre a quelle


che abbiamo introdotto, sono anche molto usate, e certamente accettabili, le seguenti:
lim an = �, lim an = �,
n→∞ n→+∞

che vengono lette, rispettivamente, “il limite di an per n che tende all’infinito è uguale
a �” e “il limite di an per n che tende a più infinito è uguale a �”. Esse non sono molto
economiche. In effetti, come sarà più chiaro quando tratteremo limiti di funzioni, la
variabile intera e positiva n, se tende da qualche parte, non può che tendere all’infinito
(anzi, a +∞) ed è dunque pleonastico specificarlo nella notazione.
Esempi.
(8) Consideriamo la successione (2−n )n≥0 da cui siamo partiti. Vogliamo mostrare
che essa tende a zero. Fissiamo ε > 0. Dobbiamo provare che esiste Nε tale che la
diseguaglianza 2−n < ε vale per ogni n ≥ Nε . Passando al logaritmo in base 2, che
come sappiamo è crescente, la diseguaglianza per Nε è equivalente a Nε > (− log2 ε).
L’esistenza di un intero Nε che la soddisfi è garantita dalla proprietà archimedea (si
osservi che per ε < 1 si ha − log2 ε > 0). Tale diseguaglianza vale a maggior ragione
se n ≥ Nε . In conclusione: fissato ε > 0 sia Nε tale che Nε > (− log2 ε). Se n ≥ Nε ,
allora 2−n < ε. Questo dimostra che 2−n → 0.
(9) Anche la successione an = 1/n, con n ≥ 1 tende evidentemente a zero. Fissato
ε > 0 sia Nε un intero tale che Nε ε > 1. Per ogni n ≥ Nε si ha nε > 1 e quindi
(1/n) < ε, come volevasi.
(10) Una successione costante converge evidentemente a quel valore costante.
(11) Che cosa significa dire che una successione non converge? Significa che nessun
� ∈ R ne è un valore limite, ossia, che per ogni � ∈ R si ha:
(1.25) ∃ ε > 0 tale che ∀ N ∈ N : ∃ n ≥ N tale che |an − �| ≥ ε.

(12) Proviamo che la successione an = (−1)n non converge. Fissiamo allora � ∈ R e


proviamo che vale (1.13) per la successione in esame. L’idea da seguire è la seguente:
i punti della successione sono alternatamente 1 e −1 ed hanno quindi mutua distanza
uguale a 2. Se scegliamo una striscia abbastanza sottile centrata intorno ad �, per
esempio di semiampiezza 1/2, essa non potrà contenere sia 1 sia −1.
Scegliamo quindi ε = 1/2 e fissiamo N . Dobbiamo esibire un n ≥ N per il quale
risulti |an − �| ≥ 1/2. Si danno tre casi che (come vedremo) si escludono a vicenda:
la distanza di 1 da � è minore di 1/2, oppure la distanza di −1 da � è minore di
1/2, oppure nè 1 nè −1 distano da � meno di 1/2. In quest’ultimo caso, tutti gli an
soddisfano |an − �| ≥ 1/2, e quindi (1.13) è verificata. Se risulta |1 − �| < 1/2, allora
innanzitutto � > 1/2. Ma allora |� − (−1)| = |� + 1| = � + 1 > 3/2. Perciò se la
distanza di 1 da � è minore di 1/2, allora la distanza di −1 da � è maggiore di 1/2.
Quindi, ad ogni n dispari (e perciò certamente a qualche n ≥ N ) corrisponde un an
per il quale |an − �| ≥ 1/2. Anche in questo caso (1.13) è verificata.
Lasciamo al lettore la conclusione del ragionamento, cioè la disamina del caso in
cui |(−1) − �| < 1/2.
92 Analisi Matematica 1

Passiamo ora a dimostrare le principali proprietà dei limiti delle successioni.


Proposizione 1.4. Se una successione converge, il limite è unico.
Dimostrazione. Supponiamo che � e �� siano due limiti di (an )n≥0 . Fissiamo ε > 0.

Allora esisteranno Nε/2 e Nε/2 con le seguenti proprietà:
ε
n ≥ Nε/2 =⇒ |an − �| <
2
� � ε
n ≥ Nε/2 =⇒ |an − � | < .
2

Se N = max{Nε/2 , Nε/2 } si avrà allora per ogni n ≥ N :
ε ε
|� − �� | = |� − an + an − �� | ≤ |� − an | + |an − �� | < + = ε.
2 2

Abbiamo provato che per ogni fissato ε > 0 si ha |� − � | < ε. Per il Corollario 5.2 del
Capitolo 2 ne segue che � = �� . �
Nel corso della precedente dimostrazione è emerso un fatto di cui faremo uso im-
plicito o esplicito in diverse circostanze, e che vale la pena enunciare formalmente.
Lemma 1.5. Se una successione soddisfa definitivamente la proprietà P e soddisfa
definitivamente anche la proprietà Q, allora essa soddisfa definitivamente la proprietà
P ∧ Q, cioè P e Q valgono definitivamente in modo congiunto.
Dimostrazione. Se an soddisfa P per n ≥ N e soddisfa Q per n ≥ M , allora an
soddisfa P ∧ Q per n ≥ max{N, M }. �

Teorema 1.6 (Confronto I). Siano (an )n≥0 e (bn )n≥0 due successioni e suppo-
niamo an → a e bn → b.
(i) Se definitivamente an < bn oppure an ≤ bn , allora a ≤ b;
(ii) se a < b, allora definitivamente an < bn ;
(iii) se a < λ ∈ R, allora definitivamente an < λ; se a > µ ∈ R, allora definitiva-
mente an > µ.
Dimostrazione. Proviamo dapprima (ii). Fissiamo ε > 0 e supponiamo inoltre che
ε < (b − a)/2. Applicando il Lemma 1.5, le disuguaglianze
an < a + ε, bn > b − ε,
sono entrambe definitivamente vere. Ne segue che definitivamente si ha
bn − an > b − a − 2ε > 0,
come volevasi. Questo implica subito (i), in quanto se viceversa si avesse a > b, allora
si avrebbe definitivamente an > bn .
Infine, per quanto riguarda (iii), basta applicare (ii) al caso particolare di una
successione costante λn = λ, oppure µn = µ. �
Il punto (i) del teorema precedente non è migliorabile, nel senso che in effetti anche
se vale la disuguaglianza stretta an < bn definitivamente, non si può concludere che la
disuguaglianza stretta valga anche tra i limiti. Basta considerare ad esempio an = 1/n
e bn = 2/n. Anche se an è la metà di bn , entrambe le successioni convergono a zero.
Limiti e continuità 93

Corollario 1.7 (Permanenza del segno). Se la successione (an )n≥0 converge


a � �= 0, allora (an )n≥0 ha definitivamente il segno di �.
Dimostrazione. Si applichi il punto (iii) del Teorema 1.6 al caso λ = 0 (se � < 0),
oppure al caso µ = 0 (se � > 0). �

Teorema 1.8 (Confronto II, o “Teorema dei carabinieri”). Siano (an )n≥0 ,
(bn )n≥0 e (cn )n≥0 tre successioni e supponiamo che
(A) an → � e cn → �;
(B) definitivamente an ≤ bn ≤ cn .
Allora esiste anche lim bn e lim bn = �.
n n

Dimostrazione. Sia ε > 0 fissato. Dall’ipotesi (A) e per via del Lemma1.5, risultano
congiuntamente verificate definitivamente le seguenti disuguaglianze:
� − ε < an , cn < � + ε.
Applicando perciò l’ipotesi (B) si ha definitivamente
� − ε < an ≤ bn ≤ cn < � + ε,
cosicché |bn − �| < ε definitivamente. Quindi bn → �. �
Il significato del curioso titolo “Teorema dei carabinieri” è dovuto all’idea seguente:
se due carabinieri accompagnano un mariuolo, l’uno a destra e l’altro a sinistra, e se
entrambi i carabinieri vanno in guardina, ci va anche il mariuolo.

Esempi.
(13) Consideriamo la successione definita per n ≥ 1 dalla formula bn = sin(1/n).
Come abbiamo già osservato all’inizio del capitolo, vale per archi x che siano “piccoli
e positivi” la diseguaglianza 0 < sin(x) < x. In particolare, essa si applica a x = 1/n
per ogni n intero positivo. Quindi, avremo
� �
1 1
0 < sin < .
n n
94 Analisi Matematica 1

Interpretiamo lo zero a sinistra come l’elemento n-esimo della successione costante


an = 0. Poiché sappiamo che cn = 1/n → 0, il Teorema dei carabinieri implica
sin(1/n) → 0.

Definizione 1.9. Diremo che la successione (an )n≥0 è limitata se l’insieme dei
suoi valori A = {an : n ≥ 0} è limitato. In particolare, (an )n≥0 è limitata se e solo se
esiste M ≥ 0 tale che |an | ≤ M per ogni n ∈ N.

Proposizione 1.10. Una successione convergente è limitata.

Dimostrazione. Sia � = limn an e sia ε > 0 fissato. Esisterà allora Nε tale che
||an |−|�|| ≤ |an −�| < ε per ogni n ≥ Nε . In particolare, per tali n risulta |an | ≤ |�|+ε.
Posto allora
� �
M = max |a0 |, |a1 |, . . . , |aNε −1 |, |�| + ε ,

avremo che |an | ≤ M per ogni n ∈ N. Quindi (an )n≥0 è limitata. �

Facciamo notare che l’implicazione opposta a quella enunciata nella proposizione


precedente non è vera, ossia non è vero che se (an )n≥0 è limitata, allora essa è con-
vergente. Come abbiamo visto nell’Esempio 12, la successione definita da an = (−1)n
non converge, pur essendo ovviamente limitata da M = 1.

Teorema 1.11 (Algebra dei limiti). Siano (an )n≥0 e (bn )n≥0 due successioni, e
supponiamo an → a e bn → b. Allora:
(i) |an | → |a|;
(ii) an + bn → a + b;
(iii) an bn → ab;
(iv) per ogni λ ∈ R, λan → λa;
(v) se b �= 0, allora5 an /bn → a/b.

Dimostrazione. (i) Siccome definitivamente |an − a| < ε, segue che definitivamente


||an | − |a|| ≤ |an − a| < ε.
(ii) Fissiamo ε > 0. Definitivamente abbiamo |an − a| < ε/2 e |bn − b| < ε/2.
Utilizzando il Lemma 1.5 possiamo dire che definitivamente risulta

|an + bn − (a + b)| ≤ |an − a| + |bn − b| < ε/2 + ε/2,

come volevasi.
(iii) Sia ε > 0. Siccome (an )n≥0 è convergente, essa è limitata per via della Propo-
sizione 1.10. Quindi |an | ≤ M0 per un qualche M0 > 0. Poniamo M = max{M0 , |b|}
ed osserviamo che M > 0 anche se fosse b = 0. Dal fatto che entrambe le successioni
convergono, definitivamente risulta |an − a| < ε/(2M ) e |bn − b| < ε/(2M ), sempre

5Per il senso da attribuire al quoziente an /bn , si veda la dimostrazione.


Limiti e continuità 95

per via del Lemma1.5. Quindi definitivamente si ha


|an bn − ab| = |an bn − an b + an b − ab|
≤ |an (bn − b)| + |(an − a)b|
= |an | |bn − b| + |an − a| |b|
≤ M (|bn − b| + |an − a|)
� ε ε �
<M + ,
2M 2M
come richiesto per provare l’asserto.
(iv) Discende da (iii) nel caso particolare in cui (bn )n≥0 sia la successione costante
uguale a λ.
(v) Poiché b �= 0, per permanenza del segno, ossia per il Corollario 1.7, anche bn
è definitivamente diverso da zero ed ha quindi senso considerare il quoziente an /bn ,
perlomeno definitivamente. Ora, da (i) abbiamo |bn | → |b| > 0 e quindi in virtù del
punto (iii) del Teorema 1.6, scelto µ ∈ (0, |b|) risulta |bn | > µ definitivamente. D’altra
parte, ancora una volta per via del Lemma1.5, si ha definitivamente
µ|b|ε µ|b|ε
|an − a| < , |bn − b| < ,
2M 2M
dove M = max{|a|, |b|}. Quindi
� �
� an a � |an b − abn |
� − �=
� bn b� |bn b|
|an b − ab + ab − abn |
=
|bn b|
|b| |an − a| + |a| |bn − b|

|bn | |b|
M
≤ (|an − a| + |bn − b|)
µ|b|
ε ε
< + ,
2 2
come volevasi. �
Come conseguenza del precedente teorema abbiamo, sinteticamente:
1 1
an − bn → a − b, → , se a �= 0.
an a
Utilizziamo tutti i risultati esposti per fornire un certo numero di esempi significativi.
Alcuni di essi rientrano nella categoria dei cosiddetti limiti notevoli, ossia limiti di
particolare rilevanza cui spesso capita di ricondursi. Altri sono semplici illustrazioni di
tecniche standard.
96 Analisi Matematica 1

Esempi.
(14) Proveremo che cos(1/n) → 1. In effetti, dalla formula di bisezione
� x �2
cos x = 1 − 2 sin
2
abbiamo in particolare per ogni intero positivo n
� �2
1
cos(1/n) = 1 − 2 sin .
2n
Applicando il Teorema dei carabinieri come fatto nell’Esempio 13, otteniamo facilmente
che sin(1/2n) → 0. Poi, applicando in sequenza (come indicato) i vari punti del
Teorema 1.11, otteniamo:
� �2
1
(iii) ⇒ sin →0
2n
� �2
1
(iv) ⇒ 2 sin →0
2n
� �2
1
(ii) ⇒ cos(1/n) = 1 − 2 sin → 1,
2n
come desiderato.
(15) Consideriamo la circonferenza trigonometrica e archi piccoli e positivi x, ossia
0 < x < π/2. Riprendiamo, affinandole, le considerazioni svolte all’inizio del capitolo.

tan x

sin x

Valgono evidentemente le disuguaglianze


0 < sin x < x < tan x.
Passando ai reciproci e moltiplicando poi per sin x > 0 otteniamo
cos x 1 1 sin x
0< < < =⇒ 0 < cos x < < 1.
sin x x sin x x
Limiti e continuità 97

In particolare, per ogni intero positivo n risulta


sin(1/n)
0 < cos(1/n) < <1
(1/n)
e quindi applicando il Teorema dei carabinieri e il risultato cos(1/n) → 1 abbiamo il
limite notevole
sin(1/n)
(1.26) lim n sin(1/n) = lim = 1.
n n (1/n)
Questa è una versione del risultato cui si faceva cenno all’inizio di questo capitolo.
(16) Consideriamo la successione definita da
n + a0
an = ,
n + b0
dove a0 e b0 sono due numeri reali qualunque. Essa è sicuramente definita per ogni
n se −b0 �∈ N ed è invece definita per n > −b0 se −b0 ∈ N. In ogni caso, potremo
scrivere
1 + (a0 /n)
an = .
1 + (b0 /n)
Partiamo dalla conoscenza del limite 1/n → 0 e applichiamo in sequenza (come indi-
cato) i vari punti del Teorema 1.11:
(iv) ⇒ a0 /n → 0 e b0 /n → 0
(ii) ⇒ 1 + (a0 /n) → 1 e 1 + (b0 /n) → 1
1 + (a0 /n) 1
(v) ⇒ → =1
1 + (b0 /n) 1
In conclusione an → 1. La pedantesca cura nell’evidenziare tutti i singoli passaggi sarà
rispiarmiata al lettore d’ora in poi.
(17) Si può applicare la stessa tecnica utilizzata nell’esempio precedente per provare
che per ogni scelta di numeri reali a0 , a1 , b0 , b1 si ha
n 2 + a1 n + a0
→1
n2 + b1 n + b0
e immaginare facilmente che per ogni intero positivo k ed ogni scelta di numeri reali
a0 , a1 , . . . , ak−1 e b0 , b1 , . . . , bk−1 si ha

nk + k−1j=0 aj n
j
� → 1.
nk + k−1j=0 b j n j

(18) Generalizziamo ora l’esempio base 1/n → 0 e proviamo il limite notevole


1
(1.27) lim =0 per ogni α > 0.
n nα
98 Analisi Matematica 1

Sia α > 0 e fissiamo ε > 0. Il numero reale ε1/α è ben definito e certamente posi-
tivo. Per la proprietà archimedea di R, possiamo allora trovare un intero Nε tale che
Nε ε1/α > 1. A maggior ragione, se n > Nε si ha nε1/α > 1 e quindi
1 1
< ε1/α =⇒ < ε.
n nα
Perciò fissato ε > 0 si ha 1/nα < ε definitivamente e (1.27) è provata.
(19) Illustriamo ora una tecnica standard, basata banalmente sul prodotto notevole
(a − b)(a + b) = a2 − b2 . Ad esempio, sia
√ √
an = n + 1 − n.
Siccome
�√ √ � �√ √ �
√ √ n+1− n n+1+ n
0< n+1− n= �√ √ �
n+1+ n
1 1
= �√ √ �<√ ,
n+1+ n n
il limite notevole (1.27) (con α = 1/2) ed il Teorema dei carabinieri permettono di
concludere che an → 0.
(20) Applichiamo la tecnica precedente per derivare di un altro limite notevole. Per
ogni x ∈ R valgono le identità
1 − cos x (1 − cos x) (1 + cos x)
2
=
x x2 (1 + cos x)
1 − (cos x)2
= 2
x (1 + cos x)
� �2
sin x 1
= .
x 1 + cos x
In particolare, per ogni intero positivo n si avrà
� �2
1 − cos(1/n) sin(1/n) 1
= .
1/n2 (1/n) 1 + cos(1/n)
Usando l’algebra dei limiti e i limiti cos(1/n) → 0 e (1.26) otteniamo il limite notevole
1 − cos(1/n) 1
(1.28) lim 2
= .
n 1/n 2

(21) Questo esempio è più sofisticato, ed è basato sulla diseguaglianza di Bernoulli


(1.29) (1 + h)n ≥ 1 + nh
valida per ogni numero reale h ≥ −1. La dimostrazione di (1.29) è un facile esercizio6
sul metodo di induzione. Sia p > 1 un numero reale. Quindi per ogni intero positivo
n anche p1/n è un numero reale maggiore di uno (la radice n-esima è crescente e la
6Si veda l’Esercizio 2 del Capitolo 1.
Limiti e continuità 99

radice n-esima di uno è uno) e possiamo pertanto definire il numero reale positivo
hn = p1/n − 1. Dalla definizione di hn e dalla disuguaglianza di Bernoulli si ha
p−1
p = (1 + hn )n ≥ 1 + nhn =⇒ 0 < hn ≤ .
n
Per il Teorema dei carabinieri si ha quindi hn → 0 e conseguentemente, ossia dalla
uguaglianza hn + 1 = p1/n , si conclude p1/n → 1.
Consideriamo ora il caso in cui p < 1. Anche la sua radice n-esima sarà minore di
uno e dunque per ogni intero positivo n esisterà un numero reale positivo kn tale che
1
p1/n = .
1 + kn
Sempre in virtù di (1.29) risulterà
1 1
p= ≤ ,
(1 + kn )n 1 + nkn
da cui
1/p − 1
0 < kn ≤ .
n
Un’ulteriore applicazione del Teorema dei carabinieri implica kn → 0 e quindi ancora
p1/n → 1. Abbiamo provato il limite notevole

(1.30) lim p1/n = lim n p = 1 per ogni p > 0.
n n

(22) Proviamo ora il limite notevole


n
(1.31) lim n = 0 per ogni A > 1
n A

facendo nuovamente ricorso alla disuguaglianza di Bernoulli (1.29). Posto A = 1 + h,
essa fornisce √
An/2 = ( A)n = (1 + h)n ≥ 1 + nh > nh,
da cui
n 1
An > n2 h2 =⇒ 0< n <
A nh2
e (1.31) segue nuovamente dal Teoema dei carabinieri e dal limite noto (1/n) → 0.
1.2. Successioni divergenti. Siamo ora interessati a successioni i cui elementi
divengono arbitrariamente grandi, oppure arbitrariamente grandemente negativi. Ad
esempio an = n2 diviene arbitrariamente grande, mentre log(1/n) diviene, al crescere
di n, sempre più grande in valore assoluto ma negativo.
Definizione 1.12. Diremo che la successione (an )n≥0 diverge a +∞, e scriveremo
lim an = +∞ oppure an → +∞,
n
se per ogni K > 0 esiste un intero positivo NK tale che se n ≥ NK , allora an > K .
Similmente, diremo che la successione (an )n≥0 diverge a −∞, e scriveremo
lim an = −∞ oppure an → −∞,
n
se per ogni K > 0 esiste un intero positivo NK tale che se n ≥ NK , allora an < −K .
100 Analisi Matematica 1

Diamo un’interpretazione grafica delle definizioni appena viste. I punti (x, y) del
piano per i quali y > K sono quelli contenuti nel semipiano limitato inferiormente
dall’ordinata K . Se K marca l’orizzonte, essi stanno “sopra l’orizzonte”.

✉ (x, y)

K
.....................................................................

La richiesta an > K per n > NK equivale perciò alla richiesta che (n, an ) sia interno
al semipiano. Per ogni K > 0 deve esistere NK tale che tutti i punti del grafico della
successione che sono a destra della retta x = NK risultano interni al semipiano limitato
inferiormente da K : essi stanno sopra ogni orizzonte e quindi “tendono all’infinito”.





K ......................................................



� �

NK

Avendo dato le definizioni di successione convergente e di successione divergente,


non ci resta che dare un nome alle rimanenti.
Definizione 1.13. Diremo che una successione non ha limite se essa non è né
convergente né divergente.
Limiti e continuità 101

Esempi.
(23) Un esempio ovvio di successione che diverge a +∞ è an = n: fissato K > 0 sia
N > K ; se n ≥ N allora an = n > K . Di altrettanto facile dimostrazione è il fatto
che per ogni numero reale positivo α si ha nα → +∞, che completa (1.27).
(24) Dimostriamo il limite notevole
(1.32) lim An = +∞ per ogni A > 1
n
Fissato K > 0, sia N > logA K . Per ogni n ≥ N risulta a maggior ragione n ≥ logA K
e quindi, applicando la mappa esponenziale expA che è crescente in quanto A > 1,
abbiamo expA n ≥ expA (logA K) = K , come desiderato.
(25) La successione an = (−1)n non ha limite. Sappiamo già che essa non converge.
Per provare che essa neppure diverge, basta osservare che essa non è mai maggiore di
1 né mai minore di −1, quindi non diverge né a +∞, né a −∞.
Ci chiediamo se sia possibile estendere in qualche senso il Teorema 1.11 al caso in
cui almeno una delle successioni coinvolte sia divergente, oppure se sia possibile una
qualche versione di un teorema di confronto. Iniziamo da quest’ultimo tipo di risultato.
Teorema 1.14 (Confronto III). Siano (an )n≥0 e (bn )n≥0 due successioni, e sup-
poniamo che definitivamente risulti an ≤ bn . Allora:
(i) se an → +∞, allora bn → +∞;
(ii) se bn → −∞, allora an → −∞.
Dimostrazione. (i) Fissiamo K > 0. Sono allora definitivamente verificate entrambe
le disuguaglianze bn ≥ an > K . Quindi per ogni K > 0 si ha bn > K definitivamente.
Ciò prova (i). La dimostrazione di (ii) è analoga. �
Per quanto riguarda l’algebra (estesa) dei limiti, anziché formulare un teorema, ci
limitiamo ad una tabella riassuntiva.

lim an lim bn lim(an + bn ) lim(an bn )


n n n n
a>0 +∞ +∞ +∞
a>0 −∞ −∞ −∞
a<0 +∞ +∞ −∞
(1.33) a<0 −∞ −∞ +∞
0 +∞ +∞ F.I.
0 −∞ −∞ F.I.
+∞ +∞ +∞ +∞
−∞ −∞ −∞ +∞
+∞ −∞ F.I. −∞

La tabella va interpretata nel modo pressoché ovvio: ad esempio, la terza riga dice
che se an → a < 0 e bn → +∞ allora an + bn → +∞ mentre an bn → −∞. L’unico
commento aggiuntivo è relativo all’acronimo “F.I.” che sta per forma indeterminata.
Esso si riferisce al fatto che l’informazione a disposizione non è suficiente per concludere
102 Analisi Matematica 1

qualcosa circa il comportamento della successione in esame, an + bn oppure an bn : vi


sono esempi in cui essa converge, esempi in cui diverge ed esempi in cui non ha limite.
È bene chiarire che i simboli “+∞” e “−∞” sono dei meri segni grafici che abbre-
viano complesse definizioni. Essi non sono numeri reali e come tali non si sommano a
numeri reali, né ad essi si moltiplicano. Quindi scritture del tipo

1 + ∞ = +∞, π(−∞) = −∞

sono scorrette e sicuramente da evitare.


D’altra parte, può essere utile avere delle abbreviazioni per le forme indeterminate,
per ragioni essenzialmente mnemoniche. Nella letteratura, o perlomeno nella prassi,
si è soliti fare riferimento alle forme indeterminate che compaiono nella quinta e sesta
riga come forme indeterminate del tipo “zero per infinito”, con abbreviazione “0 · ∞”,
e alla forma indeterminata che compare nell’ultima riga come alla forma indeterminata
del tipo “infinito meno infinito”, con abbreviazione “∞ − ∞”.

Esempi.

(26) Consideramo esempi di forme indeterminate
√ del tipo “0 · ∞”. Se an = 1/ n e
bn = n, allora an → 0, bn → +∞ e an bn = n → +∞.
Se an = 1/2n e bn = n, allora an → 0, bn → +∞ e an bn = n/2n → 0 per via del
limite notevole (1.31).
Se an = (−1)n /n e bn = n, allora |an | ≤ 1/n mostra che an → 0. Inoltre
bn → +∞, mentre an bn = (−1)n non ha limite.

(27) Consideramo
√ la forma√indeterminata
√ del tipo “∞ − ∞”. Se a n = n + 1,
bn = − n allora an + √ bn = n + 1 − n → 0, come √ visto
√ √ nell’Esempio 19.
√ Se an = n,√bn = − n allora an + bn = n − n = n( n − 1) → +∞ in quanto
n → +∞ e n − 1 → +∞: il risultato segue dalla terza riga della tabella.
Se an = n2 + (−1)n , bn = −n2 allora n2 + (−1)n ≥ n2 − 1 → +∞, e an → +∞ in
virtù del Teorema 1.14. Chiaramente an + bn = (−1)n che non ha limite.

La tabella (1.33) può essere completata dal risultato seguente.

Proposizione 1.15. Sia (an )n≥0 una successione.


(i) Se (an )n≥0 diverge, allora a−1
n → 0;
(ii) se (an )n≥0 è definitivamente positiva e an → 0, allora a−1
n → +∞;
(iii) se (an )n≥0 è definitivamente negativa e an → 0, allora a−1
n → −∞.

Dimostrazione. (i) Supponiamo che (an )n≥0 diverga a +∞ e sia ε > 0. Esiste
allora Nε tale che se n ≥ Nε , allora an > ε−1 , ossia a−1
n < ε. Dimostrazione analoga
vale nel caso in cui (an )n≥0 diverga a −∞.
(ii) Fissiamo K > 0. Siccome an → 0, e (an )n≥0 è definitivamente positiva,
risulterà definitivamente 0 < an < K −1 , ossia an > K . La dimostrazione di (iii) è
simile e viene lasciata per esercizio. �
Limiti e continuità 103

1.3. Successioni infinitesime. Di interesse particolare sono le successioni che


convergono a zero. Ad esse è riservato un nome speciale:
Definizione 1.16. Una successione (an )n≥0 si dice infinitesima se an → 0.
Abbiamo naturalmente già visto diversi esempi di successioni infinitesime. Conside-
riamo ora la successione definita dalla formula an = (−1)n /n. Nonostante an sia posi-
tiva per n pari e negativa per n dispari, il suo valore assoluto diviene arbitrariamente
piccolo ed è quindi naturale atendersi che essa sia infinitesima. Questa conclusione può
essere infatti dedotta dal Teorema dei carabinieri e dalla semplicissima diseguaglianza
� �
� (−1)n � 1

0 < |an | = � �≤ .
n � n
Ora, (an )n≥1 è il prodotto delle successioni definite da bn = (−1)n e cn = 1/n. Sic-
come (bn )n≥1 non ha limite, come ben sappiamo, non sarebbe stato possibile dedurre
la convergenza di (an )n≥1 utilizzando l’algebra dei limiti. Infatti, il prodotto di una
successione che non ha limite per una che invece converge o diverge è una forma inde-
terminata. Lasciamo al lettore la verifica dettagliata del fatto (bn cn )n≥1 non ha limite
se bn = (−1)n e se per esempio cn = (n + 1)/n oppure cn = n2 .
Nel caso in esame, abbiamo il prodotto di due successioni una delle quali è non solo
convergente ma infinitesima e l’altra, pur non avendo limite, ha una caratteristica che,
per cosı̀ dire, la redime: essa è limitata.
Proposizione 1.17. Il prodotto di una successione infinitesima e di una succes-
sione limitata è una successione infinitesima.
Dimostrazione. Siano (an )n≥0 infinitesima e (bn )n≥0 limitata. In particolare, sia
M > 0 tale che |bn | ≤ M per ogni n. Si ha allora per ogni n
0 < |an bn | ≤ M |an |
e l’asserto segue dal Teorema dei carabinieri. �

1.4. Successioni monotone. . Siccome ogni successione è una funzione a valori


reali definita su un sottoinsieme di R, ci si può naturalmente chiedere se una successione
sia monotona oppure no. Ricordiamo che una funzione f : I → R si dice, ad esempio,
crescente se e solo se per ogni x, y ∈ I si ha
(1.34) x<y =⇒ f (x) < f (y).
Nel caso di una successione si ha I ⊆ N. In particolare, se la successione (an )n≥0 è
crescente, ponendo x = n e y = n + 1 in (1.34) si avrà
(1.35) ∀n ∈ N : an < an+1 .
Quindi la condizione (1.35) è certamente necessaria affinché (an )n≥0 sia crescente. La
particolare struttura di N implica che in effetti essa è anche sufficiente. Abbiamo infatti
la seguente:
Proposizione 1.18. Sia (an )n≥0 una successione.
(i) (an )n≥0 è crescente se e solo se an < an+1 per ogni n ∈ N;
104 Analisi Matematica 1

(ii) (an )n≥0 è decrescente se e solo se an > an+1 per ogni n ∈ N;


(iii) (an )n≥0 è non decrescente se e solo se an ≤ an+1 per ogni n ∈ N;
(iv) (an )n≥0 è non crescente se e solo se an ≥ an+1 per ogni n ∈ N.
Dimostrazione. Ci limitiamo a provare (i); la dimostrazione degli altri enunciati è
analoga e viene lasciata per esercizio.
Supponiamo che an < an+1 per ogni n ∈ N. Per stabilire che (an )n≥0 è crescente
utilizzando (1.34), dobbiamo appurare che se p e q sono due interi non negativi e
p < q , allora ap < aq . D’altra parte, se q > p esiste un intero positivo k tale che
q = p + k . Verifichiamo allora per induzione su k che (1.35) implica ap < ap+k per
ogni p e per ogni k > 0. Se k = 1, questo è esattamente (1.35) nel caso n = p.
Supponiamo induttivamente che ap < ap+k . Applicando (1.35) a n = p + k otteniamo
ap+k < ap+k+1 , che unitamente all’ipotesi induttiva ap < ap+k implica ap < ap+k+1 .
Questo conclude la dimostrazione per induzione che ap < ap+k è vera per ogni k > 0
e che quindi ap < aq se p < q . �
Osserviamo che la condizione f (x) < f (x + 1) per una funzione definita su un
sottoinsieme qualunque di R non implica affatto che la funzione sia crescente. Si
consideri la funzione definita su tutto R da
f (x) = (sin(2πx) + 3n) /2 se x ∈ [n, n + 1)).
Essa ha un grafico del tipo

È evidente che se x ∈ [n, n + 1), allora x + 1 ∈ [n + 1, n + 2) e quindi


f (x+1) = 21 (sin(2π(x + 1)) + 3(n + 1)) = 12 (sin(2πx) + 3n + 3)) = f (x)+3/2 > f (x).
D’altra parte x �→ sin(2πx) contiene un ciclo sinusoidale completo se x ∈ [n, n + 1),
cosicché in tale intervallo f non è monotona.
Teorema 1.19. Siano (an )n≥0 una successione e A = {an : n ≥ 0}.
(i) Se (an )n≥0 è crescente oppure non decrescente, allora lim an = sup A;
n
(ii) se (an )n≥0 è decrescente oppure non crescente, allora lim an = inf A
n
Limiti e continuità 105

Dimostrazione. Proviamo solo la (i); la dimostrazione di (ii) è analoga e viene


lasciata per esercizio. Poniamo � = sup A e distinguiamo a seconda che si abbia
� = +∞ oppure � ∈ R.
Se � = +∞, allora A non è superiormente limitato e quindi per ogni K > 0
esiste un elemento di A maggiore di K , cioè esiste NK tale che aNK > K . Siccome
(an )n≥0 è non decrescente (oppure crescente), se n ≥ NK avremo a maggior ragione
an ≥ aNK > K . Quindi per ogni K > 0 esiste NK tale che se n > NK allora an > K ,
ossia (an )n≥0 diverge a +∞.
Supponiamo ora � ∈ R. Per la Proposizione 6.5, sappiamo che � è un maggiorante
di A e che per ogni x ∈ R con x < � esiste un elemento di A maggiore di x. Quindi,
per ogni ε > 0 esiste un Nε tale che aNε > � − ε. Poiché (an )n≥0 è non decrescente
(oppure crescente), se n ≥ Nε avremo a maggior ragione
� − ε < aNε ≤ an ≤ � < � + ε.
In conclusiuone, per ogni ε > 0 esiste un Nε tale che se n ≥ Nε si ha |an − �| < ε,
ossia (an )n≥0 converge a �. �

1.5. Il numero di Nepero e, l’esponenziale e il logaritmo naturale. Sup-


poniamo che su un capitale C venga applicato un interesse annuo pari a I . Dopo
un anno il capitale sarà C(1 + I). Se invece viene pagato mensilmente un interesse
composto di I/12, dopo un mese il capitale sarà C(1 + I/12), dopo due mesi esso sarà
[C(1+I/12)](1+I/12) = C(1+I/12)2 ed evidentemente, dopo un anno, C(1+I/12)12 .
Dal punto di vista dell’investitore, la soluzione del pagamento mensile sarebbe preferi-
bile, nel senso che C(1 + I/12)12 > C(1 + I). Se l’interesse composto fosse cor-
risposto addirittura ogni giorno, con un tasso pari a I/365, si avrebbe dopo un anno
C(1 + I/365)365 . E se venisse corrisposto ogni ora? Ogni minuto? Ogni secondo?
Che capitale risulterebbe a fine anno? È forse sorprendente scoprire che se il tasso I è
basso, la frequenza con la quale vengono corrisposti gli interessi, cioè il numero intero
n che appare nella formula Cn = C(1 + I/n)n cui stiamo facendo implicito riferimento,
non influisce granché sul risultato finale Cn , anche se più alto è il tasso, maggiore è la
differenza. Riportiamo in una tabella i risultati corrispondenti ad un investimento di
mille euro ai tassi I rispettivamente del 5% e del 20%:

n Frequenza Cn , I = 5% Cn , I = 20%
1 anno 1.050, 00 1.200, 00
12 mese 1.051, 16 1.219, 39
365 giorno 1.051, 27 1.221, 34
8.760 ora 1.051, 27 1.221, 40
525.600 minuto 1.051, 27 1.221, 40
31.436.000 secondo 1.051, 27 1.221, 40

La domanda che ci poniamo è naturalmente se al tendere di n all’infinito si perviene


ad un limite e se esso è esprimibile mediante una formula sensata. La risposta è che
il limite esiste e vale CeI , dove e è un numero compreso tra 2 e 3, di fondamentale
importanza in matematica.
106 Analisi Matematica 1

Per dimostrare la correttezza della affermazione appena fatta, studiamo il caso


pilota di capitale unitario C = 1 e interesse unitario I = 1, corrispondente ad un tasso
del 100%. In altre parole, ci occupiamo solo del problema matematico di fondo.
� �n
1
Proposizione 1.20. La successione an = 1 + è crescente e limitata.
n
Dimostrazione. Applichiamo la formula del binomio di Newton:
� �n � n � �
1 n 1
1+ =
n k=0
k nk
�n
n(n − 1) · · · (n − k + 1) 1
=
k=0
k! nk
� � � �
1 �n� n − 1
�n
n−k+1
(1.36) = ···
k=0
k! n n n

Vogliamo utilizzare questa espressione per mostrare che la successione è crescente, ossia
che an < an+1 per ogni n. Innanzitutto
�n� �n − 1� �
n−k+1
� �
1
� �
k−1

(1.37) ··· = 1− ··· 1 −
n n n n n
� � � �
1 k−1
< 1− ··· 1 −
n+1 n+1
Quindi ogni addendo in (1.36) diviene più grande se sostituiamo n + 1 ad n. Inoltre,
la sommatoria corrispondente a an+1 contiene un addendo in più di quella per an . È
quindi chiaro che an < an+1 .
Ripartiamo da (1.36) per provare che la successione è limitata. Utilizzando la prima
uguaglianza in (1.37), si vede subito che il prodotto di tutti i termini entro parentesi è
un numero strettamente positivo e minore di uno. Vale perciò la stima
� �n � n
1 1
1+ ≤
n k=0
k!
1 1 1 1 1 1
= + + + + + ··· +
0! 1! 2! 3! 4! n!
1 1 1 1
=1+1+ + + + ··· +
2 3·2 4·3·2 n · (n − 1) · · · · · 3 · 2
1 1 1 1
<1+1+ + + + ··· +
2 2·2 2·2·2 �2 · ·��
· · · 2�
(n−1) fattori
� �
1 1 1 1
=1+ 1+ + 2 + 3 + · · · + n−1 .
2 2 2 2
Limiti e continuità 107

N

7
Sfruttando ora la formula xk = (1 − xN +1 )/(1 − x) valida per ogni x �= 1, si ha
k=0
� �n n−1 � �k

1 1 1 − (1/2)n 1
1+ ≤1+ =1+ <1+ = 3.
n k=0
2 1 − 1/2 1 − 1/2

Quindi la successione (an )n≥1 è limitata superiormente da 3, e inferiormente da zero.



Dalla precedente proposizione e dal Teorema 1.19 segue che la successione (an )n≥1 in
esame è convergente ad un numero reale, detto numero di Nepero e denotato tradizional-
mente e. In sintesi,
� �n
1
(1.38) lim 1 + = e.
n n
Con venti cifre decimali esatte risulta
e = 2.71828182845904523536...
Il numero e è irrazionale e quindi la sua espansione decimale non è finita. Esso viene
utilizzato come base naturale per il logaritmo. Le ragioni di questa scelta emergeranno
in modo chiaro nei prossimi capitoli. Scriveremo
exp x = ex log x = loge x
per l’esponenziale ed il logaritmo in base e. Salvo esplicito avviso del contrario, i
logaritmi saranno sempre in base e. Concludiamo questa sezione discutendo alcune
proprietà notevoli della funzione esponenziale ex .
Proposizione 1.21. Se x ∈ R \ {0} si ha
� � �n+1
x �n x
(1.39) 0< 1+ < 1+
n n+1
per ogni naturale n > −x.
Dimostrazione. La condizione n > −x garantisce che (1 + x/n) > 0, ossia la prima
diseguaglianza in (1.39). Riscriviamo la seconda nella forma
� �n � �n+1
n+x n+1+x
< ,
n n+1
che certamente non vale per x = 0 perché entrambi i membri sono in tal caso uguali
a uno. Se x �= 0 moltiplichiamo ambo i membri per (n/n + x)n+1 , che è una quantità
positiva, ed otteniamo:
� �n+1
n (n + 1 + x)n
(1.40) < .
n+x (n + 1)(n + x)
7Essa è nell’Esercizio 2 del Capitolo 1 per x ∈ Q \ {1} , ma vale naturalmente per x ∈ R \ {1} .
108 Analisi Matematica 1

Siccome il numeratore del membro destro è (n + 1 + x)n = (n + 1)n + xn mentre il


denominatore è (n + 1)(n + x) = (n + 1)n + xn + x = (n + 1 + x)n + x, esso si riscrive
� �n+1 � �n+1
(n + 1 + x)n −x
= 1+ .
(n + 1)(n + x) (n + 1)(n + x)
La disuguaglianza di Bernoulli (1.29) ci permette di concludere allora
� �n+1
−x −x n
1+ > 1 + (n + 1) =
(n + 1)(n + x) (n + 1)(n + x) n+x
in quanto −x/(n + 1)(n + x) > −1 nelle ipotesi fatte. Quindi (1.40) è dimostrata e
(1.39) è ad essa equivalente. �

Proposizione 1.22. Per ogni x ∈ R la successione di termine generale


� x �n
(1.41) en (x) = 1 + .
n
è limitata.
Dimostrazione. Se x < 0, ovviamente 1 + x/n < 1 e non appena il numero intero
positivo n soddisfa n > −x si ha 0 < 1 + x/n. Siccome 0 < 1 + x/n < 1, si ha anche
0 < (1 + x/n)n = en (x) < 1, il che prova l’asserto per x < 0. Se x = 0 si ha en (0) = 1
e non c’è nulla da dimostrare. Sia infine x > 0. In tal caso, dalla Proposizione 1.21
applicata a −x risulta che per n > n0 > x = −(−x) si ha
� �n � �n
−x −x 0
1+ > 1+ >0
n n0
e quindi
� � �−n0
x �−n x
(1.42) 0< 1− < 1− .
n n0
D’altra parte, per tali n si ha anche 0 < x/n < 1, cosicché 0 < (x/n)2 < 1 e quindi
� �n �
x2 x �n � x �n
0< 1− 2 = 1− 1+ < 1,
n n n
da cui ancora � x �n � x �−n
0< 1+ < 1− .
n n
Combinando quest’ultima diseguaglianza e (1.42) si ha che per n0 > x risulta
� �−n0
x
0 < en (x) < 1 − per n > n0 ,
n0
il che prova la limitatezza di (en (x))n≥1 per ogni x ∈ R. �
Dalle due proposizioni precedenti risulta che per ogni numero reale x, la successione
(en (x))n≥1 è positiva, definitivamente crescente e limitata. Sappiamo pertanto che essa
converge ad un numero reale positivo. Più precisamente, poniamo:
� x �n �� x �n �
(1.43) E(x) = lim 1 + = sup 1 + : n = 1, 2, . . . > 0.
n n n
Limiti e continuità 109

È evidente che E(1) = e. Si può dimostrare che la funzione x �→ E(x), che è definita
per ogni x ∈ R, soddisfa E(x + y) = E(x)E(y) per ogni x, y ∈ R. Il lettore curioso
trova questa dimostrazione in [DM]. Osserviamo che E(x) è monotona non decres-
cente. Se infatti x < y ed n0 è un intero positivo con n0 > −x > −y , allora per ogni
n > n0 tale diseguaglianza è verificata a fortiori e quindi 0 < 1 + x/n < 1 + y/n.
Prendendo le potenze n-esime, 0 < en (x) < en (y) definitivamente. Dal Teorema 1.6
segue che
E(x) = lim en (x) ≤ lim en (y) = E(y),
n n
come affermato. Le osservazioni appena fatte assumono una particolare rilevanza alla
luce del risultato che segue, la cui dimostrazione può essere trovata in [DM].
Teorema 1.23. Per ogni numero reale positivo a esiste una ed una sola funzione
monotona Ea : R → R che soddisfa le due seguenti condizioni:
(E0) Ea (1) = a;
(E1) Ea (x + y) = Ea (x)Ea (y).
Essa inoltre gode delle seguenti proprietà:
(E2) Ea (0) = 1;
(E3) Ea (R) = (0, +∞) se a �= 1;
(E4) Ea è crescente se a > 1 e decrescente se a < 1;
Poiché le funzioni esponenziali introdotte nella Sezione 8 del Capitolo 3 sono monotone,
e soddisfano (E0) ed (E1), si ha Ea = expa per ogni a > 0.
Il lettore è naturalmente invitato a confrontare le precedenti con le (E0)-(E4) della
Sezione 8 del Capitolo 3. Dal teorema precedente si evince che la funzione E(x)
introdotta in 1.43 è una funzione esponenziale, e poiché E(1) = e ci riferiamo alla
funzione esponenziale di base e. In altre parole
� x �n
(1.44) lim 1 + = ex . per ogni x ∈ R.
n n

y = ex

e4 (x) e2 (x)

e5 (x) e3 (x) e1 (x)


110 Analisi Matematica 1

Aggiungiamo alla nostra conoscenza di ex le fondamentali stime seguenti.


Proposizione 1.24. Valgono le diseguaglianze
(1.45) ex ≥ 1 + x per ogni x ∈ R
1
(1.46) ex ≤ per ogni x < 1.
1−x
Dimostrazione. Se x = 0, la (1.45) è una uguaglianza. Se x > −1 e x �= 0, allora
ogni numero intero positivo n soddisfa n > −x e quindi dalla Proposizione 1.21 si
ottiene la stretta monotonia en (x) < en+1 (x). In particolare abbiamo
1 + x = e1 (x) < en (x) < ex ,
cioè la (1.45) per x > −1. Se x ≤ −1 allora 1 + x ≤ 0 < ex , cosicché (1.45) vale
anche in questo caso. Per quanto riguarda la (1.46), scriviamo la (1.45) per −x, ossia
1 − x ≤ e−x . Siccome 0 < 1 − x, passando ai reciproci si ottiene
1 1
≥ −x = ex ,
1−x e
come volevasi. �
Nel disegno è raffigurato il significato grafico delle stime contenute nella Proposizione 1.24.

y = ex

1
ramo di y = 1−x

1
ramo di y = 1−x
y =x+1
Limiti e continuità 111

Corollario 1.25. Valgono le diseguaglianze


(1.47) log(1 + x) ≤ x per ogni x > −1
x
(1.48) log(1 + x) ≥ per ogni x > −1.
x+1
Dimostrazione. Si applichi il logaritmo ad entrambi i membri in (1.45) per ot-
tenere (1.47): naturalmente va supposto 1 + x > 0. Si consideri poi (1.46) con t al
posto di x. Ponendo y = 1/(1 − t) si ha y > 0 e t = 1 − y −1 , cosicché da (1.46) si
ottiene 1
e1− y ≤ y, y > 0.
e per la monotonia del logaritmo,
1
1 − ≤ log y, y > 0.
y
Scrivendo infine y = x + 1 si ha x > −1 e
x
≤ log(1 + x),
x+1
come desiderato. �
Nel disegno è raffigurato il significato grafico delle stime contenute nella Proposizione 1.25.

y=x

y = log(1 + x)

x
ramo di y = x+1
x
ramo di y = x+1

Vale la pena osservare che il disegno precedente è ottenuto mediante una opportuna
simmetria dal corrispettivo disegno per l’esponenziale. Quale?
112 Analisi Matematica 1

Esercizi

1. Per ogni intero non-negativo n, sia


n2 − 4n + 2
an = .
n2 + 1
(i) Calcolare, se esistono, sup A, inf A, max A e min A, dove A = {an : n =
0, 1, 2, . . . }.
(ii) Calcolare, se esiste, lim an .
n→+∞

2. Sia an = sin(n π2 ). Stabilire il carattere di ciascuna delle seguenti successioni (cioè


dire se è convergente, divergente oppure indeterminata).
(i) (bn )n≥1 , dove bn = nan ;
(ii) (cn )n≥1 , dove cn = n1 an ;
(iii) (dn )n≥1 , dove dn = cos(n π2 )an .
� �
n+1
3. Sia A = : n = 0, 1, 2, 3, . . . . Determinare, se esistono, sup A, inf A,
5n2 − 1
max A e min A.
� � �
16
4. Sia A = n 1 + 3 : n = 1, 2, 3 . . . . Determinare, se esistono, sup A, inf A,
n
max A e min A.
5. Si calcoli il limite lim an della successione (an )n≥1 , dove
n→+∞
� �√ � �
√ n+1 1
an = n + 1 log √ −√ .
n n
Limiti e continuità 113

2. Limiti di funzioni.
Siamo ora interessati a studiare il comportamento dei valori che una funzione as-
sume quando la variabile si avvicina indefinitamente ad un certo punto. Ciò si esprimerà
mediante la locuzione “il limite di f (x) per x che tende a x0 ”. Bisogna innanzitutto
chiarire quali siano i punti in cui abbia senso calcolare un limite. Essi sono quelli “at-
taccati” al dominio I di f : per calcolare f (x) dobbiamo restare in I . Il significato
di “attaccato” è l’oggetto della definizione che segue, per formulare la quale in modo
semplice è opportuno utilizzare la nozione di intervallo bucato centrato in un punto.
Dato x0 ∈ R, l’intervallo aperto centrato in x0 di semiampiezza δ > 0 è naturalmente
l’intervallo B(x0 , δ) = (x0 − δ, x0 + δ), come abbiamo visto nella Sezione 3 del Capi-
tolo 2. L’intervallo bucato centrato in x0 e di semiampiezza δ > 0 è semplicemente
B(x0 , δ) \ {x0 } = {x ∈ R : 0 < |x − x0 | < δ},
cioè l’intervallo stesso privato del suo centro, cioè di x0 .
Definizione 2.1. Siano I un sottoinsieme non vuoto di R e sia x0 ∈ R. Diremo
che x0 è un punto di accumulazione per I se ogni intervallo bucato centrato in x0
interseca I in almeno un punto, ossia se
per ogni δ > 0 : {x ∈ R : 0 < |x − x0 | < δ} ∩ I �= ∅.
Il significato della definizione precedente è il seguente: se x0 è di accumulazione
per I , è impossibile separarlo da I mediante un intervallo che non contenga altri punti
di I . Il fatto che x0 appartenga o meno ad I è in ogni caso inessenziale.
Esempi.
(28) Sia I = (0, 1). Innanzitutto, mostriamo che i punti di I sono tutti punti di
accumulazione per I . Infatti, se x0 ∈ I , allora se δ è sufficientemente piccolo (cioè
minore della distanza di x0 dal bordo di I , cioè minore di min{x0 , 1 − x0 }) allora tutto
l’intervallo B(x0 , δ) sarà contenuto in I : (B(x0 , δ) \ {x0 }) ∩ I = B(x0 , δ) \ {x0 } �= ∅.
Graficamente:
0 1
❡ � � �
� x0 − δ x0 x0 + δ �
( )

A maggior ragione l’intersezione sarà non vuota se si sceglie δ più grande.


Consideriamo ora x0 = 0. Anch’esso è un punto di accumulazione per I . Infatti,
ogni intervallo centrato nell’origine avrà intersezione non vuota con I . Più precisa-
mente, se 0 < δ < 1 allora (B(0, δ) \ {0}) ∩ (0, 1) = {x ∈ R : 0 < x < δ} = (0, δ) �= ∅.
Graficamente:
0 1
❡ � � �
−δ � δ �
( )

Anche in questo caso l’intersezione sarà a maggior ragione non vuota se si sceglie δ
più grande. Simili considerazioni valgono per il punto x0 = 1, che è anch’esso di
accumulazione per I .
114 Analisi Matematica 1

Se invece scegliamo x0 < 0, allora prendendo δ sufficientemente piccolo, cioè


δ < |x0 |, allora per ogni y ∈ B(x0 , δ) si ha y < x0 + |x0 | = x0 − x0 = 0 cosicché
(B(x0 , δ) \ {x0 }) ∩ (0, 1) = ∅ e x0 non è di accumulazione. Graficamente:
0 1
❡ � � �
−δ δ� �
( )
x0
Simili considerazioni valgono per i punti x0 > 1, che non sono di accumulazione per I .
Riassumendo, l’insieme dei punti di accumulazione di (0, 1) è l’insieme [0, 1]. Il lettore
è invitato a verificare che l’insieme dei punti di accumulazione di [0, 1] è ancora [0, 1].
(29) Consideriamo ora una semplice ma importante variante dell’esempio precedente.
Sia cioè I = (0, 1) ∪ {2}. Come nel caso precedente, sono di accumulazione per
I tutti i punti dell’intervallo chiuso [0, 1], e non sono di accumulazione tutti punti
della semiretta (−∞, 0), nè tutti quelli della semiretta (1, +∞) diversi da 2 (e la di-
mostrazione di queste asserzioni è lasciata per esercizio). Ci chiediamo se 2 sia di accu-
mulazione oppure no. La risposta è che nonostante 2 ∈ I , esso non è di accumulazione
per I . Infatti, preso δ = 1/2, l’intervallo bucato centrato in 2 e di semiampiezza 1/2
ha intersezione vuota con I . Infatti:
B(2, 1/2) ∩ ((0, 1) ∪ {2}) = {2} =⇒ (B(2, 1/2) \ {2}) ∩ ((0, 1) ∪ {2}) = ∅
Il punto cruciale è che si considerano gli intervalli bucati, in quanto si vuole determinare
se i punti vicini a x0 cadono in I oppure no, mentre non è rilevante sapere se x0 ∈ I
oppure no. Questa scelta à commisurata al nostro intento, che è di capire che cosa
succede quando ci si avvicina arbitrariamente ad x0 restando in I .
(30) Sia ora I = {1/n : n = 1, 2, 3 . . . }. Proviamo che 0 è di accumulazione per I .
In effetti, è sufficiente provare che se δ > 0, allora nell’intervallo (0, δ) cadono punti
di I . Ciò avviene se e solo se esiste un intero positivo n tale che 1/n < δ ossia tale
che nδ > 1, il che è garantito dalla archimedeità di R. Questo esempio bene illustra
la scelta della parola “accumulazione”: nonostante 0 �∈ I , i punti di I si accumulano
in 0, nel senso che è impossibile separare 0 da I mediante un intervallo.
(31) Consideriamo infine l’insieme I = R\{0}, che è il dominio naturale della funzione
f (x) = sin x/x da cui le nostre considerazioni introduttive erano partite. È evidente
che ogni punto di I è di accumulazione per I , in quanto esso è aperto8 e quindi ogni
intervallo di ampiezza sufficientemente piccola centrato in un suo qualunque punto è
completamente contenuto in I . A maggior ragione lo sarà il corrispondente intervallo
bucato. Ma anche l’origine è di accumulazione per I , in quanto per ogni δ > 0 si ha
B(0, δ) \ {0} ∩ I = B(0, δ) \ {0} = (−δ, 0) ∪ (0, δ), che è non vuoto.

2.1. Funzioni convergenti in un punto. Siamo finalmente in condizione di


poter dare una delle definizioni più importanti dell’Analisi Matematica.

8Si veda l’Esercizio 2 alla fine di questo capitolo.


Limiti e continuità 115

Definizione 2.2. Siano I ⊂ R non vuoto, x0 un punto di accumulazione per I ,


f : I → R una funzione e � ∈ R. Diremo che f converge ad � per x che tende a x0 ,
oppure che il limite di f per x che tende a x0 è �, e in tal caso scriveremo
lim f (x) = �, oppure f (x) −−−→ �
x→x0 x→x0

se per ogni ε > 0 esiste δε > 0 tale che se x ∈ I soddisfa 0 < |x − x0 | < δε , allora
|f (x) − �| < ε.
Il senso della definizione è questo: se fissiamo un margine di errore ε > 0, esisterà
una distanza δ (che dipende da ε) per la quale in tutti i punti x ∈ I che distino da
x0 per meno di δ (certo ve ne sono perché x0 è di accumulazione per I ) la funzione
assume un valore f (x) che differisce da � per meno di ε. In altri termini, fissata una
striscia di semiampiezza ε attorno al valore limite �, tutti i punti (x, f (x)) del grafico
di f saranno contenuti nella striscia purché x sia sufficientemente vicino a x0 .

�+ε

�−ε

f (x0 )

x0 − δ x0 + δ

Mettiamo ancora una volta in evidenza che il valore di f in x0 è del tutto irrilevante
ai fini del calcolo del limite per x che tende a x0 ; di fatto, non è neppure necessario
che esso sia definito, in quanto può benissimo aversi x0 �∈ I . Nella figura, f (x0 ) è più
piccolo del limite.
116 Analisi Matematica 1

Esempi.
(32) Vogliamo ora provare il fatto intuitivamente piuttosto ovvio che sin x → 0 per
x → 0. Abbiamo già detto diverse volte che per x piccolo e positivo si ha 0 < sin x < x.
Semplicissime considerazioni geometriche mostrano che la diseguaglianza precedente
può essere estesa alla disuguaglianza:
(2.49) | sin x| ≤ |x| per ogni x ∈ R.
Il segno di uguaglianza vale se e solo se x = 0. Va precisato che la (2.49) è tanto migliore
quanto minore è |x|. Più avanti impareremo a quantificare questa affermazione9. Fis-
siamo ε > 0. Se poniamo δ = ε, allora per 0 < |x| < δ risulta:
| sin x − 0| = | sin x| ≤ |x| < δ = ε.
Perciò per ogni ε > 0 esiste δ tale che se 0 < |x − 0| < δ allora | sin x − 0| < ε. Dalla
definizione di limite segue pertanto che
lim sin x = 0,
x→0

come desiderato.
(33) Consideriamo ora la semplicissima funzione lineare f (x) = ax + b, con a, b ∈ R.
Fissiamo x0 ∈ R e proviamo che
lim (ax + b) = ax0 + b.
x→x0

Se a = 0, la funzione in esame è costante (cioè f (x) = b) ed il limite presunto è


ovviamente la costante stessa (cioè � = b). Infatti, se ε > 0, qualsiasi scelta di δ > 0 va
bene, nel senso che per ogni x ∈ R (e quindi per quelle che verificano 0 < |x − x0 | < δ )
si ha |f (x) − �| = |b − b| = 0 < ε. Assumiamo pertanto che a �= 0 e fissiamo ε > 0. Se
scegliamo δ = ε/|a|, allora per 0 < |x − x0 | < δ risulta
ε
|f (x) − �| = |(ax + b) − (ax0 + b)| = |a(x − x0 )| = |a||x − x0 | < |a| = ε,
|a|
come volevasi.
(34) Diamo ora un esempio di funzione che non ammette limite in un punto di accu-
mulazione del suo dominio. È bene capire esattamente che cosa significhi in generale
che una funzione f : I → R non ammette alcun limite � ∈ R in un punto x0 . Una
prima possibilità è che x0 non sia un punto di accumulazione di I . In questo caso
non ha proprio senso porsi la domanda se esista o meno il limite. Assumiamo pertanto
che x0 sia di accumulazione per I . Allora l’affermazione che f non ammette alcun
limite reale10 significa che nessun numero reale � è un limite, ossia che ogni � ∈ R non
soddisfa la definizione di limite. In breve, dobbiamo verificare che per ogni � ∈ R esiste
un ε > 0 tale che comunque si fissi δ > 0 possiamo trovare x ∈ I per il quale si abbia
0 < |x − x0 | < δ ma |f (x) − �| > ε.
9Si
veda la sezione sugli sviluppi di Taylor.
10Al
momento ci riferiamo naturalmente ai limiti finiti. Si veda la sezione sui limiti infiniti per
una discussione più completa.
Limiti e continuità 117

Consideriamo la funzione definita da





1
se x > 0
 x+ 12
f (x) =


 11 se x < 0.
x− 2

Il suo dominio è I = R \ {0} e l’origine è un punto di accumulazione per I . Siccome su


entrambe le semirette (−∞, 0) e (0, +∞) la funzione è data da un ramo di iperbole,
non è difficile convincersi che il grafico di f è qualitativamente il seguente.

− 12
1
2

−1

Ora, se x ∈ (0, 1/2), allora 0 < x + 1/2 < 1 e quindi f (x) = 1/(x + 1/2) > 1. Se
invece x ∈ (−1/2, 0), allora −1 < x − 1/2 < 0 e quindi f (x) = 1/(x − 1/2) < −1.
Abbiamo provato il fatto ben evidenziato dal grafico che se x è positiva e vicina a 0
allora f (x) > 1, mentre se x è negativa e vicina a 0 allora f (x) < −1. Il lettore è
invitato a dedurre da queste osservazioni che non esiste alcun � ∈ R per il quale si
abbia f (x) → � per x → 0 (si fissi ε < 2).

(35) Proviamo ora, mediante la definizione, i due semplici limiti seguenti:

(2.50) lim cos x = cos x0


x→x0
(2.51) lim sin x = sin x0 .
x→x0

Dalle formule di prostaferesi


� � � �
β−α β+α
cos β − cos α = 2 sin sin
2 2
� � � �
β−α β+α
sin β − sin α = 2 sin cos
2 2
118 Analisi Matematica 1

otteniamo
� � � � ��
� x − x0 x + x0 ��

| cos x − cos x0 | = 2 �sin sin
2 2 �
� � ��
� x − x0 ��
≤ 2 ��sin �
2
� �
� x − x0 �
≤ 2 �� � = |x − x0 |.
2 �
Fissiamo ε > 0; basterà scegliere δ = ε per far si che se 0 < |x − x0 | < δ , allora
| cos x − cos x0 | < |x − x0 | < δ = ε. Il limite (2.51) si dimostra in modo analogo.
La maggior parte dei risultati riguardanti i limiti delle successioni possono essere
dimostrati mutatis mutandis per i limiti delle funzioni. Esiste tuttavia un risultato, di
interesse indipendente, che consente di trasferire i risultati già noti per le successioni
nell’ambito delle funzioni. Tale risultato, che andiamo adesso a dimostrare, consen-
tirebbe allo stesso modo di percorrere il cammino inverso: svolgere dapprima la teoria
per i limiti delle funzioni ed adattarla poi alle successioni11.
Teorema 2.3 (Limite fatto per successioni, I). Siano x0 un punto di accumu-
lazione per I ⊆ R, f : I → R e � ∈ R. Sono fatti equivalenti:
(i) lim f (x) = �;
x→x0
(ii) per ogni successione (xn )n≥0 di elementi di I \ {x0 } tale che xn → x0 si ha
lim f (xn ) = �.
n

Dimostrazione. “(i) ⇒ (ii).” Supponiamo che f (x) → � per x → x0 e sia (xn )n≥0
una successione di elementi di I \ {x0 } tale che xn → x0 . Fissato ε > 0 esiste δε > 0
tale che se x ∈ I e 0 < |x−x0 | < δε , allora |f (x)−�| < ε. Inoltre, in corrispondenza di
δε esisterà Nε = Nδε 12 tale che se n > Nε allora |xn − x0 | < δε . Siccome xn ∈ I \ {x0 },
si avrà anche 0 < |xn − x0 |, cosicché, per ipotesi, |f (xn ) − �| < ε. In altre parole,
fissato ε > 0 esiste Nε tale che se n > Nε allora |f (xn ) − �| < ε, cioè f (xn ) → �.
“(ii) ⇒ (i).” Viceversa, assumiamo che per ogni successione (xn )n≥0 di elementi
di I \ {x0 } tale che xn → x0 si abbia f (xn ) → �. Supponiamo per assurdo che (i)
sia falsa. Quindi esisterà ε > 0 tale che per ogni δ > 0 possiamo trovare xδ ∈ I
con 0 < |xδ − x0 | < δ per il quale risulta |f (xδ ) − �| ≥ ε. In paticolare, scelto un
intero positivo qualsiasi n e posto δ = 1/n, esisterà xn ∈ I con 0 < |xn − x0 | < 1/n
per il quale risulta |f (xn ) − �| ≥ ε. Gli elementi della successione (xn )n≥0 sono tutti
in I \ {x0 } per costruzione. Se proviamo che essa converge a x0 avremo trovato
una contraddizione, in quanto la disuguaglianza |f (xn ) − �| ≥ ε, vera per ogni n, ci
assicura che (f (xn ))n≥0 non converge a �, contro l’ipotesi. D’altra parte, per ogni
η > 0 possiamo trovare un Nη tale che se n > Nη allora 1/n < η ; quindi per ogni
n > Nη avremo che |xn − x0 | < 1/n < η , ossia xn → x0 , come desiderato. �

11Si veda anche la verione più completa nella Sezione 2.3, ossia il Teorema 2.18
12Osserviamo che δε dipende da ε e che Nδε dipende da δε , quindi da ε . Perciò scriviamo Nε
Limiti e continuità 119

Oltre all’interesse di natura teorica, che tra poco sfrutteremo, il Teorema 2.3 è
anche, per cosı̀ dire, di utilità pratica. Esso è infatti uno strumento molto efficace per
dimostrare che una funzione non ha limite.
Esempi.
(36) Consideriamo la funzione a gradino definita da


1 se x > 0
(2.52) f (x) = 0 se x = 0

−1 se x < 0,

il cui grafico è:

−1

Utilizziamo il Teorema 2.3 per provare il fatto (del tutto ovvio) che il limite di f
per x → 0 non esiste. Si considerino le succesioni di termine generale xn = 1/n
e yn = −1/n, entrambe convergenti a x0 = 0. Siccome f (xn ) = 1 per ogni n e
f (yn ) = −1 per ogni n, ovviamente f (xn ) → 1 e f (yn ) → −1. Abbiamo trovato
due successioni (xn )x≥1 e (yn )x≥1 di elementi non nulli (cioè diversi da x0 = 0) che
convergono a x → 0 e per le quali risulta limx→x0 f (xn ) �= limx→x0 f (yn ). In virtù
del Teorema 2.3 il limite di f per x → 0 non esiste. Infatti, se esso esistesse allora i
due limiti limx→x0 f (xn ) e limx→x0 f (yn ) non solo dovrebbero esistere, ma dovrebbero
soprattutto essere uguali.
(37) Illustriamo un altro esempio nello stesso spirito del precedente. Introduciamo la
funzione � �
1
f (x) = sin .
x
Il
Il grafico
bizzarroqualitativo
aspetto didiquesto
f è: grafico merita senz’altro più di un commento. Innanzi-
tutto, f è definita solo per x �= 0. In secondo luogo, sicuramente si avrà −1 ≤ f (x) ≤ 1
in quanto tali diseguaglianze valgono per il seno di un qualunque numero reale.
Cerchiamo infine di capire la ragione dell’infittirsi delle oscillazioni vicino all’origine.
In effetti, se x varia in un piccolo intervallo vicino all’origine, ad esempio nell’intervallo
[(2000 π)−1 , (1000 π)−1 ], che è di ampiezza minore di 1/3000 e dista meno di 1/6000
dall’origine, allora il reciproco 1/x di x varia in un grande intervallo lontano dall’origine:
120 Analisi Matematica 1

esso infatti varia in [1000 π, 2000 π] che è di ampiezza maggiore di 3000 e dista dall’origi-
ne più di 3000. Quindi, come x percorre una brevissima distanza, 1/x ne percorre una
enorme, nella quale il seno oscilla moltissime volte. Nel nostro esempio, nell’intervallo
[1000 π, 2000 π], che misura 1000 π , il seno compie 500 oscillazioni complete. In ultima
analisi, nell’intervallo [(2000 π)−1 , (1000 π)−1 ] la funzione f oscilla 500 volte!
Naturalmente, ci aspettiamo che una funzione dal comportamento cosı̀ repentina-
mente oscillante non abbia limite, e cosı̀ è. Consideriamo infatti le succesioni di termine
generale
1 1
xn = π , yn = 3π .
2
+ 2nπ 2
+ 2nπ
Evidentemente, xn → 0 e yn → 0. Inoltre,
�π �
f (xn ) = sin + 2nπ = 1
�2 �

f (yn ) = sin + 2nπ = −1
2
per ogni n. Ne segue che f (xn ) → 1 mentre f (yn ) → −1, il che prova che il limite
non esiste. Si osservi che la scelta di xn e di yn è stata fatta in modo da selezionare i
“picchi” e le “valli” che si susseguono sempre più frequentemente all’avvicinarsi di x a
x0 = 0 da destra.
Passiamo ora ad utilizzare il Teorema 2.3 da un punto di vista più teorico. Lo
schema concettuale che abbiamo in mente può riassumersi come segue: se conosciamo
un risultato vero per le successioni, possiamo tradurlo per le funzioni alla luce del
Teorema 2.3. Infatti tutti i principali risultati di convergenza che abbiamo dimostrato
per le successioni nella sezione precedente ammettono una opportuna riformulazione
per le funzioni. Naturalmente, è anche possibile dimostrarli in modo diretto, cioè senza
far ricorso al Teorema 2.3. Le dimostrazioni13 sono lasciate per esercizio al lettore, che
può opinare per una dimostrazione diretta o mediante il Teorema 2.3.
Teorema 2.4 (Confronto I). Siano f, g : I → R due funzioni, x0 un punto di
accumulazione per I e supponiamo f (x) → � e g(x) → m per x → x0 .
(i) Se esiste un intorno bucato di x0 nei punti del quale si ha f (x) < g(x) oppure
f (x) ≤ g(x), allora � ≤ m;
13I quattro risultati che seguono valgono anche se x → +∞ oppure x → −∞; si veda la Sezione 2.3
per il significato da attribuire a queste locuzioni, e come vada intesa in tal caso l’espressione “intorno”.
Limiti e continuità 121

(ii) se � < m, allora esiste un intorno bucato di x0 nei punti del quale f (x) <
g(x);
(iii) se � < λ ∈ R (rispettivamente � > µ ∈ R), allora allora esiste un intorno
bucato di x0 nei punti del quale risulta f (x) < λ (rispettivamente f (x) > µ).
Corollario 2.5 (Permanenza del segno). Se lim f (x) = � �= 0, allora esiste
x→x0
un intorno bucato di x0 nei punti del quale f ha il segno di �.
Teorema 2.6 (Confronto II, o “Teorema dei carabinieri”). Siano f, g e h
tre funzioni definite su I ⊆ R, sia x0 di accumulazione per I e supponiamo che
(A) f (x) → � e h(x) → � per x → x0 ;
(B) esiste un intorno bucato di x0 nei punti del quale risulta f (x) ≤ g(x) ≤ h(x).
Allora esiste anche lim g(x) e lim g(x) = �.
x→x0 x→x0

Teorema 2.7 (Algebra dei limiti). Siano f, g : I → R due funzioni, x0 di


accumulazione per I e supponiamo f (x) → � e g(x) → m per x → x0 . Allora, per
x → x0 si ha:
(i) |f (x)| → |�|;
(ii) f (x) + g(x) → � + m;
(iii) f (x)g(x) → �m;
(iv) per ogni λ ∈ R, λf (x) → λ�;
(v) se m �= 0, allora14 f (x)/g(x) → �/m.

Esempi.
(38) Nell’Esempio (15) è stata vista l’importante stima elementare
sin x
0 < cos x < < 1,
x
vera per valori “piccoli e positivi” di x, ad esempio per x ∈ (0, π/2). Poiché le funzioni
cos x, sin x/x e 1 sono pari, la stessa stima varrà per valori “piccoli e negativi” di x,
ad esempio per x ∈ (−π/2, 0).

14Al solito, si deve applicare il teorema di permanenza del segno per dare senso al quoziente.
122 Analisi Matematica 1

Quindi nell’intorno bucato (−π/2, π/2) \ {0} si presenta una situazione nella quale è
possibile applicare il Teorema dei carabinieri. Se ne conclude il limite fondamentale
sin x
(2.53) lim =1
x→0 x

da cui le nostre considerazioni introduttive erano partite.


(39) Abbiamo già visto nell’Esempio (20) l’identità
� �2
1 − cos x sin x 1
2
= .
x x 1 + cos x
Applicando ripetutamente l’algebra dei limiti, otteniamo l’altro limite notevole
1 − cos x 1
(2.54) lim = .
x→0 x2 2
(40) Consideriamo ora le diseguaglianze viste nella Proposizione 1.24 in un intorno
(bucato) di x0 = 0, ossia
1
1 + x ≤ ex ≤ .
1−x
La prima può essere riscritta ex − 1 ≥ x e la seconda ex − 1 ≤ x/(1 − x). Dividendo
per x > 0 si ottiene
ex − 1 1
1≤ ≤ , x>0
x 1−x
mentre dividendo per x < 0 si ha
1 ex − 1
≤ ≤ 1, x < 0.
1−x x
Posto pertanto
� �
1
se x < 0 1 se x < 0
f (x) = 1−x h(x) = 1
1 se x > 0 1−x
se x > 0
siamo nuovamente nelle ipotesi del Teorema dei carabinieri, nel senso che
ex − 1
f (x) ≤ ≤ h(x)
x
vale in un intorno bucato di x0 = 0. Poiché f (x) → 0 e h(x) → 0 per x → 0 (come il
lettore è invitato a dimostrare per esercizio) possiamo concludere che
ex − 1
(2.55) lim = 1.
x→0 x
(41) Considerando le diseguaglianze viste nella Proposizione 1.25 ed arguendo in modo
analogo al caso precedente, si ottiene il limite notevole
log(1 + x)
(2.56) lim = 1.
x→0 x
Limiti e continuità 123

Nel processo di estensione dei risultati dalle successioni alle funzioni è naturale
chiedersi se valga l’analogo della Proposizione 1.9. A tal fine premettiamo la seguente
importante definizione
Definizione 2.8. Una funzione f : I → R si dice limitata se l’insieme dei suoi
valori è un sottoinsieme limitato di R. Equivalentemente,15 essa è limitata se esiste
M ≥ 0 tale che |f (x)| ≤ M per ogni x ∈ I .
Proposizione 2.9. Se f converge a � ∈ R per x → x0 , esiste un intervallo bucato
centrato in x0 su cui f è limitata16.
Dimostrazione. Sia ε > 0. Siccome f (x) → � per x → x0 , esisterà δ > 0 tale che
se x ∈ B(x0 , δ) \ {x0 }, allora |f (x) − �| < ε. Quindi in tale intervallo bucato si ha
� − ε < f (x) < � + ε, come volevasi. �
Si potrebbe riassumere il risultato precedente nell’affermazione: se f è convergente
in x0 , allora essa è localmente limitata in x0 . Il significato della parola “localmente”
è evidentemente riferito all’esistenza di un intervallo bucato, magari piccolo, nei punti
del quale l’asserto è vero. L’implicazione opposta è falsa: la funzione a gradino definita
in (2.52) è limitata e quindi lo è in ogni intervallo bucato centrato nell’origine; d’altra
parte essa non converge per x → 0.

2.2. Limiti da destra e da sinistra. Passiamo ora a raffinare un poco il concetto


di limite, consentendo alla variabile di avvicinarsi al punto x0 da una sola direzione,
ossia, per esempio, da destra. Ciò sarà possibile se il punto x0 ha alla sua destra
punti arbitrariamente vicini che facciano parte dell’insieme di definizione della fun-
zione in esame. In altre parole, è necessario formalizzare l’idea che un punto x0 di
accumulazione per I aderisce ad esso da destra o da sinistra o da entrambi i lati.
Definizione 2.10. Siano I ⊆ R e x0 ∈ R. Diremo che:
(i) x0 è un punto di accumulazione per I da destra, ovvero, che i punti di I si
accumulano in x0 da destra, se per ogni δ > 0 risulta (x0 , x0 + δ) ∩ I �= ∅;
(ii) x0 è un punto di accumulazione per I da sinistra, ovvero, che i punti di I si
accumulano in x0 da sinistra, se per ogni δ > 0 risulta (x0 − δ, x0 ) ∩ I �= ∅;
Ad esempio, i punti di (0, 1) si accumulano in 0 da destra, come illustrato nel
seguente disegno.
0 1
✉ � � �
� δ �
)

La seguente proposizione mette in relazione le varie nozioni di punto di accumulazione.


Proposizione 2.11. Siano I ⊆ R e x0 ∈ R. Allora:
15Si veda l’Esrecizio 6.
16La Proposizione 2.9 vale anche se x → +∞ oppure se x → −∞; si veda la Sezione 2.3 per il
significato da attribuire a queste locuzioni, e come vada intesa in tal caso l’espressione “intervallo”.
124 Analisi Matematica 1

(i) x0 è di accumulazione per I se e solo se x0 è di accumulazione da destra


oppure17 da sinistra;
(ii) se x0 è di accumulazione sia da destra sia da sinistra per I , allora è di accu-
mulazione.
Dimostrazione. (i) Sia x0 sia un punto di accumulazione per I e supponiamo
per assurdo che esso non sia di accumulazione né da destra, né da sinistra. Al-
lora esisteranno δ− e δ+ tali che (x0 − δ− , x0 ) ∩ I = ∅ e (x0 , x0 + δ+ ) ∩ I = ∅.
Ma allora, posto δ = min{δ− , δ+ }, si ha ((x0 − δ, x0 ) ∪ (x0 , x0 + δ)) ∩ I = ∅, ossia
(B(x0 , δ) \ {x0 }) ∩ I = ∅, in contraddizione con l’ipotesi che x0 è di accumulazione.
Viceversa, se x0 è di accumulazione per I da destra allora per ogni δ > 0 risulterà
((B(x0 , δ) \ {x0 }) ∩ I) ⊇ (x0 , x0 + δ) ∩ I �= ∅, cosicché x0 è di accumulazione per I .
Similmente si ragiona se x0 è di accumulazione per I da sinistra.
(ii) È una ovvia conseguenza di (i). �
Osserviamo che l’implicazione opposta a quella in (ii) non è vera. In effetti, 0 è di
accumulazione da destra per (0, 1) ma non lo è da sinistra; esso è però di accumulazione.
Definizione 2.12. Siano I ⊆ R e f : I → R.
(i) Sia x0 di accumulazione per I da destra. Diremo che il limite per x che tende
a x0 da destra di f è � ∈ R, ed in tal caso scriveremo
lim f (x) = �, oppure f (x) −−−→ �,
x→x+
0 x→x0+

se per ogni ε > 0 esiste δε > 0 tale che se x ∈ I soddisfa 0 < x − x0 < δε ,
allora |f (x) − �| < ε. Chiameremo � il limite destro di f in x0 .
(ii) Sia x0 di accumulazione per I da sinistra. Diremo che il limite per x che
tende a x0 da sinistra di f è � ∈ R, ed in tal caso scriveremo
lim f (x) = �, oppure f (x) −−−→ �,
x→x−
0 x→x0−

se per ogni ε > 0 esiste δε > 0 tale che se x ∈ I soddisfa 0 < x0 − x < δε ,
allora |f (x) − �| < ε. Chiameremo � il limite sinistro di f in x0 .

Esempi.
(42) Sia f (x) = x/|x|. Essa è definita in R \ {0} e vale 1 sulla semiretta positiva e
−1 sulla semiretta negativa. È pertanto del tutto evidente che
x x
lim+ = 1, lim− = −1.
x→x0 |x| x→x0 |x|

Proposizione 2.13. Siano I ⊆ R, x0 ∈ R un punto di accumulazione sia da


destra sia da sinistra per I e sia f : I → R. Sono fatti equivalenti:
(i) esiste lim f (x) = � ∈ R;
x→0
(ii) esistono lim+ f (x) = lim− f (x) = � ∈ R.
x→0 x→0

17In
questo caso la parola “oppure” va inteso nel senso non disgiuntivo, ossia che almeno una delle
due affermazioni è vera.
Limiti e continuità 125

Dimostrazione. Supponiamo che f (x) → � per x → x0 . Si fissi ε > 0. Esiste allora


δ > 0 tale che se x ∈ I soddisfa 0 < x − x0 < δ oppure 0 < x0 − x < δ , ossia se
0 < |x − x0 | < δ , allora risulta |f (x) − �| < ε. Quindi esistono entrambi i limiti destro
e sinistro e sono uguali a �. Viceversa, se limite destro e sinistro esistono entrambi e
sono uguali a � ∈ R, allora fissato ε > 0 esisteranno δ+ > 0 e δ− > 0 tale che se x ∈ I
soddisfa 0 < x − x0 < δ+ risulta |f (x) − �| < ε, e se x ∈ I soddisfa 0 < x0 − x < δ−
risulta |f (x) − �| < ε. Posto δ = min{δ+ , δ− }, per x ∈ I tale che 0 < |x − x0 | < δ si
avrà |f (x) − �| < ε. Quindi f converge a � in x0 . �
La Proposizione 2.13 si applica per lo più per verificare che una funzione non ha
limite in un punto, nel caso cioè in cui i limiti destro e sinistro esistano ma siano diversi.
126 Analisi Matematica 1

2.3. Funzioni divergenti e limiti a più e meno infinito. Cosı̀ come per le
successioni, si formalizza il concetto di funzione che diviene arbitrariamente grande (o
grandemente negativa) all’avvicinarsi della variabile ad un punto mediante i simbili
matematici “+∞” e “−∞”.
Definizione 2.14. Siano I ⊂ R non vuoto, x0 un punto di accumulazione per I
e f : I → R una funzione.
(i) Diremo che f diverge a +∞ per x che tende a x0 , oppure che il limite di f
per x che tende a x0 è +∞, e in tal caso scriveremo
lim f (x) = +∞, oppure f (x) −−−→ +∞
x→x0 x→x0

se per ogni K > 0 esiste δK > 0 tale che se x ∈ I soddisfa 0 < |x − x0 | < δK ,
allora f (x) > K .
(ii) Diremo che f diverge a −∞ per x che tende a x0 , oppure che il limite di f
per x che tende a x0 è −∞, e in tal caso scriveremo
lim f (x) = −∞, oppure f (x) −−−→ −∞
x→x0 x→x0

se per ogni K > 0 esiste δK > 0 tale che se x ∈ I soddisfa 0 < |x − x0 | < δK ,
allora f (x) < −K .
I concetti espressi nella definizione precedente sono illustrati qui sotto.

x0 − δ x0 + δ

Si osservi che la scelta di δ nella Definizione 2.14 dipende naturalmente da K .


Come avremo modo di sottolineare ancora, tale scelta è fatta in modo che l’intervallo
U = B(x0 , δ) soddisfi f (U \ {x0 }) ⊂ V , dove V è la semiretta (K, +∞). È importante
notare che il ruolo svolto dall’intervallo B(�, ε) nel caso della Definizione 2.2 è ora svolto
da (K, +∞). In altre parole, possiamo suggestivamente pensare che una semiretta del
tipo (K, +∞) sia un “intorno di +∞”, allo stesso modo in cui B(�, ε) è un intorno
di �. Vi è perciò una grande similitudine nelle due definizioni: gli intorni (bucati) di
x0 devono essere mandati da f in intorni del valore limite, sia esso finito o meno. Più
Limiti e continuità 127

precisamente, fissato un intorno V del valore limite, deve esistere un intorno U di x0


che, privato di x0 , va a finire in V , ossia tale che f (U \ {x0 }) ⊂ V .

f (U \ {x0 })

Esempi.
(43) Esempi naturali di funzioni divergenti in un punto sono costruiti mediante potenze
negative. Ad esempio f (x) = |x − x0 |−1 , ma anche f (x) = |x − x0 |−n con n intero
positivo. Infatti, fissato K > 0 e scelto δ = K −1/n , se 0 < |x − x0 | < δ = K −1/n ,
allora |x − 1|−n > δ −n = K .
(44) Sia f (x) = | tan x| e sia x0 = π/2. Sappiamo già che per x → π/2 il coseno
tende a zero. Fissato perciò K > 0 e posto ε = 1/(2K) esisterà δK tale che se
0 < |x − π/2| < δK allora | cos x| < ε = 1/(2K). Poiché inoltre il seno tende a uno
per x → π/2, possiamo certamente fare in modo che per 0 < |x − π/2| < δK si abbia
| sin x| > 1/2. Ma allora per le stesse x si ha
� �
� sin x � 1 1
| tan x| = �� �> > K,
cos x � 2 |cos x|

(45) Il lettore non avrà difficoltà ad estendere quanto visto nella Sezione 2.2 al caso
di funzioni divergenti: la definizione di funzione divergente (a +∞ oppure a −∞) per

x → x+0 oppure per x → x0 è lasciata per esercizio. Sarà poi facile provare che

lim tan x = +∞ lim tan x = −∞


x→ π2 − x→ π2 +

riadattando opportunamente le considerazioni fatte nell’esempio precedente.


Il quadro delle possibili nozioni di limite per funzioni definite su sottoinsiemi di R
si completa mediante la nozione di limite “per x → +∞” oppure “per x → −∞”.
È utile a questo proposito richiamare le considerazioni svolte poco sopra circa l’idea
128 Analisi Matematica 1

intuitiva che le semirette U = (a, +∞) oppure U = (−∞, a) possano riguardarsi come
intorni, rispettivamente, di +∞ e di −∞. Chiariamo una volta ancora che né +∞,
né −∞ sono numeri reali e che quindi le espressioni appena usate vanno prese con
beneficio di inventario. Il loro scopo è semplicemente quello di guidare il lettore verso
un processo di sintesi che permetta di intravvedere come di fatto la nozione di limite sia
una ed una sola, e che essa viene di volta in volta adattata alla circostanza particolare
in cui si deve operare.
Definizione 2.15. Siano I ⊆ R, f : I → R una funzione e � ∈ R. Supponiamo
che per qualche a ∈ R sia (a, +∞) ⊆ I . Diremo che f converge ad � per x che tende
a +∞, oppure che il limite di f per x che tende a +∞ è �, e in tal caso scriveremo
lim f (x) = �, oppure f (x) −−−−→ �
x→+∞ x→+∞

se per ogni ε > 0 esiste K > a tale che se x > K , allora |f (x) − �| < ε.
La definizione precedente dovrebbe richiamare immediatamente la definizione rela-
tiva alle successioni. In effetti, il disegno che la illustra è del tutto analogo.

a
K

Facciamo osservare che anche questa definizione può essere riformulata mediante
il linguaggio degli intorni: dato un intorno V di � (ossia un intervallo centrato in �)
deve esistere un intorno U di +∞ (ossia una semiretta del tipo (K, +∞)) tale che
f (U ) ⊂ V . In questo caso c’è una ulteriore sottigliezza di cui tener conto: non è
necessario “bucare” l’intorno U di +∞ in quanto esso non contiene ciò che sarebbe
necessario togliere, ossia “+∞”, che non è un numero reale.
Le definizioni esplicite di
lim f (x) = +∞, lim f (x) = −∞,
x→+∞ x→+∞

lim f (x) = �, lim f (x) = +∞, lim f (x) = −∞


x→−∞ x→−∞ x→−∞
sono lasciate al lettore (si veda l’Esercizio 9).
Dovrebbe essere a questo punto chiaro che, diversamente dalle successioni, per le
quali la variabile intera n ha una sola “meta” alla quale tendere, per le funzioni esistono
essenzialmente due casi distinti: i limiti al finito (cioè quelli per x → x0 con x0 ∈ R), e
quelli all’infinito (cioè per x → +∞ o per x → −∞). Molti risultati valgono tanto al
Limiti e continuità 129

finito quanto all’infinito, e sarebbe assai pedante formulare tutti i possibili enunciati.
Vorremo invece poter scrivere

lim f (x), p ∈ R ∪ {±∞}


x→p

e coprire tutti i casi simultaneamente. Inoltre, vi sono enunciati che valgono sia nel
caso in cui il limite sia un numero reale � ∈ R, sia nel caso in cui la funzione in
esame diverga a +∞ oppure a −∞. Queste considerazioni giustificano l’introduzione
di definizioni generali, che procediamo a dare sulla scorta delle discussioni svolte in
precedenza. Stipuliamo innanzitutto una convenzione.

Convenzione 2.16. Sia p ∈ R ∪ {±∞}. Chiameremo intorno di p un insieme


che contiene:
(i) un intervallo aperto B(p, δ) se p ∈ R;
(ii) una semiretta del tipo (a, +∞) se p = +∞;
(iii) una semiretta del tipo (−∞, a) se p = −∞.
Un intorno bucato di p è un insieme del tipo U \ {p}, dove U è un intorno di p. Se
p = ±∞, le espressioni “intorno” e “intorno bucato” assumono le stesso significato:
infatti U \ {p} = U , in quanto p �∈ U . Infine, diremo che p è di accumulazione per un
insieme I se ogni intorno bucato di p ha intersezione non vuota con I .

Possiamo finalmente procedere alla definizione generale di limite cui abbiamo alluso
già diverse volte.

Definizione 2.17. Siano I ⊂ R, p ∈ R ∪ {±∞} di accumulazione per I , e sia


f : I → R. Diremo che il limite di f per x che tende a p è q ∈ R ∪ {±∞}, ed in tal
caso scriveremo
lim f (x) = q oppure f (x) −−→ q
x→p x→p

se per ogni intorno V di q esiste un intorno U di p tale che f (U \ {p}) ⊆ V .

Molti dei risultati già visti si estendono al caso p ∈ R ∪ {±∞}. Per semplicità
tuttavia, non procediamo ad una riformulazione esplicita nel caso x → +∞ oppure
x → −∞. Il lettore è invitato a verificare che il Teorema 2.4 e il suo Corollario 2.5,
nonché il Teorema 2.6, il Teorema 2.7 e la Proposizione 2.9, possono essere enunciati
tenendo conto della Convenzione 2.16, ovvero della Definizione 2.17.
La definizione generale di limite è inoltre molto utile per descrivere l’algebra (este-
sa) dei limiti delle funzioni. Come per le successioni, ci limitiamo ad uno schema
riassuntivo. Nella tabella che segue p ∈ R ∪ {±∞}, mentre f e g sono due funzioni
definite su uno stesso insieme, che ha p come punto di accumulazione. Al solito,
l’acronimo “F.I.” sta per “forma indeterminata”, e si riferisce a situazioni nelle quali
non si hanno a disposizione informazioni sufficienti per poter concludere. Per ciascuna
forma indeterminata presente nella tabella, il lettore è invitato a produrre esempi nei
quali la somma (o il prodotto) tende a zero, oppure converge a � ∈ R \ {0}, o diverge
a +∞ o diverge a −∞.
130 Analisi Matematica 1

lim f (x) lim g(x) lim f (x) + g(x) lim f (x)g(x)


x→p x→p x→p x→p
�>0 +∞ +∞ +∞
�>0 −∞ −∞ −∞
�<0 +∞ +∞ −∞
(2.57) �<0 −∞ −∞ +∞
0 +∞ +∞ F.I.
0 −∞ −∞ F.I.
+∞ +∞ +∞ +∞
−∞ −∞ −∞ +∞
+∞ −∞ F.I. −∞

Un altro risultato che può essere esteso al caso p = ±∞ è l’importante Teorema 2.3.
In effetti, adattando la dimostrazione già vista, non è difficile dimostrare la seguente
versione completa del teorema.
Teorema 2.18 (Limite fatto per successioni, II). Siano p ∈ R ∪ {±∞} di
accumulazione per I , f : I → R e q ∈ R ∪ {±∞}. Sono fatti equivalenti:
(i) lim f (x) = q ;
x→p
(ii) per ogni successione (xn )n≥0 di elementi di I \ {p} tale che xn → p, si ha
lim f (xn ) = q .
n

Il quadro dei risultati generali sui limiti si va via via completando. Passiamo ora
a considerare funzioni infinitesime e funzioni monotone. A tale scopo ribadiamo la
Definizione 1.16 nel caso delle funzioni.
Definizione 2.19. Siano p ∈ R ∪ {±∞} di accumulazione per I e f : I → R.
Diremo che f è infinitesima per x → p se lim f (x) = 0.
x→p

I seguenti risultati si dimostrano direttamente, oppure adattando, mediante il Teo-


rema 2.18, gli analoghi risultati per le successioni.
Proposizione 2.20. Siano p ∈ R ∪ {±∞} di accumulazione per I e f : I → R.
(i) Se f (x) diverge per x → p, allora 1/f (x) è infinitesima per x → p;
(ii) se f (x) è positiva in un intorno bucato di p e infinitesima per x → p, allora
1/f (x) → +∞ per x → p;
(iii) se f (x) è negativa in un intorno bucato di p e infinitesima per x → p, allora
1/f (x) → −∞ per x → p.
Proposizione 2.21. Siano p ∈ R ∪ {±∞}, I un intorno di p e f, g : I → R.
Se f è limitata in un intorno bucato di p e g è infinitesima per x → p, allora f g è
infinitesima per x → p.
Un poco più delicata è l’estensione al caso delle funzioni dei risultati che riguardano
le funzioni monotone.
Limiti e continuità 131

Teorema 2.22. Siano p ∈ R ∪ {±∞} e sia f : I → R non decrescente in I .


(i) Se p ∈ R è di accumulazione per I da sinistra, allora

lim f (x) = sup{f (x) : x ∈ I, x < p}.


x→p−

(ii) Se p ∈ R è di accumulazione per I da destra, allora

lim f (x) = inf{f (x) : x ∈ I, x > p}.


x→p+

(iii) Se p = +∞ è di accumulazione per I , allora lim f (x) = sup{f (x) : x ∈ I}.


x→+∞
(iv) Se p = −∞ è di accumulazione per I , allora lim f (x) = inf{f (x) : x ∈ I}.
x→−∞

Evidentemente, il Teorema 2.22 ha una riformulazione per le funzioni non crescenti.

Esempi.

(46) Applichiamo il Teorema 2.22 all’importante caso delle funzioni esponenziale e


logaritmo in base naturale18. Poiché sia exp : R → (0, +∞) sia log : (0, +∞) → R
sono monotone crescenti e surgettive, da (iii) del Teorema 2.22 avremo

lim ex = sup {ex : x ∈ R} = sup (0, +∞) = +∞


x→+∞
lim log x = sup {log x : x ∈ (0, +∞)} = sup R = +∞.
x→+∞

Utilizzando (iv) e (ii) del Teorema 2.22 avremo inoltre

lim ex = inf {ex : x ∈ R} = inf (0, +∞) = 0


x→−∞
lim log x = inf {log x : x ∈ (0, +∞)} = inf R = −∞.
x→0+

(47) Mediante il Teorema 2.22 si dimostra in modo immediato che

(2.58) lim tan x = −∞, lim tan x = +∞


x→−π/2+ x→π/2−

e similmente che
π π
(2.59) lim arctan x = − , lim arctan x = .
x→−∞ 2 x→+∞ 2

18I risultati che seguono sono ancora veri se si prende una qualunque base a > 1 . Che cosa
succede invece se a < 1 ?
132 Analisi Matematica 1

2.4. Cambiamento di variabile nel calcolo dei limiti. Supponiamo di voler


calcolare il seguente semplice limite
log (1 + sin x)
lim .
x→0 x
Ricordando i limiti notevoli (2.53) e (2.56), verrebbe naturale scrivere dapprima
log (1 + sin x) log (1 + sin x) sin x
=
x sin x x
e poi arguire come segue. Il secondo fattore sin x/x tende a uno. Nel primo fattore,
poniamo y = sin x. Siccome y = sin x → 0 per x → 0, utilizzando (2.56) si ha
log (1 + sin x) log (1 + y)
= −−→ 1,
sin x y y→0

e il limite cercato vale uno. Il ragionamento svolto è plausibile, ma non è giustificato da


alcun teorema visto finora. Esso mostra però quanto possa essere desiderabile procedere
ad un cambio di variabile, ovvero di sostituzione, nel calcolo di un limite: vogliamo
calcolare il limite della funzione composta g ◦ f (nel nostro caso g = log(1 + y)/y e
f (x) = sin x) e siamo tentati di concludere che esso coincide con il limite della funzione
esterna g per y → y0 , se y0 è il limite della funzione interna f per x → x0 .
Il procedimento sopra descritto è effettivamente lecito in certe circostanze. Noi ci
limitiamo a trattare un caso che si presenta spesso e che richiede una certa regolarità19
della funzione esterna g . Risultati più generali si possono trovare in [DM].
Teorema 2.23 (Cambio di variabile). Siano p, q ∈ R ∪ {±∞} e si supponga
che esista
lim f (x) = q.
x→p
Sia g definita in un intorno di q , e si supponga inoltre che
(i) se q ∈ R, allora lim g(y) = g(q);
y→q
(ii) se q = ±∞, allora esiste lim g(x) ∈ R ∪ {±∞}.
x→q
Allora esiste il limite lim g(f (x)) della funzione composta g ◦ f per x → p e risulta
x→p

lim g(f (x)) = lim g(y).


x→p y→q

Dimostrazione. Proviamo solamente (i). La dimostrazione di (ii) è del tutto analoga


e viene lasciata per esercizio. Le ipotesi sono pertanto che q ∈ R, che g è definita su
un intorno di q , che g(y) → g(q) per y → q e naturalmente che f (x) → q per x → p.
Dobbiamo provare che g(f (x)) → g(q) per x → p.
Fissiamo un intorno V di g(q). Dall’ipotesi che g(y) → g(q) per y → q si deduce
che possiamo trovare un intorno W di q tale che g (W \ {q}) ⊆ V . Inoltre g(q) ∈ V
in quanto V è un intorno di g(q). Quindi la precedente inclusione si estende a
g (W) ⊆ V.
19Allaluce delle nozioni introdotte nella prossima sezione, la regolarità cui si allude qui è, nel caso
in cui i calcoli avvengano “al finito”, la continuità di g .
Limiti e continuità 133

Si consideri ora l’intorno W di q . Siccome f (x) → q per x → p, possiamo trovare un


intorno U di p tale che f (U \ {p}) ⊆ W . In conclusione, in corrispondenza dell’intorno
V di q abbiamo trovato un intorno U di p tale che
g ◦ f (U \ {p}) = g (f (U \ {p})) ⊆ g (W) ⊆ U,
che è quanto richiesto. �

Esempi.
(48) Vediamo il caso di una sostituzione tipica. Si voglia calcolare il limite
1
lim x sin .
x→+∞ x
Guardando la tabella (2.57), il limite precedente si presenta nella forma “∞ · 0”, che
è indeterminata. Possiamo però notare che
1 sin(1/x)
x sin = .
x 1/x
Poniamo dunque �
sin y
y
se y �= 0
g(y) =
1 se y = 0.
Evidentemente, g converge a 1 = g(0) per y → 0 ed inoltre y = 1/x → 0 per
x → +∞. La sostituzione y = 1/x è pertanto lecita ed il limite cercato vale 1.
(49) Utilizziamo il Teorema 2.23 per discutere un certo tipo di forma apparentemente
indeterminata. Supponiamo cioè di voler calcolare un limite della forma
� �
(2.60) lim f (x)g(x) ,
x→p

in cui si suppone che f sia strettamente positiva in un intorno bucato di p ∈ R∪{±∞}.


Sfruttando le proprietà di esponenziali e logaritmi, otteniamo
f (x)g(x) = elog[f (x) ] = eg(x) log f (x) .
g(x)

Ci chiediamo che cosa succede se f è infinitesima e se g(x) → +∞ per x → p, cosicché


certamente g(x) log f (x) → −∞. La funzione in esame è dunque la composizione della
funzione esponenziale (esterna) e della funzione g(x) log f (x): siamo nelle ipotesi del
Teorema 2.23, in quanto y �→ ey ammette limite per y → −∞. Possiamo concludere
che il limite cercato vale quanto il limite di ey per y → −∞, cioè zero.
Se invece supponiamo che f sia ancora infinitesima ma che g(x) → −∞ per x → p,
allora g(x) log f (x) → +∞ ed limite cercato vale quanto il limite di ey per y → +∞,
cioè +∞. Possiamo riassumere questa breve discussione scrivendo che se che f è
positiva in un intorno bucato di p ∈ R ∪ {±∞}, allora
lim f (x) = 0, lim g(x) = +∞ ⇒ lim f (x)g(x) = 0
x→p x→p x→p

lim f (x) = 0, lim g(x) = −∞ ⇒ lim f (x)g(x) = +∞.


x→p x→p x→p
134 Analisi Matematica 1

Le corrette implicazioni precedenti sono alle volte sintetizzate nelle scorrette scritture
informali:
(0+ )+∞ = 0, (0+ )−∞ = +∞.

(50) Utilizziamo ora il Teorema 2.23 per estendere il limite notevole (1.38), ossia per
provare che
� �x � �x
1 1
(2.61) lim 1 + = e, lim 1 + = e.
x→+∞ x x→−∞ x
In effetti, usando al solito le proprietà di esponenziale e logaritmo
� �x
1 −1
1+ = ex log(1+x ) ,
x

cosicché (2.61) sarà dimostrata se proviamo che x log(1 + x−1 ) → 1 per x → ±∞.
D’altra parte
log(1 + x−1 )
x log(1 + x−1 ) =
x−1
e posto y = x−1 possiamo concludere utilizzando il limite notevole log(1 + y)/y → 1
per y → 0, visto che y = x−1 → 0 per x → ±∞.

(51) Alla luce dell’esempio precedente, si potrebbe essere tentati di arguire che le forme
del tipo “1+∞ ” non siano indeterminate. Mostriamo subito che ciò è falso, considerando
una variante del caso precedente. Infatti,
� �x2
1
1+
x
si presenta ancora nella forma “1+∞ ”. Passaggi analoghi a quelli svolti in precedenza
portano a esaminare l’esponente
log(1 + x−1 )
x2 log(1 + x−1 ) = x · ,
x−1
che diverge a +∞ per x → +∞. Dunque
� �x2
1
lim 1 + = +∞.
x→+∞ x

(52) Ancora qualche limite notevole. Supponiamo di sapere che per ogni a > 0,

(2.62) lim ax = ax0 , x0 ∈ R;


x→x0
(2.63) lim loga x = loga x0 , x0 ∈ (0, +∞), a �= 1.
x→x0
Limiti e continuità 135

Entrambe le affermazioni precedenti sono vere e verranno provate nella Sezione ??.
Vogliamo provare che
log (1 + x) 1
(2.64) lim a = , a > 0, a �= 1;
x→0 x log a
ax − 1
(2.65) lim = log a, a > 0;
x→0 x
(1 + x)α − 1
(2.66) lim = α, α ∈ R.
x→0 x
Consideriamo il primo limite. Ovviamente, si deve richiedere a > 0 e a �= 1. Siccome
� �1/x
loga (1 + x) 1/x 1
= loga (1 + x) = loga 1 + ,
x 1/x
possiamo sfruttare il fatto che 1/x → ±∞ per x → 0± , poi i limiti notevoli (2.61) ed
infine l’ipotesi (2.63) per dedurre che il limite cercato vale loga e, ossia 1/ log a.
Passiamo a (2.65). Se a = 1 il risultato è banale. Per x → 0, abbiamo ax − 1 → 0.
Posto perciò y = ax − 1 e osservato che in tal caso x = loga (y + 1), si ha
ax − 1 y
= → log a,
x loga (y + 1)
in virtù di (2.64)
Per (2.66), siccome x → 0, certamente in un intorno bucato di 0 avremo 1 + x > 0
cosicché la potenza (1 + x)α è ben definita ed avrà anche senso porre 1 + x = ey .
Quindi
(1 + x)α − 1 eαy − 1 eαy − 1 y (eα )y − 1 y
= y = = .
x e −1 y ey − 1 y ey − 1
Il secondo fattore converge a 1, mentre il primo, converge a log(eα ) = α per via
di (2.65).
136 Analisi Matematica 1

Esercizi

1. Mostrare che se I è un insieme aperto, allora ogni suo punto è di accumulazione


per I .
2. Dimostrare il Teorema 2.4, sia mediante il Teorema 2.3, sia in modo diretto.
3. Dimostrare il Corollario 2.5, sia mediante il Teorema 2.3, sia in modo diretto.
4. Dimostrare il Teorema 2.6, sia mediante il Teorema 2.3, sia in modo diretto.
5. Dimostrare il Teorema 2.7, sia mediante il Teorema 2.3, sia in modo diretto.
6. Sia Y ⊂ R. Provare che le due seguenti affermazioni sono equivalenti:
(i) Esistono due numeri reali s e S tali che s ≤ y ≤ S per ogni y ∈ Y ;
(ii) esiste M ≥ 0 tale che |y| ≤ M per ogni y ∈ Y .
7. È possibile dimostrare la Proposizione 2.9 usando il Teorema 2.3?
8. Completare tutti i dettagli omessi nell’Esempio 45
9. Definire le seguenti nozioni di limite:
(i) lim f (x) = +∞; (ii) lim f (x) = +∞; (iii) lim f (x) = �;
x→+∞ x→+∞ x→−∞

(iv) lim f (x) = +∞; (v) lim f (x) = −∞.


x→−∞ x→−∞

10. Formulare il Teorema 2.4 e il suo Corollario 2.5, nonché il Teorema 2.6, il Teo-
rema 2.7 e la Proposizione 2.9 con p = ±∞ in luogo di x0 ∈ R.
11. Formulare un analogo del Teorema 2.22 per le funzioni non crescenti o decrescenti.
12. Per ciascuno dei seguenti limiti stabilire se essi hanno senso o meno; in caso affer-
mativo stabilire se essi esistono o no e, se si, calcolarli. Quando compare il parametro
α, si intende α ∈ R e si richiede la discussione del limite al variare di α. Similmente,
k denota un parametro intero ed il limite va discusso al variare di k ∈ Z.
sin 5x sin 3x sin(x3 )
(i) lim ; (ii) lim ; (iii) lim ;
x→0 sin 3x x→+∞ x x→0 x
1 − cos x
(iv) lim x sin x; (v) lim x sin x; (vi) lim+ ;
x→0 x→+∞ x→0 xα sin x

x2 − sin2 x xα tan 2x
(vii) lim+ 2 2 ; (viii) lim+ ; (ix) lim ;
x→0 x + sin x x→0 sin x x→+∞ sin 3x

1 x−1 x2 + sin2 x
(x) lim (x − 2) sin ; (xi) lim ; (xii) lim+ ;
x→2 x−2 x→1 x − 1 x→0 x2 + sin(x2 )
Limiti e continuità 137
√ √
1 + cos x − 2 x2 − 3x + 2
(xiii) lim ; (xiv) lim ; (xv) lim [sin x];
x→0 sin(x2 ) x→2 x−2 x→kπ

sin2 x − 3 sin x + 2 sin2 (π − x) 2 − 2 sin x


(xvi) lim ; (xvii) lim ; (xviii) lim ;
x→π/2 sin x − 1 x→π cos x + 1 x→π/2 (π − 2x)2

tan x − sin x log(1 + x2 ) √


(xix) lim+ ; (xx) lim ; (xxi) lim x3 + 1;
x→0 xα x→0 3x2 x→−∞


esin x − 1 2x + 1
(xxii) lim+ √ √ ; (xxiii) lim ; (xxiv) lim (1 + x)1/5x
x→0 x arctan 2 x x→+∞ x+1 x→0

� �
1 sin(x − 1)
(xxv) lim (x − 1) sin 2
; (xxvi) lim e−1/x ; (xxvii) lim ;
x→1 x−1 x→0 x→1 x−1

3x − sin x sin x e1−cos x − 1


(xxviii) lim ; (xxix) lim ; (xxx) lim ;
x→1 4x − 5 sin x x→0 |x| x→0 x sin x
� �4x
√ √ 1 2x − 3x
(xxxi) lim x+3− x + 1; (xxxii) lim 1− ; (xxxiii) lim ;
x→+∞ x→−∞ x x→0 1 − 3x


x (1 + tan x)x − 1 e x
(xxxiv) lim sin x; (xxxv) lim ; (xxxvi) lim ;
x→+∞ x + 1 x→0 x2 x→+∞ x4 + 1

x4 sin2 x √ 1
(xxxvii) lim sin x; (xxxviii) lim cos(nπ) n n; (xxxix) lim 2n sin ;
x→+∞ x2 + 1 n→+∞ n→+∞ 2n
138 Analisi Matematica 1

3. Funzioni continue.
Siamo ora in grado di formulare la nozione di continuità.
Definizione 3.1. Siano I ⊂ R, f : I → R e x0 ∈ I un punto di accumulazione
per I . Diremo che f è continua in x0 se
lim f (x) = f (x0 ).
x→x0

Se J ⊂ I e f è continua in ogni punto di J , diremo che f è continua su J e se f è


continua in ogni punto di I , diremo semplicemente che essa è continua.
Si noti che nella definizione di continuità in x0 si richiede che x0 non solo sia un
punto di accumulazione, ma che esso appartenga ad I . La ragione è che si deve poter
calcolare sia il limite di f per x → x0 , sia f (x0 ).

Esempi.
(53) Dall’esempio (33) segue che le funzioni lineari x �→ ax + b sono continue. In
particolare, le funzioni costanti sono continue. Le relazioni (2.50) e (2.51) dicono che
le funzioni seno e coseno sono continue. Le relazioni (2.62) e (2.63), che non sono
state ancora dimostrate, implicano invece la continuità delle funzioni esponenziali e
logaritmiche. La (2.62) è dimostrata in questa sezione, nella Proposizione 3.7.
(54) La funzione a gradino definita in (2.52) evidentemente non è continua nell’origine
in quanto il limite per x → 0 non esiste, e quindi non può essere uguale a f (0) = 0.

La dimostrazione del risultato che segue è basata sul Teorema 2.3, di cui è una lieve
variante.
Proposizione 3.2 (Continuità per successioni). Siano x0 ∈ I un punto di
accumulazione per I ⊆ R e f : I → R. Sono fatti equivalenti:
(i) f è continua in x0 ;
(ii) per ogni successione (xn )n≥0 di elementi di I tale che xn → x0 si ha che
lim f (xn ) = f (x0 ).
n

Dimostrazione. Si osservi che al punto (ii) la richiesta di convergenza di (f (xn ))n≥0


è relativa a tutte le successioni (xn )n≥0 di elementi di I e non di elementi di I \ {x0 }.
Questa è apparentemente una richiesta più forte di quella del Teorema 2.3. In altri
termini, se (ii) è vera per ogni sucessione (xn )n≥0 di elementi di I convergente a x0 ,
allora è vera in particolare per quelle i cui punti sono in I \ {x0 } e perciò se vale (ii)
allora vale (i) per via del Teorema 2.3. Viceversa, se vale (i), allora possiamo ripetere la
dimostrazione che (i) implica (ii) del Teorema 2.3 ed osservare che data una successione
(xn )n≥0 di elementi di I (quindi magari xn = x0 per uno o addirittura infiniti valori
di n), la condizione |f (xn ) − f (x0 )| = |f (xn ) − �| < ε è automatica se xn = x0 . �
I teoremi della sezione precedente comportano conseguenze più o meno dirette sulla
classe delle funzioni continue. Al fine di snellire gli enunciati, d’ora in poi eviteremo,
quando ciò non generi confusione, di specificare eccessivamente la natura dei dati;
cosı̀ scriveremo ad esempio “sia f continua in x0 ” anziché “siano x0 ∈ I un punto di
Limiti e continuità 139

accumulazione per I ⊆ R, f : I → R e si supponga f continua in x0 ”. In altri termini,


la locuzione “sia f continua in x0 ” include implicitamente tutti i dati precedenti.
Proposizione 3.3 (Permanenza del segno). Se f è continua in x0 e f (x0 ) �= 0,
allora esiste un intorno bucato di x0 nei punti del quale f ha il segno di f (x0 ).
Proposizione 3.4 (Algebra delle funzioni continue). Siano f, g : I → R due
funzioni continue in x0 . Allora sono continue in x0 anche le funzioni
(i) |f |;
(ii) f + g ;
(iii) f g ;
(iv) λf , per ogni λ ∈ R;
(v) f /g , se g(x0 ) �= 0.
Dalla proposizione precedente si evince che di ogni coppia di funzioni continue su
un dato insieme I si possano fare combinazioni lineari. L’insieme
� �
(3.67) C(I) = f : I → R : f è continua in I .
possiede quindi la struttura di spazio vettoriale.20

Esempi.
(55) Tutti i polinomi sono funzioni continue su R. In effetti, si può ragionare in-
duttivamente su n e provare dapprima che tutte le potenze x �→ xn sono continue.
Un nuovo ragionamento induttivo permette poi di concludere, osservando che ogni
polinomio Pn (x) di grado n si può scrivere nella forma Pn (x) = Pn−1 (x) + λxn . La
continuità segue evidentemente da quelle di Pn−1 (x) e di xn . Nella Proposizione 3.6
r
√ delle potenze reali x �→ x (x > 0
che segue poco sotto, viene dimostrata la continuità
e r ∈ R). Ne discenderà, ad esempio, che x �→ x è continua.
(56) Ogni funzione razionale del tipo f (x) = P (x)/Q(x), con P e Q polinomi, è
continua nell’insieme complementare di ZQ = {x ∈ R : Q(x) = 0}.
(57) Nonostante questo possa sembrare strano, la funzione f (x) = 1/x è continua. In
effetti, essa è definita in I = R \ {0}, ed in ciascun punto x0 ∈ I risulta 1/x → 1/x0 ,
come segue facilmente dall’algebra dei limiti.

Un’altra fondamentale proprietà delle funzioni continue è il fatto che esse possono
essere composte, nel senso descritto dal risultato seguente. Esso è una conseguenza
immediata del Teorema 2.23, la cui ipotesi (i) è precisamente la continuità di g .
Proposizione 3.5 (Continuità della composta). Se f è continua in x0 e g è
continua in f (x0 ), allora g ◦ f è continua in x0 .
A partire dalle funzioni elementari si possono quindi generare grandi famiglie di fun-
zioni continue, mediante operazioni algebriche (combinazioni lineari prodotti e quozien-
ti) e composizioni. Proviamo ora la continuità delle potenze reali e delle funzioni espo-
nenziali. Quella delle funzioni logaritmo seguirà dal Teorema??.
20In realtà, C(I) è anche un’algebra rispetto alla moltiplicazione puntuale.
140 Analisi Matematica 1

Proposizione 3.6. Per ogni r ∈ R la funzione x �→ xr è continua su (0, +∞).


Dimostrazione. Innanzitutto è chiaro che possiamo assumere r > 0, in quanto
xr = 1/x−r . Dobbiamo provare che per ogni x0 > 0 si ha xr → xr0 per x → x0 .

Evidentemente è sufficiente provarlo separatamente per x → x+ 0 e x → x0 . La di-
mostrazione del caso x → x− +
0 è del tutto analoga a quella del caso x → x0 , ed è
lasciata per esercizio.
Supponiamo dapprima x0 = 1. Sia n un intero non negativo tale che n ≤ r < n+1.
Siccome x �→ xr è crescente, si avrà
0 < xn − 1 ≤ xr − 1 < xn+1 − 1
e dal teorema dei carabinieri segue che per x → 1+ si ha xr → 1 in quanto la continuità
di x → xn e di x �→ xn+1 è già stata osservata nell’Esempio 55. Analogamente si prova
il caso x → 1− e si conclude quindi la continuità in x0 = 1.
Sia ora x0 positivo qualsiasi. Se x → x+ 0 allora x/x0 → 1 (da destra) e quindi,
fissato ε > 0 esiste δ > 0 tale che se x0 < x < x0 + δ allora 0 < (x/x0 )r − 1 < εx−r
0 .
Per tali x si ha quindi
�� �r �
x
r r
0 < x − x0 = x0 r
− 1 < xr0 εx−r
0 = ε.
x0
Perciò xr → xr0 per x → x+
0 . �
Proposizione 3.7. Per ogni a > 0 la funzione x �→ ax è continua.
Dimostrazione. Il caso a = 1 è banale. Proviamo il caso a > 1, da cui segue il
caso a < 1 in quanto ax = (1/a)−x . E’ sufficiente dimostrare che, fissato x0 ∈ R, si
− −
ha ax → ax0 per x → x+ 0 e poi per x → x0 . La dimostrazione del caso x → x0 è del
+
tutto analoga a quella del caso x → x0 , ed è lasciata per esercizio.
In virtù del Teorema 2.3, per dimostrare che ax → ax0 per x → x+ 0 , basta provare
che axn → ax0 per ogni successione (xn )n≥0 tale che xn → x0 e xn > x0 per ogni
n. Sia quindi (xn )n≥0 una siffatta successione e fissiamo ε > 0. Il limite notevole
a1/n → 1 (si veda (1.30)) implica che in corrispondenza di εa−x0 > 0 esiste un intero
K tale che per ogni n ≥ K (quindi anche per n = K ) risulta
a1/n − 1 < εa−x0 .
D’altra parte, siccome xn → x0 , in corrispondenza di 1/K si avrà definitivamente
0 < xn − x0 < 1/K e quindi, siccome x �→ ax è crescente (si veda la proprietà (E4)
delle funzioni esponenziali)
axn −x0 < a1/K .
In conclusione, fissato ε > 0, valgono definitivamente le disuguaglianze
� � � �
0 < axn − ax0 = ax0 axn −x0 − 1 ≤ ax0 a1/K − 1 < ax0 εa−x0 = ε,
il che prova che axn → ax0 , come volevasi. �
Limiti e continuità 141

Esempi.
(58) Sono funzioni continue le funzioni iperboliche:
ex + e−x
cosh x =
2
e − e−x
x
sinh x = ,
2
dette rispettivamente il coseno iperbolico ed il seno iperbolico di x. Si osservi che esse
non sono altro che la parte pari e la parte dispari di x �→ ex . E’ anche continua su
tutto R la tangente iperbolica
sinh x ex − e−x
tanh x = = x .
cosh x e + e−x

Concludiamo questa sezione con una breve discussione sui vari tipi di discontinuità.
Definizione 3.8. Una funzione f : I → R si dice avere una discontinuità elimi-
nabile in x0 ∈ I , se x0 è di accumulazione per I e se esiste finito il lim f (x) = � ∈ R
x→x0
ma � �= f (x0 ). Nel caso in cui x0 �∈ I ma pur sempre esista il lim f (x) = � ∈ R, la
x→x0
funzione f si dirà prolungabile per continuità in x0 . In entrambi i casi, la funzione

f (x) se x ∈ I
f˜(x) =
� se x = x0
è continua in x0 .
Evidentemente, una discontinuità eliminabile è una sorta di “falsa” discontinuità:
basta modificare il valore di f nel solo punto x0 per avere una funzione continua. Un
esempio di funzione prolungabile per continuità nell’origine è la funzione f (x) = sin x/x
che non è definita in x = 0. Siccome però f (x) → 1 per x → 0, possiamo a tutti gli
effetti considerare f come una funzione continua ponendo per definizione f (0) = 1.
Definizione 3.9. Una funzione f : I → R si dice avere una discontinuità a salto
o di prima specie in x0 ∈ I se x0 è di accumulazione per I , se esistono finiti i limiti

di f per x → x+0 e per x → x0 ma

[f ]x0 = lim+ f (x) − lim− f (x) �= 0.


x→x0 x→x0

La quantità [f ]x0 si chiama il salto di f in x0 . Una discontinuità che non sia né
eliminabile né di prima specie si dice di seconda specie.

Esempi.
(59) La funzione �
x/|x| se x �= 0
f (x) =
0 se x = 0
142 Analisi Matematica 1

ha una discontinuità di prima specie nell’origine. La funzione



sin(1/x) se x �= 0
f (x) =
0 se x = 0
ha una discontinuità di seconda specie nell’origine, in quanto non esistono né il limite
destro né il limite sinistro.
Limiti e continuità 143

Esercizi

1. Si consideri la funzione:

 log(1 − 2x)

 se x < 0;
x
f (x) = a se x = 0;


 2
x + b cos x se x > 0.
Si determini per quali valori di a e b, se ne esistono, la funzione f risulta continua
nell’origine.
2. Siano α ∈ R e β ∈ R due parametri, e sia

xαx se x > 1
ϕ(x) =
βx + 1 − β se x ≤ 1.
Si discuta per quali valori di α e β , se ve ne sono, ϕ risulta continua nel punto x0 = 1.
3. Sia a ∈ R e si consideri la funzione


 eax − 1 se x > 0

g(x) = 0 se x = 0

 1 − cos x

se x < 0.
2 arctan x
Si determini per quali valori di a ∈ R, se ve ne sono, g è continua nell’origine.
4. Siano α e β parametri reali e sia


α log(1 + x) se x ≥ 0
ψ(x) =
β x2 sin � 1 � se x < 0

x
Stabilire per quali valori di α e β , se ve ne sono, ψ risulta continua nell’origine.
5. Si provi che una funzione f : R → R è continua se e solo se per ogni insieme aperto
U si ha che anche f −1 (U ) è un insieme aperto.
144 Analisi Matematica 1

4. Proprietà globali delle funzioni continue.


In questa sezione ci occuperemo delle proprietà delle funzioni continue definite su
insiemi di natura molto particolare: gli intervalli chiusi e limitati, ossia gli intervalli del
tipo [a, b]. Alcuni dei risultati ottenuti sono vere e proprie pietre miliari dell’Analisi
Matematica e vengono utilizzati innumerevoli volte, talora anche tacitamente. La
natura dell’insieme [a, b] è duplice: esso è il prototipo di insieme compatto, concetto di
fondamentale importanza in matematica e di cui ci occuperemo, seppur brevemente,
nella paragrafo 4.1 , ed è anche il prototipo di insieme connesso, ossia di un insieme
“tutto di un pezzo”. Oltre, naturalmente alla continuità della funzione, talora è la
compattezza a giocare un ruolo cruciale (ad esempio nel Teorema 4.9) e talora è la
connessione (ad esempio nel Teorema 4.10 oppure nel Teorema 4.19). Alcuni dei teoremi
che vedremo ammettono versioni più generali che non necessariamente è indispensabile
conoscere. E’ però importante capire che in alcuni casi la chiave di volta risiede in
una sorta di “finitezza” del dominio, mentre in altri è la natura di intervallo, ossia di
insieme “ininterrotto”. L’esistenza del massimo o del minimo di un insieme finito di
numeri reali non ci stupisce affatto, ed il Teorema 4.9 ne è una (raffinata) estensione:
in un certo senso la compattezza è un concetto che estende il concetto di finitezza.
Invece, il fatto che per passare con un tratto continuo di penna da un punto che giace
sotto l’asse x ad un punto che giace sopra si debba attraversare l’asse, dipende dalla
richiesta che lo spostamento non abbia interruzioni, ovvero che non si facciano “voli”
da una parte all’altra del grafico: il concetto di connessione si riferisce alla possibilità di
spostarsi senza interruzioni lungo un insieme e, nel caso di R, è esattamente il concetto
di intervallo.

4.1. Sottosuccessioni e compattezza. Per meglio illustrare la portata della


nozione di insieme compatto, è opportuno introdurre il concetto di estratta di una
successione:
Definizione 4.1. Siano (an )n≥0 e (bj )j≥0 due successioni. Diremo che (bj )j≥0 è
una sottosuccessione di (an )n≥0 , ovvero che ne è una successione estratta, se esiste una
funzione f : N → N strettamente crescente tale che
bj = af (j) .
Solitamente si scrive (anj )j≥0 in luogo di (af (j) )j≥0 , intendendo che nj = f (j).
Non è difficile verificare che se (an )n≥0 è convergente, allora ogni estratta è anche
convergente. Vale peraltro anche l’implicazione opposta:
Proposizione 4.2. Una successione è convergente se e solo se ogni sua sottosuc-
cessione è convergente.
Come è facile dimostrare (cfr. l’Esercizio 2), l’esistenza di una estratta convergente
non è affatto sufficiente per provare che la successione di partenza lo è. Per una
dimostrazione del celebre risultato che segue21 si veda ad esempio [T].
21Solitamente,
il teorema si enuncia cosı̀ : ogni sottoinsieme limitato e infinito di R ammette
almeno un punto di accumulazione. Si può facilmente verificare che il nostrio enunciato è equivalente.
Limiti e continuità 145

Teorema 4.3 (Bolzano-Weierstrass). Ogni successione limitata ha un’estratta


convergente.
Si osservi che il teorema di Bolzano-Weierstrass implica, ad esempio, che la suc-
cessione (sin n)n≥0 ammette un’estratta convergente, fatto la cui dimostrazione diretta
presenta qualche difficoltà.

Passiamo ora alla moderna definizione di insieme compatto, che richiede la nozione
di ricoprimento.
Definizione 4.4. Sia X ⊆ R un insieme non vuoto e sia I un insieme qualunque.
Una famiglia {Xi : i ∈ I} di sottoinsiemi di R si chiama ricoprimento di X se

Xi ⊆ X.
i∈I

Esso si chiama ricoprimento aperto se ogni Xi è un aperto22 di R.

Esempi.
(60) La famiglia {[n, n + 1) : n ∈ Z} è un ricoprimento di R. La famiglia {(0, 1/n) :
n = 1, 2, 3, . . . } è un ricoprimento aperto di (0, 1) ed in particolare
� 1
(0, ) = (0, 1).
n∈N∗
n
Sia ε > 0; la famiglia {(t, 1 + t) : t ∈ [−ε, ε]} è un ricoprimento aperto di [0, 1] in
quanto

(t, 1 + t) = (−ε, 1 + ε) ⊃ [0, 1].
t∈[−ε,ε]

Definizione 4.5. Un sottoinsieme non vuoto K di R si dice compatto se da ogni


ricoprimento aperto {Ui : i ∈ I} di K è possibile estrarre un sottoricoprimento finito,
ossia se esiste una sottofamiglia finita {Ui1 , . . . , UiN } tale che K ⊂ (Ui1 ∪ · · · ∪ UiN ).
Nell’esempio appena visto, il ricoprimento {(−ε, 1 − ε), (ε, 1 + ε)} è un sottorico-
primento finito del ricoprimento {(t, 1 + t) : t ∈ [−ε, ε]}, naturalmente se ε < 1/2. Si
deve peraltro prestare attenzione al fatto che la definizione di compattezza richiede che
il procedimento di estrazione di una sottofamiglia finita di aperti deve essere possibile
per ogni ricoprimento aperto.
Teorema 4.6 (Heine-Borel). Sia K un sottoinsieme non vuoto di R. Sono fatti
equivalenti:
(i) K è compatto;
(ii) K è chiuso e limitato;
(ii) ogni successione di punti di K ha una estratta convergente ad un punto di K .
22Si veda la Definizione 3.1 del Capitolo 2
146 Analisi Matematica 1

Il teorema di Heine-Borel individua con precisione i sottoinsiemi compatti di R: essi


sono esattamente i sottoinsiemi chiusi e limitati. Il prototipo di insieme compatto è
dunque un intervallo del tipo [a, b], ma si deve fare attenzione al fatto che tali intervalli
non sono affato gli unici compatti di R. Non solo sarà compatta una unione (disgiunta)
di due intervalli di tal sorta, ma anche una famiglia finita di punti, oppure ad esempio
l’insieme K = {1/n : n = 1, 2, 3, . . . } ∪ {0}, come il lettore è invitato a verificare per
esercizio. I compatti di R possono essere in realtà anche piuttosto complicati, ma a
noi interesseranno primariamente gli intervalli chiusi e limitati.

4.2. Esistenza di massimi e minimi. Come vedremo nel prossimo capitolo, tra i
successi dell’Analisi vi sono i metodi di ricerca dei massimi e dei minimi di una funzione
f : I → R, qualora essa goda di qualche proprietà di regolarità. Assai meno pratico
dal punto di vista operativo, ma di fondamentale importanza teorica, è il teorema che
andiamo a dimostrare circa l’esisitenza di estremi. Abbiamo già introdotto la nozione
di massimo e di minimo di un sottoinsieme di R. Riferiti ad una funzione, questi
concetti devono essere interpretati come segue:
Definizione 4.7. Sia f : I → R. Un punto ξ ∈ I è detto punto di massimo per f
(o semplicemente un massimo di f ) se f (ξ) = max f (I), cioè se f (ξ) ≥ f (x) per ogni
x ∈ I . Similmente, un punto η ∈ I è detto punto di minimo per f (o semplicemente
un minimo di f ) se f (η) = min f (I), cioè se f (η) ≤ f (x) per ogni x ∈ I . Si dice
estremo di f un punto che sia un massimo oppure un minimo.
Alcuni autori riservano il termine massimo assoluto a ciò che qui abbiamo chiamato
massimo e minimo assoluto a ciò che noi abbiamo chiamato minimo. Questa differenza
è da imputarsi alla necessità di distinguere tra le nozioni globali che abbiamo appena
introdotto e quelle locali che vedremo più avanti.
Proposizione 4.8. Sia f : [a, b] → R continua. Allora f è limitata.
Dimostrazione. Si supponga per assurdo che f non sia limitata. Allora per ogni
intero positivo n possiamo trovare un xn ∈ [a, b] tale che |f (xn )| ≥ n. La successione
(xn )n≥1 è costituita da elementi di [a, b] e quindi, per il teorema di Bolzano-Weierstrass,
ammette un’estratta (xnj )j≥1 convergente ad un elemento x0 ∈ [a, b]. Siccome f è
continua, e siccome x0 ∈ [a, b], la Proposizione 3.2 implica
lim f (xnj ) = f (x0 ).
j

Poiché quindi (f (xnj ))j≥1 è convergente, essa è limitata. Ma questo contraddice il


fatto che |f (xn )| ≥ n. Infatti, nj ≥ j (in quanto j �→ nj è crescente) e perciò
|f (xnj )| ≥ nj ≥ j , il che prova che (f (xnj ))j≥1 non può essere limitata. �
Teorema 4.9 (di Weierstrass). Sia f : [a, b] → R continua. Allora f ammette
massimo e minimo, cioè esistono ξ, η ∈ [a, b] tali che f (ξ) ≤ f (x) ≤ f (η) per ogni
x ∈ [a, b].
Dimostrazione. Dalla Proposizione 4.8 sappiamo che l’immagine f ([a, b]) è un sot-
toinsieme limitato e certamente non vuoto di R. Sia perciò M = sup f ([a, b]), un
numero reale. Mostreremo innanzitutto che esiste ξ ∈ [a, b] tale che f (ξ) = M .
Limiti e continuità 147

Naturalmente M è un maggiorante per l’immagine ed inoltre, per ogni n ∈ N


esiste un elemento xn ∈ [a, b] tale che f (xn ) > M − 1/n. La successione (xn )n≥1 è
costituita da elementi di [a, b] e quindi, per il teorema di Bolzano-Weierstrass, ammette
un’estratta (xnj )j≥1 convergente ad un elemento ξ ∈ [a, b]. Siccome f è continua, e
ξ ∈ [a, b], la Proposizione 3.2 implica
lim f (xnj ) = f (ξ).
j

D’altra parte, per costruzione, e visto che certamente nj ≥ j , si ha


1 1
f (xnj ) > M − ≥M− .
nj j
Passando al limite per n → ∞ e utiizzando il teorema del confronto si ha
f (ξ) = lim f (xnj ) ≥ M
n

e siccome f (ξ) ≤ M (in quanto M è un maggiorante per l’immagine) possiamo con-


cludere che f (ξ) = M , come desiderato.
Si ricordi ora che f (x) ≤ M per ogni x ∈ [a, b] per definizione di maggiorante,
e quindi f (x) ≤ f (ξ) per ogni x ∈ [a, b], il che prova che ξ è un massimo. La
dimostrazione dell’esistenza di un minimo è del tutto analoga e viene omessa. �

Esempi.
(61) Il lettore avrà osservato che il punto chiave nella dimostrazione sia della Propo-
sizione 4.8 sia del Teorema 4.9 è l’utilizzo del teorema di Bolzano-Weierstrass. Non è
difficile convincersi del fatto che gli stessi argomenti possano essere utilizzati per di-
mostrare entrambi i risultati nelle ipotesi più generali in cui f : K → R con K ⊆ R
compatto. Basta infatti applicare il Teorema di Heine-Borel per ottenere le necessarie
informazioni sulle successioni estratte.
(62) Se l’intervallo su cui è definita f non è chiuso o non è limitato, il teorema è
chiaramente falso. Si prenda ad esempio la funzione f : (−π/2, π/2) → R definita da
f (x) = tan x. Essa è continua sull’intervallo limitato ma non chiuso (−π/2, π/2) ed
evidentemente non ha né massimi né minimi. La funzione g : [0, +∞) → R definita
da g(x) = x sin x è continua sull’intervallo chiuso ma non limitato [0, +∞) e non ha
né massimi né minimi.
(63) Il Teorema 4.9 asserisce l’esistenza di almeno un massimo e di almeno un minimo,
ma non ne asserisce affatto l’unicità, che può naturalmente non esservi: la funzione
f : [−2π, 2π] → R definita da f (x) = sin x ha due massimi (in −3π/4 e in π/2) e due
minimi (in −π/2 e in 3π/2).

4.3. Zeri e struttura dell’immagine. In questo paragrafo esaminiamo le pro-


prietà globali delle funzioni definite su intervalli. Nelle loro versioni più tipiche, gli
enunciati vengono dati su intervalli chiusi e limitati, ossia del tipo [a, b]. Come avremo
modo di capire, l’ipotesi chiave è che l’insieme sia un intervallo (ossia che contenga
tutti i punti compresi tra due suoi punti qualsiasi) piuttosto che la compattezza, ossia
la proprietà di essere chiuso e limitato.
148 Analisi Matematica 1

Teorema 4.10 (Zeri). Sia f : [a, b] → R continua. Se f (a) e f (b) hanno segno
opposto, allora f ha almeno uno zero, cioè esiste ξ ∈ [a, b] tale che f (ξ) = 0.
Dimostrazione. Possiamo supporre che f (a) < 0 < f (b) (altrimenti si prende −f ).
Poniamo a0 = a, b0 = b e c0 = (a0 + b0 )/2, il punto medio. Se f (c0 ) = 0, allora
la dimostrazione è terminata. Atrimenti, f (c0 ) �= 0 e in almeno uno dei due inter-
valli [a0 , c0 ] oppure [c0 , b0 ] la funzione soddisfa ipotesi analoghe a quelle soddisfatte
nell’intervallo di partenza: essa assume valori opposti agli estremi. Ribattezziamo un
tale intervallo [a1 , b1 ]. Quindi [a1 , b1 ] ⊂ [a0 , b0 ] ed inoltre
b 0 − a0
f (a1 ) < 0 < f (b1 ), b 1 − a1 = .
2
Iterando il ragionamento, o si perviene dopo un numero finito di suddivisioni ad uno
zero di f , nel qual caso la dimostrazione termina, oppure il procedimento non ha
termine e si ottiene in tal modo una successione di intervalli [a1 , b1 ] che soddisfa
[a0 , b0 ] ⊃ [a1 , b1 ] · · · ⊃ [a1 , b1 ] ⊃ . . .
b 0 − a0
f (an ) < 0 < f (bn ), b n − an = .
2n
Proviamo ora che esiste uno ed un solo punto ξ che è contenuto in tutti gli intervalli ed
in cui f si annulla. Per costruzione, la successione (an )n≥0 è monotona non decrescente
ed è limitata superiormente da b0 , mentre (bn )n≥0 è monotona non crescente ed è
limitata inferiormente da a0 . Pertanto entrambe le successioni convergono. Detti
ā, b̄ ∈ [a, b], rispetivamente, i limiti, si ha
b0 − a0
b̄ − ā = lim(bn − an ) = lim =0
n n 2n
e dunque ā = b̄. Indichiamo con ξ tale punto di [a, b]. Siccome f è continua si avrà
lim f (an ) = lim f (bn ) = f (ξ).
n n

Per costruzione, f (an ) < 0 < f (bn ) e quindi, passando al limite per n → ∞ ed
applicando il teorema del confronto si ha
f (ξ) = lim f (an ) ≤ 0 ≤ lim f (bn ) = f (ξ),
n n

ossia f (ξ) = 0, come desiderato. �

Si noti che la chiave della dimostrazione consiste nel procedimento di bisezione


dell’intervallo, ovvero nella costruzione della successione di intervalli chiusi inscatolati
l’uno nell’altro, agli estremi di ciascuno dei quali la funzione assume valori di segno
opposto: sempre negativi a sinistra e sempre positivi a destra, o viceversa. Il fatto che
il punto medio tra gli estremi sia ancora in I (il dominio di f ) dipende dal fatto che I è
un intervallo, cosı̀ come il fatto che esso venga suddiviso in due sottointervalli mediante
la scelta di un punto in mezzo. Come si vede, quindi, la compattezza dell’insieme di
definizione di f non è indispensabile, bensı̀ la struttura di intervallo.
La seguente utile estensione del teorema precedente mette in ulteriore evidenza le
considerazioni appena svolte. A tal fine però è necessario chiarire una questione di
linguaggio:
Limiti e continuità 149

Convenzione 4.11. Diremo che due elementi non nulli s1 e s2 di R∪{±∞} hanno
segno opposto se si verifica una di queste situazioni:
(i) s1 < 0 < s2 ;
(ii) s1 = −∞ e s2 > 0;
(iii) s1 < 0 e s2 = +∞;
(iv) s1 = −∞ e s2 = +∞;
Corollario 4.12. Sia f continua su un intervallo I . Supponamo che f ammetta
limiti (finiti o infiniti) agli estremi di I , che essi siano diversi da zero e abbiano segno
opposto. Allora f ha uno zero in I .
Dimostrazione. Siano p1 e p2 gli estremi di I , quindi p1 ∈ R ∪ {−∞} e p2 ∈
R ∪ {+∞} e siano
q1 = lim f (x), q2 = lim f (x).
x→p1 x→p2
Evidentemente si assume qj �= 0 per j = 1, 2 e che essi abbiano segni opposti. Quindi,
per permanenza del segno, esisono due intorni, U1 di p1 e U2 di p2 , sui quali la funzione
assume il segno rispettivamente di q1 e di q2 , escludendo naturalmente p1 e p2 stessi.
Ad esempio cioè f (U1 \ {p1 }) ⊂ (−∞, 0) mentre f (U2 \ {p2 }) ⊂ (0, +∞). Scelti allora
a ∈ U1 \ {p1 } e b ∈ U2 \ {p2 } si ha f (a) < 0 < f (b). Poiché f è certamente continua
su [a, b] ⊂ I esisterà ξ ∈ (a, b) tale che f (ξ) = 0, come desiderato. �

Il corollario che segue è invece molto utile per risolvere, almeno in linea di principio,
equazioni del tipo f (x) = g(x) quando f e g sono funzioni continue.
Corollario 4.13. Siano f, g : [a, b] → R due funzioni continue e supponiamo che
f (a) < g(a) mentre f (b) > g(b). Allora esiste un punto ξ ∈ (a, b) tale che f (ξ) = g(ξ).
Dimostrazione. Sia h(x) = g(x) − f (x). Evidentemente h è continua su [a, b] e
soddisfa h(a) < 0 < h(b). Quindi ha uno zero ξ . �
Teorema 4.14 (Valori intermedi, I). Sia f : [a, b] → R continua. Allora f
assume tutti i valori compresi tra f (a) e f (b).
Dimostrazione. Se f (a) = f (b) il risultato è banale. Supponiamo allora f (a) <
f (b). Sia y un valore intermedio, ossia f (a) < y < f (b). La funzione g(x) = f (x) − y
è continua su [a, b] e soddisfa g(a) < 0 < g(b). Esiste dunque ξ tale che h(ξ) = 0
ossia f (ξ) = y , come volevasi. �

Corollario 4.15 (Valori intermedi, II). Sia f : [a, b] → R continua. Allora


f ([a, b]) è un intervallo chiuso e limitato, cioè f ([a, b]) = [m, M ].
Dimostrazione. Sappiamo dal teorema di Weierstrass che esistono ξ, η ∈ [a, b] tali
che f (ξ) = M = max f ([a, b]) e f (η) = m = min f ([a, b]). Dal Teorema 4.14 sappiamo
inoltre che f assume tutti i valori compresi tra m ed M . Poiché non può assumere
valori minori di m né valori maggiori di M , essa assume esattamente i valori di [m, M ].

Omettiamo la dimostrazione del seguente risultato che caratterizza la struttura di
f (I) quando f è una funzione continua e I è un intervallo.
150 Analisi Matematica 1

Corollario 4.16. L’immagine di un intervallo mediante una funzione continua è


un intervallo.

Esempi.
(64) Supponiamo di voler risolvere l’equazione log(2 + x) = x. Evidentemente, si
tratta di utilizzare il Corollario 4.13, ovvero di trovare gli zeri di x − log(2 + x) in
I = (−2, +∞).

Si ponga f (x) = log(2 + x) e g(x) = x. Evidentemente


lim f (x) = −∞, lim f (x) = −2
x→−2+ x→−2+

e quindi, per permanenza del segno, esiste un punto x0 < 0 sufficientemente vicino a
−2 (e a destra di esso) in cui f (x0 ) < g(x0 ). Inoltre
f (0) = log 2 g(0) = 0,
e quindi per x1 = 0 si ha f (x1 ) > g(x1 ). Poiché f e g sono continue in [x0 , x1 ],
possiamo concludere che esiste almeno una soluzione dell’equazione log(2 + x) = x
nell’intervallo (−2, 0). Similmente, siccome ad esempio f (e2 − 2) = 2 < e2 − 2 =
g(e2 − 2), si può inferire l’esistenza di un’altra soluzione nell’intervallo (x1 , x2 ) dove
x2 = e2 − 2. Al momento non abbiamo gli strumenti necessari per poter dire che di
fatto queste sono le uniche soluzioni. Si osservi che a tal fine sarebbe sufficiente provare
che la funzione f − g è monotona crescente in (−2, −1] e decrescente in [−1, +∞).
Limiti e continuità 151

4.4. Funzioni monotone. Concludiamo il capitolo con qualche osservazione sulle


proprietà di continuità delle funzioni monotone e delle loro inverse. Ci limiteremo alla
presentazione e discussione dei principali risultati. Per le dimostrazioni il lettore è può
consultare ad esempio [DM]. Innanzitutto, una osservazione:
Proposizione 4.17. Sia D ⊆ R e f : D → R monotona. Se f (D) è un intervallo,
allora f è continua.
Dalla proposizione precedente e dal Corollario 4.16 segue subito il seguente risultato:
Corollario 4.18 (Continuità delle funzioni monotone). Sia I un intervallo
e sia f : I → R monotona. Allora f è continua se e solo se f (I) è un intervallo.

Esempio.
(65) In generale, la continuità di f −1 non è affatto garantita dalla continuità di f . Si
consideri la funzione definita in I = (−∞, −1) ∪ [1, +∞) da

x + 1 se x < −1
f (x) =
x − 1 se x ≥ 1
Essa è chiaramente continua (si noti che tutti i punti di I sono di accumulazione per
I ), è invertibile ed ha come inversa f −1 : R → I la funzione

x − 1 se x < 0
f −1 (x) =
x + 1 se x ≥ 0.
I grafici di f e f −1 sono:

Evidentemente, f −1 non è continua, anche se f lo è. Il punto cruciale è che in


questo caso I non è un intervallo. Se invece I è un intervallo, questo fenomeno non
può accadere, come spiegato nel risultato che segue.
152 Analisi Matematica 1

Teorema 4.19 (Continuità della funzione inversa). Sia I un intervallo e sia


f : I → R continua. Allora:
(i) f è iniettiva su I se e solo se è strettamente monotona su I ;
(ii) se f è crescente (decrescente) su I , allora f (I) = J è un intervallo e f −1 :
J → I è continua e crescente (decrescente).

Esempio.
(66) Se l’insieme I non è un intervallo, una funzione f : I → J può benissimo essere
una bigezione continua con inversa continua senza che nessuna delle due sia monotona.
Si consideri per esempio I = J = (−2, −1) ∪ (−1, 1) ∪ (1, 2) e sia


−x − 3 se x ∈ (−2, −1)
f (x) = x se x ∈ (−1, 1)

−x + 3 se x ∈ (1, 2).

Essa è invertibile e coincide con f −1 ; è chiaramente continua anche se non è monotona.


I grafici di f e f −1 sono:
Limiti e continuità 153

Esercizi

1. Provare la Proposizione 4.2.


2. Provare che se (an )n≥0 ha una estratta convergente, essa può non avere limite, può
convergere o può divergere.
x 2x
3. Sia f (x) = x − . Determinare il numero di zeri di f nell’intervallo x ∈ (−∞, 0)
2 x
e localizzare ciascuno di essi in un intervallo di lunghezza 1/2.
4. Sia f (x) = e1/x arctan x − ex arctan(1/x). Provare che f ha esattamente uno zero
nel semiasse negativo, cioè x0 = −1.
5. Sia f (x) = (x log x)2 − 1. Determinare il numero di zeri di f e localizzare ciascuno
di essi in un intervallo di lunghezza uno. [Traccia: si utilizzi la diseguaglianza log x >
1 − x−1 vera per x > 0 e x �= 1, in cui vale l’uguaglianza.]
CAPITOLO 5

Calcolo differenziale

1. Linearizzazione e derivabilità
La nozione di derivata, di capitale importanza in matematica e nelle sue appli-
cazioni, è legata all’idea geometrica di retta tangente e all’idea fisica di velocità. Essa
fu introdotta nel XVII secolo da Leibnitz e da Newton a fondamento del calcolo in-
finitesimale, come allora fu battezzato quel corpus di idee e tecniche che diede luogo
alla disciplina che oggi si chiama Analisi Matematica.
Ma che cosa significa retta tangente ad una curva? Qual’è la retta che meglio
approssima una curva in un punto? Immaginiamo di essere a bordo di un aeroplano
in fase di atterraggio e assumiamo per il momento come accettabile la seguente idea,
ancorché imprecisa: il pilota realizzerà un atterraggio perfetto ogniqualvolta la trai-
ettoria descritta dal carrello sia tangente alla pista, che per semplicità supponiamo
orizzontale (l’asse x). In questo caso, che cosa vediamo dal finestrino nei momenti
immediatamente precedenti il momento di contatto? Sperabilmente, vediamo la pista
scorrerci sotto quasi parallela all’aereo, mentre esso si abbassa molto dolcemente: la
distanza orizzontale che percorre in quei secondi è, per unità di tempo, molto maggiore
della quota che perde. Se x0 è il punto della pista dove avverrà l’atterraggio, se x è la
proiezione a terra del carrello e se f (x) è la sua altezza dal suolo (cosicché f (x0 ) = 0),
allora il rapporto f (x)/(x − x0 ) diviene sempre più piccolo a mano a mano che ci
avviciniamo al momento di contatto, cioè f (x)/(x − x0 ) → 0 per x → x0 .

155
156 Analisi Matematica 1

Se anziché atterrare su una pista orizzontale atterrassimo su una pista inclinata, che
nel nostro schema bidimensionale pensiamo rappresentata dal grafico di una funzione
lineare p(x), allora l’abilità del pilota starà nel far si che (f (x) − p(x))/(x − x0 ) → 0
per x → x0 . Ribaltando il punto di vista, la retta p(x) è la migliore approssimazione
rettilinea della traiettoria f (x) nel punto x0 . Il processo di astrazione matematica
conduce, da questo o da altri simili esempi, alle nozioni di linearizzazione e di derivata ,
per mezzo delle quali potremo dare un significato rigoroso al concetto di retta tangente.
Definizione 1.1 (Linearizzabilità). Sia f : (a, b) → R e sia x0 ∈ (a, b). Diremo
che f è linearizzabile in x0 se esiste un polinomio di primo grado p1 (x) tale che
p1 (x0 ) = f (x0 ) e per il quale risulti
f (x) − p1 (x)
(1.68) lim = 0.
x→x0 x − x0
In tal caso, p1 si chiama la linearizzazione di f in x0 .
Esempi.
(1) Si osservi che la linearizazione in un punto, se c’è, è unica. Infatti, osserviamo
innanzitutto che ogni polinomio di primo grado p tale che p(x0 ) = f (x0 ) è della forma
p(x) = f (x0 ) + d(x − x0 )
per qualche d ∈ R. Perciò, se q è un’altra linearizzazione di f in x0 , si ha q(x) =
f (x0 ) + e(x − x0 ) per qualche e ∈ R, e quindi
p(x) − q(x) p(x) − f (x) + f (x) − q(x) p(x) − f (x) q(x) − f (x)
d−e= = = − .
x − x0 x − x0 x − x0 x − x0
Siccome d − e è costante, se ne deduce
� �
p(x) − f (x) q(x) − f (x)
d − e = lim − = 0 − 0 = 0,
x→x0 x − x0 x − x0
il che implica p = q .
(2) Come ci dobbiamo aspettare, se f è essa stessa un polinomio di primo grado,
coincide con la propria linearizzazione in ogni punto. Se f (x) = ax2 + bx + c, la
linearizzazione in x0 = 0 è p(x) = bx + c. Infatti
(ax2 + bx + c) − (bx + c)
= ax → 0
x
per x�→ 0. Similmente, la linearizzazione in x0 = 0 di un polinomio di grado n del
tipo nj=0 aj xj è p(x) = a0 + a1 x in quanto

( nj=0 aj xj ) − (a0 + a1 x) a2 x2 + · · · + an−1 xn−1 + an xn
=
x x
= a2 x + · · · + an−1 xn−2 + an xn−1 → 0

per x → 0. In generale, la linearizzazione di nj=0 aj (x − x0 )j è a0 + a1 (x − x0 ), come
il lettore è invitato a verificare.
Calcolo differenziale 157

(3) La nostra intuizione geometrica ci suggerisce che una curva che presenti uno spigolo
non sia linearizzabile in tal punto. Il prototipo di una siffatta curva è il grafico della
funzione x �→ |x|. Proviamo che in effetti f (x) = |x| non è linearizzabile nell’origine. Se
lo fosse, la sua linearizzazione dovrebbe essere del tipo p(x) = ax, in quanto p(0) = 0.
Ma allora

f (x) − p(x) |x| − ax |x| 1−a se x > 0
= = −a=
x x x −1 − a se x < 0,
ed evidentemente il limite per x → 0 non esiste.
(4) La linearizzazione di f (x) = sin x nell’origine è x. Infatti
sin x − x sin x
= −1→0
x x
per x → 0. Similmente, la linearizzazione di f (x) = ex − 1 nell’origine è x, come
quella di f (x) = log(1 + x). Quella di f (x) = cos x è invece p(x) = 1, in quanto:
cos x − 1
→ 0.
x
per x → 0. Ecco i grafici delle funzioni discusse e le relative linearizzazioni nell’origine.
158 Analisi Matematica 1

Introduciamo ora una delle più importanti nozioni dell’Analisi. Come vedremo nel
Teorema 1.3, essa esprime una proprietà equivalente alla linearizzabilità.
Definizione 1.2 (Derivata). Siano f : (a, b) → R e x0 ∈ (a, b). Il rapporto
f (x) − f (x0 )
(1.69) ,
x − x0
definito per ogni x ∈ (a, b) \ {x0 }, si dice rapporto incrementale di f in x0 . Diremo
che f è derivabile in x0 se esso converge per x → x0 , ossia se esiste finito il limite
f (x) − f (x0 )
(1.70) lim = f � (x0 ),
x→x0 x − x0
df
che si denota anche (x0 ) oppure Df (x0 ) e si chiama la derivata di f in x0 .
dx

Il rapporto incrementale ha questo nome proprio perché esso è il rapporto tra


l’incremento f (x)−f (x0 ) dei valori della variabie dipendente (ossia f ) che corrisponde
all’incremento x − x0 dei valori della variabile indipendente (ossia x). Tali incrementi
sono spesso denotati rispettivamente con ∆f e ∆x; perciò il rapporto incrementale
viene anche denotato ∆f /∆x. Esso rappresenta evidentemente il coefficiente angolare
della retta passante per i punti (x0 , f (x0 )) e (x, f (x)).

(x, f (x))

∆f

(x0 , f (x0 ))
∆x

La nostra intuizione geometrica ci suggerisce che al tendere di x ad x0 , la retta


passante per (x0 , f (x0 )) e (x, f (x)) tenderà ad una posizione limite che ci aspettiamo
essere la retta tangente in (x0 , f (x0 )), qualora essa esista. Corrispondentemente, il
rapporto incrementale tenderà al coefficiente angolare della “retta limite”. La notazione
df /dx per la derivata vuole proprio ricordare questo procedimento di limite, e non
Calcolo differenziale 159

deve essere intesa come un vero rapporto tra le quantità df e dx (nessuna delle quali
rappresenta un numero reale!) bensı̀ come un semplice simbolo.
Il rapporto incrementale si può scrivere anche in un modo diverso, naturalmente
equivalente a (1.69), utilizzando in modo ancora più esplicito l’idea di incremento. Per
h sufficientemente piccolo (ossia |h| < b − a) esso può scriversi
f (x0 + h) − f (x0 )
.
h
Per passare dall’una all’altra espressione basterà porre h = x − x0 , e la definizione di
derivata diventerà
f (x0 + h) − f (x0 )
(1.71) f � (x0 ) = lim .
h→0 h
Le considerazioni geometriche che abbiamo svolto suggeriscono fortemente che, se f
è derivabile in x0 , la retta di coefficiente angolare f � (x0 ) dovrebbe essere esattamente
la linearizzazione di f in tal punto e, viceversa, se f è linearizzabile in x0 allora la sua
linearizzazione dovrebbe avere come coefficiente angolare la derivata di f in x0 . Ciò è
esattamente ciò che avviene, come provato nel risultato che segue.

Teorema 1.3. Siano f : (a, b) → R e x0 ∈ (a, b). Sono fatti equivalenti:


(i) f è linearizzabile in x0 ;
(ii) f è derivabile in x0 ;
(iii) esistono un numero reale d ed una funzione R1 : (a, b) → R che soddisfano:
(1.72) f (x) = f (x0 ) + d(x − x0 ) + R1 (x)
per ogni x ∈ (a, b) e
R1 (x)
(1.73) lim = 0.
x→x0 x − x0
Dimostrazione. (i)“⇒” (ii). Sia p1 (x) la linearizzazione di f in x0 . Come già
osservato, ogni polinomio di primo grado p1 tale che p1 (x0 ) = f (x0 ) è della forma
p1 (x) = f (x0 ) + d(x − x0 )
per qualche d ∈ R. D’altra parte, per ipotesi
f (x) − p1 (x) f (x) − f (x0 ) − d(x − x0 ) f (x) − f (x0 )
0 = lim = lim = lim − d.
x→x0 x − x0 x→x 0 x − x0 x→x 0 x − x0
Quindi f è derivabile in x0 con derivata uguale a d.
(ii)“⇒” (iii). Sia ora d il valore della derivata di f in x0 e si ponga
R1 (x) = f (x) − f (x0 ) − d(x − x0 ),
una funzione ben definta per ogni x ∈ (a, b). Evidentemente, la formula (1.72) è
verificata per ogni x ∈ (a, b) ed inoltre
R1 (x) f (x) − f (x0 ) − d(x − x0 ) f (x) − f (x0 )
lim = lim = lim − d = 0,
x→x0 x − x0 x→x0 x − x0 x→x0 x − x0
come desiderato.
160 Analisi Matematica 1

(iii)“⇒” (i). Si ponga p1 (x) = f (x0 ) + d(x − x0 ). Chiaramente, p1 (x0 ) = f (x0 ).


Le formule (1.72) e (1.73) forniscono inoltre
f (x) − p1 (x) f (x) − f (x0 ) − d(x − x0 ) R1 (x)
lim = lim = lim = 0,
x→x0 x − x0 x→x0 x − x0 x→x0 x − x0

cosicché f è linearizzabile in x0 . �

Qualche commento sul punto (iii) del teorema precedente è d’obbligo. La deri-
vabilità e la linearizzabilità di f risultano dunque equivalenti alla scrittura
(1.74) f (x) = p1 (x) + R1 (x) = f (x0 ) + f � (x0 )(x − x0 ) + R1 (x),
che chiameremo sviluppo di Taylor al prim’ordine1, dove evidentemente
p1 (x) = f (x0 ) + f � (x0 )(x − x0 )
non è altro che la linearizzazione di f , mentre R1 è un resto di cui si conosce il
comportamento per x → x0 . In effetti, alla luce del Teorema 1.3, il coefficiente angolare
di p1 è la derivata di f in x0 e il resto, ossia l’errore che si commette approssimando
f mediante p1 , è tanto migliore quanto più x è vicino ad x0 : esso tende a zero per
x → x0 e vi tende più rapidamente di quanto x tende ad x0 , come quantificato dalla
formula (1.73). Questa osservazione è resa ancora più precisa dal Teorema 1.5 che
segue, e in particolare dalla sua dimostrazione.
Possiamo finalmente formalizzare la nozione di retta tangente cui abbiamo già di-
verse volte alluso facendo affidamento alla nostra intuizione geometrica.
Definizione 1.4. Sia f : (a, b) → R e sia x0 ∈ (a, b). Se f è derivabile in x0 , la
retta tangente al grafico di f nel punto (x0 , f (x0 )) è la retta di equazione
(1.75) y = f (x0 ) + f � (x0 )(x − x0 ).
Se f non è derivabile in x0 , diremo che la retta tangente al grafico di f nel punto
(x0 , f (x0 )) non esiste.

Esempi.
(5) Le funzioni costanti hanno derivata nulla in ogni punto in quanto il rapporto
incrementale è costantemente uguale a zero.
(6) Abbiamo visto nell’Esempio�n2 che la linearizzazione nell’origine di un polinomio
j
di grado n, diciamo Q(x) = a
j=0 j x , è semplicemente il termine lineare p(x) =

a0 + a1 x. Quindi Q (0) = a1 . Ciò naturalmente segue anche dalla definizione di
derivata. Infatti
�n n
Q(x) − Q(0) Q(x) − a0 j=1 aj x
j �
= = = aj xj−1 = a1 + a2 x + · · · + an xn−1
x x x j=1

ed evidentemente questo converge a a1 per x → 0.


1La
formula (1.74) è la prima di una famiglia di formule del tipo f (x) = pn (x) + Rn (x) , note
come sviluppi di Taylor di ordine n .
Calcolo differenziale 161

(7) Come discusso nell’Esempio 3, la funzione x �→ |x| non è linearizzabile in x0 = 0


e quindi non esiste la retta tangente al grafico nell’origine.
(8) La maggior parte dei limiti notevoli che abbiamo incontrato possono essere in-
terpretati come la dimostrazione della derivabilità (spesso nell’origine) dell’opportuna
funzione elementare. Riprendendo i casi visti nell’Esempio 4, abbiamo la tabella:
f (x) f � (0) retta tangente
sin x 1 x
cos x 0 1
ex 1 x+1
log(1 + x) 1 x

Come accennato all’inizio del capitolo, la derivata è legata al concetto di velocità.


Supponiamo infatti di descrivere il moto di un punto su una retta mediante una funzione
f : I → R definita in un intervallo di tempo I , e per semplicità supponiamo I = (a, b).
Dunque f (t) descrive la posizione del punto all’istante t. Se pertanto t0 è un istante
fissato e h è un piccolo incremento temporale, in tale lasso di tempo il punto si è
spostato di f (t0 + h) − f (t0 ). Evidentemente, il rapporto incrementale
f (t0 + h) − f (t0 )
h
rappresenta la velocità media del punto in quell’intervallo temporale: se il moto fosse
uniforme, essa sarebbe esattamente la velocità costante con la quale il punto si è
spostato da f (t0 ) a f (t0 + h). Passando perciò al limite per h → 0 si ottiene la
velocità istantanea del punto nell’istante t0 . Questa idea è di fondamentale impor-
tanza in Meccanica.

Il risultato che segue conferma l’idea intuitivamente chiara che la derivabilità in un


punto sia una proprietà più forte della continuità.
Proposizione 1.5. Se f : (a, b) → R è derivabile in x0 ∈ (a, b), allora essa è
continua in x0 .
Dimostrazione. In virtù del punto (iii) del Teorema 1.3, per ogni x ∈ (a, b) abbiamo
f (x) = f (x0 ) + f � (x0 )(x − x0 ) + R1 (x)
con R1 (x)/(x − x0 ) → 0. Siccome dunque R1 (x)/(x − x0 ) è convergente, essa è
localmente limitata (Proposizione 2.9) e poiché x − x0 è infinitesima, il prodotto è
infinitesimo (Proposizione 2.21), ossia R1 (x) → 0 per x → x0 . Ma allora
lim f (x) = lim [f (x0 ) + f � (x0 )(x − x0 ) + R1 (x)] = f (x0 ),
x→x0 x→x0

da cui la continuità in x0 . �

Si osservi che naturalmente l’implicazione opposta a quella della proposizione prece-


dente è falsa: la funzione x �→ |x| è continua ma non derivabile nell’origine.
162 Analisi Matematica 1

Passiamo ora allo studio delle cosiddette regole di derivazione, ossia al vero e proprio
calcolo delle derivate.
Proposizione 1.6 (Derivata di somme e prodotti). Siano f, g : (a, b) → R
derivabili in x0 ∈ (a, b). Allora sono derivabili in x0 anche le funzioni f + g , f g e αf
per ogni α ∈ R e si ha:
(i) (f + g)� (x0 ) = f � (x0 ) + g � (x0 );
(ii) (f g)� (x0 ) = f � (x0 )g(x0 ) + f (x0 )g � (x0 );
(iii) (αf )� (x0 ) = αf � (x0 ).
Dimostrazione. Per la somma si ha
(f + g)(x) − (f + g)(x0 ) f (x) − f (x0 ) g(x) − g(x0 )
= + → f � (x0 ) + g � (x0 )
x − x0 x − x0 x − x0
per x → x0 . Per il prodotto invece
(f g)(x) − (f g)(x0 ) f (x)g(x) − f (x)g(x0 ) + f (x)g(x0 ) − f (x0 )g(x0 )
=
x − x0 x − x0
� � � �
g(x) − g(x0 ) f (x) − f (x0 )
= f (x) + g(x0 ) .
x − x0 x − x0
Ora, poiché f e g sono derivabili in x0 , esse sono continue in x0 . Quindi il rapporto
incrementale tende a f (x0 )g � (x0 )+g(x0 )f � (x0 ) per x → x0 . La (iii) segue da (ii) perché
le costanti hanno derivata nulla: basta prendere g(x) = α per ogni x ∈ (a, b). �

La formula in (ii) è nota come regola di Leibnitz. Dai punti (i) e (iii) segue la
linearità della derivazione, nel senso che per ogni α, β ∈ R si ha
(αf + βg)� (x0 ) = αf � (x0 ) + βg � (x0 ).
Proposizione 1.7 (Derivata della funzione composta). Siano f : (a, b) → R
e g : (c, d) → R derivabili rispettivamente in x0 ∈ (a, b) e in f (x0 ) ∈ (c, d) e si
supponga che f ((a, b)) ⊆ (c, d). Allora la funzione g ◦ f è derivabile in x0 e si ha:
(g ◦ f )� (x0 ) = g � (f (x0 ))f � (x0 ).
Dimostrazione. Poniamo per semplicità y0 = f (x0 ) e consideriamo gli sviluppi di
Taylor al prim’ordine
f (x) = f (x0 ) + f � (x0 )(x − x0 ) + Rf (x)
g(y) = g(y0 ) + g � (y0 )(y − y0 ) + Rg (x),
ove si sono denotati con Rf e Rg i resti. Quindi, per ipotesi Rf (x)/(x − x0 ) → 0 per
x → x0 mentre Rg (y)/(y − y0 ) → 0 per y → y0 . Pertanto, in y = f (x) si ha
g(f (x)) = g(y0 ) + g � (y0 )(f (x) − y0 ) + Rg (f (x))
� �
= g(y0 ) + g � (y0 ) f (x0 ) + f � (x0 )(x − x0 ) + Rf (x) − g � (y0 )f (x0 ) + Rg (f (x))
� � � �
= g(f (x0 )) + g � (f (x0 ))f � (x0 )(x − x0 ) + g � (f (x0 ))Rf (x) + Rg (f (x)) .
Calcolo differenziale 163

L’espressione precedente per g ◦ f è costituita dalla somma di due addendi: l’addendo


lineare g(f (x0 )) + g � (f (x0 ))f � (x0 )(x − x0 ) più il secondo addendo
Q(x) = g � (f (x0 ))Rf (x) + Rg (f (x)).
Se proviamo che
Q(x)
lim = 0,
x→x0 x − x0
allora il Teorema 1.3 ci dice che l’espressione ottenuta è lo sviluppo di Taylor al
prim’ordine di g ◦ f , in quanto Q si comporta esattamente come il resto di g ◦ f .
Ne seguirebbe allora che g ◦ f è derivabile in x0 e dunque in particolare che il coef-
ficiente del termine lineare, ossia g � (f (x0 ))f � (x0 ) è proprio la derivata in x0 , come
desideriamo dimostrare. D’altre parte,
Q(x) g � (f (x0 ))Rf (x) + Rg (f (x))
=
x − x0 x − x0
R f (x) Rg (f (x))
= g � (f (x0 )) +
x − x0 x − x0
R f (x) Rg (f (x)) f (x) − f (x0 )
= g � (f (x0 )) +
x − x0 f (x) − f (x0 ) x − x0
� �� �
� Rf (x) Rg (y) f (x) − f (x0 )
= g (f (x0 )) + .
x − x0 y − y0 x − x0
Ora, siccome f è continua in x0 , posto y = f (x) si ha y → y0 per x → x0 . In altri
termini, possiamo applicare il Teorema 2.23 di cambio di variabile nei limiti ed ottenere
Q(x)
→ g � (f (x0 )) · 0 + 0 · f � (x0 ) = 0,
x − x0
come volevamo. �

La regola di derivazione della funzione composta viene detta anche regola della
catena, traduzione dell’inglese chain rule.
Completiamo il quadro relativo alle regole di derivazione con i tre risultati che
seguono. Procederemo poi a ottenere le derivate delle funzioni elementari e a disporre
perciò degli strumenti adeguati per il calcolo della maggior parte delle derivate che
ragionevomente capita di dover calcolare. Omettiamo la non difficile dimostrazione
della proposizione che segue. Il lettore curioso la potrà ricavare da solo per esercizio
oppure leggerla ad esempio in [DM].
Proposizione 1.8 (Derivata dell’inversa). Sia f : (a, b) → R continua e inver-
tibile in (a, b) e derivabile in x0 ∈ (a, b) e si supponga f � (x0 ) �= 0. Allora la funzione
inversa f −1 è derivabile in y0 = f (x0 ) e si ha
1 1
(f −1 )� (y0 ) = = .
f � (x 0) f � (f −1 (y 0 ))
164 Analisi Matematica 1

Se sapessimo a priori che la funzione inversa è derivabile in y0 , potremmo ottenere


l’espressione della derivatta dall’identità f −1 (f (x)) = x, certamente valida per ogni
x ∈ (a, b). Infatti, dal Teorema 1.7 e dal fatto che la derivata di x �→ x è 1 si ottiene
1 = (f −1 ◦ f )� (x0 ) = (f −1 )� (f (x0 ))f � (x0 ) = (f −1 )� (y0 )f � (x0 ),
da cui la formula.
Il fatto che il coefficiente angolare della retta tangente al grafico di f −1 sia il
reciproco di quello della retta tangente al grafico di f nel punto corrispondente, non
è sorprendente: i ruoli di x e y sono per l’appunto invertiti e quindi il rapporto
incrementale è il reciproco.

Modificando le notazioni della Proposizione 1.8, abbiamo perciò che nel punto
(x0 , f −1 (x0 )) = (f (t0 ), t0 ), la retta tangente al grafico della funzione inversa ha equazione:
x − x0
(1.76) y = f −1 (x0 ) + (f −1 )� (x0 )(x − x0 ) = t0 + � .
f (t0 )
Proposizione 1.9 (Derivata del reciproco). Sia f : (a, b) → R derivabile in
x0 ∈ (a, b) e si supponga f (x0 ) �= 0. Allora la funzione reciproca 1/f è definita in un
intorno di x0 , è derivabile in x0 e si ha
� ��
1 f � (x0 )
(x0 ) = − .
f (f (x0 ))2
Dimostrazione. Il rapporto incrementale di 1/f (x) in x0 è
� � � �
1 1 1 1 f (x0 ) − f (x) 1 f (x) − f (x0 )
− = =− .
x − x0 f (x) f (x0 ) x − x0 f (x)f (x0 ) f (x)f (x0 ) x − x0
Siccome f è continua, esso converge a −f � (x0 )/(f (x0 ))2 per x → x0 . �

Corollario 1.10 (Derivata del quoziente). Siano f, g : (a, b) → R derivabili


in x0 ∈ (a, b) e si supponga g(x0 ) �= 0. Allora la funzione quoziente f /g è definita in
Calcolo differenziale 165

un intorno di x0 , è derivabile in x0 e si ha
� ��
f f � (x0 )g(x0 ) − f (x0 )g � (x0 )
(x0 ) = .
g (g(x0 ))2
Dimostrazione. Applichiamo la regola di Leibnitz al prodotto f (1/g) e la Propo-
sizione 1.9, ottenendo
� �� � ��
1 � 1 1
f (x0 ) = f (x0 ) + f (x0 ) (x0 )
g g(x0 ) g
f � (x0 ) g � (x0 )
= − f (x0 )
g(x0 ) (g(x0 ))2
f � (x0 )g(x0 ) − f (x0 )g � (x0 )
= .
(g(x0 ))2

Concludiamo questo paragrafo con qualche osservazione sui limiti destri e sinistri.
Definizione 1.11. Sia f : [a, b] → R.
(i) se x0 ∈ [a, b) e se esiste finito il limite
f (x) − f (x0 )
lim+
x→x0 x − x0

esso si denota f+� (x0 ) e si chiama la derivata destra di f in x0 ;


(ii) se x0 ∈ (a, b] e se esiste finito il limite
f (x) − f (x0 )
lim−
x→x0 x − x0

esso si denota f−� (x0 ) e si chiama la derivata sinistra di f in x0 .


Evidentemente, se x0 ∈ (a, b) allora f è derivabile in x0 se e solo se esistono sia la
derivata destra che la derivata sinistra in x0 e si ha f+� (x0 ) = f−� (x0 ).

Esempi.

(9) Come visto nell’Esempio 3, la funzione |x| non è derivabile nell’origine. Però
f (x) − f (0) |x| − 0 x
lim+ = lim+ = lim+ = 1
x→0 x x→0 x x→0 x
f (x) − f (0) |x| − 0 −x
lim− = lim− = lim− = −1
x→0 x x→0 x x→0 x
cosicché f+� (0) = 1 e f−� (0) = −1.
166 Analisi Matematica 1

2. Derivate di funzioni elementari


In questo paragrafo calcoleremo le derivate delle principali funzioni elementari che
abbiamo incontrato finora. Utilizzeremo spesso le notazioni
df
f � (x), (x)
dx
per indicare la derivata di f come funzione. In effetti, se f : (a, b) → R è derivabile
in ogni punto di (a, b), allora è definita in modo naturale la funzione x �→ f � (x), che
evidentemente si chiama la derivata di f . La seconda notazione è particolarmente
comoda quando f è definita mediante una formula. Ad esempio,
d�
log(1 + x)
dx

indica la derivata di x �→ log(1 + x), dove e se esiste, e ci consente di lavorare
direttamente con la formula, evitando di dare un “nome” alla funzione. Similmente, se
f è definita mediante una formula e vogliamo calcolare f � (g(x)), dove g(x) è un’altra
funzione, avremo occasione di scrivere
d
(x �→ f (x)) (g(x)).
dx
Ad esempio, scriveremo
d � � �
(2.77) x �→ log(1 + x) (ex ).
dx

2.1. Potenze con esponente intero, polinomi. Abbiamo già visto negli esempi
2 e 6 che la derivata di x �→ x è 1, come peraltro risulta chiaro dal fatto che il rapporto
incrementale in ognoi punto vale esattamente 1. Proviamo ora per induzione su n che
d n
(2.78) x = nxn−1 .
dx
Supponendo (2.78) vera fino al grado n, si ha poi, per ipotesi induttiva e per la regola
di Leibnitz
� � � �
d n+1 d� n � d n n d
x = x x = x x+x x = nxn−1 · x + xn · 1 = (n + 1)xn ,
dx dx dx dx

che è esattamente (2.78) per n + 1. Dalla linearità della derivata, si ottiene subito che
n n n−1
d � � �
(2.79) ak x k = kak xk−1 = (k + 1)ak xk .
dx k=0 k=1 k=0

Quindi la derivata di un polinomio di grado n è un polinomio di grado n − 1.


Calcolo differenziale 167

2.2. Esponenziali e logaritmi. La derivata della mappa esponenziale x �→ ex si


ottiene molto facilmente dalla derivata nell’origine (che abbiamo già calcolato) e dalle
proprietà della funzione:
ex+h − ex ex eh − ex eh − 1
= = ex → ex
h h h
per h → 0, per via del solito limite notevole. Vale dunque la fondamentale formulaw
d x
(2.80) e = ex
dx
che, in particolare, esprime il fatto che la funzione esponenziale è derivabile su tutto
l’asse reale. Dimostreremo che essa è l’unica funzione derivabile su R che soddisfa le
proprietà �
f � (x) = f (x) per ogni x ∈ R
f (0) = 1.
Similmente, per ogni base reale a > 0 si ottiene
ax+h − ax ax ah − ax ah − 1
= = ax → ax log a,
h h h
da cui
d x
(2.81) a = ax log a.
dx
Applicando le varie regole di derivazione viste e (2.80) si ha inoltre
� � � �
d d ex + e−x 1 d x d −x 1� x �
cosh x = = e + e = e + e−x (−1) .
dx dx 2 2 dx dx 2
Quindi
d
(2.82) cosh x = sinh x
dx
e similmente
d
(2.83) sinh x = cosh x.
dx
Dalla regola di derivazione della funzione inversa si ottiene
d 1 1
log x = d
= ,
dx dx
(x x
�→ e )(log x) x
ossia
d 1
(2.84) log x = .
dx x
Similmente, si ottiene
d 1
(2.85) loga x = .
dx x log a
168 Analisi Matematica 1

2.3. Potenze generali. Se α ∈ R e x > 0, utilizzando la regola di derivazione


della funzione composta e le derivate calcolate sopra, abbiamo
d α d α log x d d α
x = e = (x �→ ex ) (α log x) · α log x = eα log x · ,
dx dx dx dx x
ossia
d α
(2.86) x = αxα−1 ,
dx
che evidentemente generalizza (2.78) al caso di potenza reale. Osserviamo che, in
particolare, per α = 1/2, si ha
d√ 1
(2.87) x= √ .
dx 2 x
Se la potenza è a sua volta una funzione di x, anziché una costante, la regola (2.86) si
estende in modo complicato, anche se il metodo di calcolo è lo stesso. Più in generale,
se f è una funzione derivabile positiva e g è una funzione derivabile qualunque, si ha
d d g(x) log f (x)
f (x)g(x) = e
dx dx
d d
= (x �→ ex ) (g(x) log f (x)) · g(x) log f (x)
dx dx
� d �
g(x) �
= f (x) g (x) log f (x) + g(x) log f (x)
dx
� 1 � �
= f (x)g(x) g � (x) log f (x) + g(x) f (x) ,
f (x)
ossia
d � g(x) � �
(2.88) f (x)g(x) = f (x)g(x) g � (x) log f (x) + f (x) .
dx f (x)
Quindi, se g(x) = α, ossia se g è costante, si ha
d
(2.89) f (x)α = αf (x)α−1 f � (x),
dx
coerentemente con (2.86) se f (x) = x.

2.4. Funzioni trigonometriche. Dalle formule di prostaferesi


� � � � � �
sin(x + h) − sin x 2 2x + h h h sin (h/2)
= cos sin = cos x + .
h h 2 2 2 h/2
Perciò, utilizzando la continuità del coseno e il solito limite notevole sin x/x → 1 per
x → 0 si ottiene
d
(2.90) sin x = cos x.
dx
Similmente,
� � � � � �
cos(x + h) − cos x 2 2x + h h h sin (h/2)
= − sin sin = − sin x + ,
h h 2 2 2 h/2
Calcolo differenziale 169

da cui
d
(2.91) cos x = − sin x.
dx
Applicando la formula di derivazione del quoziente si ha pertanto
� � �d � �d �
d d sin x dx
sin x cos x − sin x dx cos x (cos x)2 + (sin x)2
tan x = = = ,
dx dx cos x (cos x)2 (cos x)2
da cui le due formule
d 1
(2.92) tan x = 1 + (tan x)2 = .
dx (cos x)2
Applichiamo ora le regole di derivazione della funzione inversa e calcoliamo la derivata
di arcsin x, arccos x e arctan x. Innanzitutto,
d 1
arcsin x = .
dx cos (arcsin x)

Per x ∈ [−π/2, π/2] il coseno è non negativo, perciò cos x = 1 − sin2 x. Ne segue
d 1
arcsin x = �
dx 2
1 − sin (arcsin x)
ossia
d 1
(2.93) arcsin x = √
dx 1 − x2
e similmente
d 1
(2.94) arccos x = − √ .
dx 1 − x2
Infine
d 1
arctan x = 2
dx 1 + tan (arctan x)
e quindi
d 1
(2.95) arctan x = .
dx 1 + x2

Esempi.
(10) Riprendiamo 2.77 ed effettuiamo il calcolo. Siccome
d� 1 1
log(1 + x) = � ,
dx 2 log(1 + x) 1 + x
si avrà
d � � � 1 1
x �→ log(1 + x) (ex ) = � .
dx 2 log(1 + ex ) 1 + ex

(11) Vogliamo calcolare la derivata di f (x) = xx . Siccome


x
xx = elog x = ex log x
170 Analisi Matematica 1

si avrà � �
d x x log x 1
x =e 1 · log x + x · = xx (1 + log x).
dx x
Calcolo differenziale 171

3. I teoremi classici del calcolo differenziale


In questo paragrafo studiamo alcuni teoremi classici, che consentono di ottenere in-
formazioni molto rilevanti sul comportamento di una funzione a partire dalla conoscenza
delle proprietà della sua derivata o, viceversa, a dedurre proprietà della derivata da
quelle della funzione. Ci riferiamo soprattutto alla monotonia e allo studio degli es-
tremi locali, un raffinamento dei concetti di massimo e minimo introdotti e discussi nei
capitoli precedenti. È infatti molto importante estendere queste nozioni, conferendovi
anche un significato anche locale.
Supponiamo di studiare l’andamento della temperatura di una certa città in fun-
zione del tempo. Come i servizi metereologici non mancano mai di ricordarci, nell’arco
della giornata vengono registrate le temperature massime e minime. Si tratta, appunto,
di valori relativi ad una sola giornata. Evidentemente, la temperatura massima reg-
istrata in un giorno di gennaio sarà assai inferiore alla massima registrata a luglio (e
magari inferiore anche alla minima). Similmente, le minime di agosto saranno notevol-
mente superiori a quelle di dicembre (e magari anche alle massime). Ciò nondimeno,
relativamente ad un breve lasso di tempo quale una giornata, oppure anche una sta-
gione, le massime e le minime, giornaliere o stagionali, forniscono informazioni utili e
interessanti.
L’importanza del concetto di massimo o minimo locale è ancora più trasparente se
si pensa alla mappatura dei rilievi terrestri: per dare una descrizione adeguata della
geografia di una regione è senz’altro significativo individuare colline e avvallamenti. In
questo caso, la funzione che si vuole descrivere è l’altezza sul livello del mare di una
zona della superficie terrestre, ed è quindi definita su una porzione di piano2 anziché
su un sottoinsieme della retta reale. Da un punto di vista concettuale, l’obbiettivo che
si vuole raggiungere è però del tutto analogo, cioè distinguere aspetti locali da aspetti
globali. La cima di una collina rappresenta un massimo locale, anche se magari vi sono
altre colline o montagne che sono più alte.

Definizione 3.1. Siano I ⊂ R e f : I → R. Diremo che x0 ∈ I è un punto di:


(i) massimo globale (o assoluto) se f (x0 ) ≥ f (x) per ogni x ∈ I ;
(ii) minimo globale (o assoluto) se f (x0 ) ≤ f (x) per ogni x ∈ I ;
(iii) massimo locale (o relativo) se esiste δ > 0 tale che f (x0 ) ≥ f (x) per ogni
x ∈ (x0 − δ, x0 + δ) ∩ I ;
(iv) minimo locale (o relativo) se esiste δ > 0 tale che f (x0 ) ≤ f (x) per ogni
x ∈ (x0 − δ, x0 + δ) ∩ I .
2Il geoide terrestre viene assimilato ad un piano se si considerano regioni abbastanza piccole.
172 Analisi Matematica 1

Se x0 soddisfa (i) o (ii) esso si dice un estremo globale (o assoluto) per f ; se esso
soddisfa (iii) o (iv) esso si dice un estremo locale (o relativo) per f . Se inoltre le
diseguaglianze valgono in senso stretto per x �= x0 , si parla di massimi o minimi (locali
o globali) forti.
Si osservi che se x0 è un estremo assoluto allora è anche un estremo relativo, mentre
il viceversa è falso. Si consideri ad esempio la seguente funzione

Evidentemente, essa ha cinque massimi relativi di cui uno assoluto e due agli es-
tremi, e quattro minimi relativi, di cui due assoluti.
Teorema 3.2 (di Fermat). Sia f : (a, b) → R e sia x0 ∈ (a, b). Se x0 è un
estremo relativo e se f è derivabile in x0 , allora f � (x0 ) = 0.
Dimostrazione. Supponiamo che x0 sia di minimo relativo; il caso in cui esso è di
massimo relativo è analogo, e la dimostrazione viene lasciata per esercizio. Allora esiste
δ > 0 tale che
f (x0 + h) − f (x0 )
≥0 per ogni h ∈ (0, δ),
h
f (x0 + h) − f (x0 )
≤0 per ogni h ∈ (−δ, 0).
h

Passando al limite per h → 0, si ottiene f+� (x0 ) ≥ 0 e f−� (x0 ) ≤ 0. Poiché per ipotesi f
è derivabile in x0 si ha necessariamente f+� (x0 ) = f−� (x0 ) = f � (x0 ), cosicché f � (x0 ) = 0.

Definizione 3.3. Sia f : (a, b) → R. Se x0 ∈ (a, b) è un punto in cui f è
derivabile e f � (x0 ) = 0, allora esso si dice un punto critico (o stazionario) di f .
Calcolo differenziale 173

Esempi.

(12) Il teorema di Fermat può essere formulato dicendo che se x0 è un punto di estremo
relativo per f ed esiste f � (x0 ), allora esso è un punto critico per f . Il viceversa è falso:
la funzione f (x) = x3 ha nell’origine un punto critico (in quanto f � (x) = 3x2 che
evidentemente si annulla nell’origine) ma esso non è un estremo relativo. Infati, se
x > 0 (quindi a destra e arbitrariamente vicino all’origine) allora f (x) > 0, mentre se
x < 0 (quindi a sinistra e arbitrariamente vicino all’origine) allora f (x) < 0.

(13) Sia f : [a, b] → R e supponiamo che f sia derivabile in tutto l’intervallo aperto
(a, b) e che inoltre esistano f+� (a) e f−� (b). Se a oppure b sono estremi (anche assoluti)
non è affatto detto che f+� (a) = 0 oppure f−� (b) = 0. Si consideri infatti la funzione
f (x) = x in [0, 1]. Essa è derivabile in (0, 1) con derivata f � (x) = 1. Evidentemente
f+� (0) = f−� (1) = 1 anche se 0 è il massimo assoluto e 1 è il minimo assoluto di f .

Presentiamo ora il classico “trittico” del calcolo differenziale: i teoremi di Rolle, La-
grange e Cauchy. Essi sono tra essi equivalenti, ovvero, supponendo che uno qualunque
sia vero, si possono dimostrare gli altri due. Nonostante l’equivalenza, il teorema più
(direttamente) utile è quello di Lagrange, noto anche come teorema dei valori intermedi,
e, più ancora, sono di grande utilità i suoi corollari.
Teorema 3.4 (Rolle). Sia f : [a, b] → R continua in [a, b] e derivabile in (a, b).
Se f (a) = f (b), allora esiste ξ ∈ (a, b) tale che f � (ξ) = 0.
Dimostrazione. Se f è costante, allora f � (x) = 0 per ogni x e il risultato è ovvio.
Supponiamo allora che f non sia costante. Siano xM , xm ∈ [a, b], rispettivamente, il
massimo e il minimo (assoluti) di f , certo esistenti per il teorema di Weierstrass. Uno
tra xM e xm non è un estremo dell’intervallo [a, b], perché altrimenti il valore massimo
e il valore minimo di f coinciderebbero, ed f sarebbe costante. Sia ξ l’estremo di f
che sta in (a, b). Poiché in ξ la funzione è certamente derivabile, per il teorema di
Fermat si conclude che f � (ξ) = 0. �
174 Analisi Matematica 1

L’interpretazione geometrica del teorema di Rolle è illustrata nella figura seguente:


se f assume gli stessi valori agli estremi e se esiste la retta tangente in ogni punto, ve
ne è una orizzontale.

Teorema 3.5 (Cauchy). Siano f, g : [a, b] → R continue in [a, b] e derivabili in


(a, b). Allora esiste ξ ∈ (a, b) tale che
� �
f (b) − f (a) f � (ξ)
det =0
g(b) − g(a) g � (ξ)
Dimostrazione. Sia
� �
f (b) − f (a) f (x)
ϕ(x) = det .
g(b) − g(a) g(x)
In quanto combinazione lineare di funzioni continue in [a, b] e derivabili in (a, b), essa
è continua in [a, b] e derivabile in (a, b). Inoltre
ϕ(a) = (f (b) − f (a))g(a) − f (a)(g(b) − g(a)) = f (b)g(a) − f (a)g(b)
ϕ(b) = (f (b) − f (a))g(b) − f (b)(g(b) − g(a)) = −f (a)g(b) + f (b)g(a),
e quindi ϕ(a) = ϕ(b). Ne segue che ϕ soddisfa le ipotesi del teorema di Rolle, e dunque
esiste ξ ∈ (a, b) tale che ϕ� (ξ) = 0. Ma
� �
� f (b) − f (a) f � (x)
ϕ (x) = det ,
g(b) − g(a) g � (x)
il che prova l’asserto. �
Teorema 3.6 (Lagrange). Sia f : [a, b] → R continua in [a, b] e derivabile in
(a, b). Allora esiste ξ ∈ (a, b) tale che
f (b) − f (a) = f � (ξ)(b − a).
Calcolo differenziale 175

Dimostrazione. Sia g(x) = x, una funzione certamente continua in [a, b] e derivabile


in (a, b). Applicando il Teorema di Cauchy ad f e g si ottiene la tesi, in quanto
� �
f (b) − f (a) f � (ξ)
0 = det = f (b) − f (a) − f � (ξ)(b − a).
b−a 1

L’interpretazione geometrica del teorema di Lagrange è del tutto simile a quella del
teorema di Rolle, anzi, si può ben affermare che quest’ultima ne sia un caso particolare.
Infatti, riscrivendo la tesi del teorema di Lagrange nella forma
f (b) − f (a)
= f � (ξ)
b−a
si deduce l’esistenza di una retta tangente al grafico (quella nel punto (ξ, f (ξ))) paral-
lela alla retta che congiunge i punti (a, f (a)) e (b, f (b)). Quindi, l’asserzione geometrica
è analoga a quella del teorema di Rolle, ma “inclinata”.

Corollario 3.7. Sia f : [a, b] → R continua in [a, b] e derivabile in (a, b). Allora
f è costante in [a, b] se e solo se f � (x) = 0 per ogni x ∈ (a, b).
Dimostrazione. Sapiamo già che se f è costante in [a, b], allora f � (x) = 0 per ogni
x ∈ (a, b) in quanto i rapporti incrementali sono tutti nulli. Per provare il viceversa,
assumiamo f � (x) = 0 per ogni x ∈ (a, b) e prendiamo x �= a, cioè x ∈ (a, b]. Poiché f
è continua in [a, x] e derivabile in (a, x), per il teorema di Lagrange esisterà ξ ∈ (a, x)
tale che
f (x) − f (a) = f � (ξ)(x − a) = 0
e dunque f (x) = f (a). Perciò in tutti i punti di [a, b] f assume lo stesso valore. �
176 Analisi Matematica 1

Esempi.

(14) Si noti bene che nel precedente corollario è essenziale che la funzione sia definita
su un intervallo. Ad esempio, la funzione

1 se x ∈ [0, 1]
f (x) =
2 se x ∈ [2, 3]
è continua in I = [0, 1] ∪ [2, 3] e derivabile all’interno di I , ossia in J = (1, 2) ∪ (2, 3),
ha derivata nulla in J ma non è affatto costante.

(15) Il Corollario 3.7 può essere esteso da intervalli limitati a intervalli illimitati, os-
servando che se ad esempio una funzione f : (c, +∞) → R ha derivata identicamente
nulla, allora essa è in particolare nulla su ogni sottointervallo del tipo (a, b) con a > c
e quindi è costante in ogni sottointervallo del tipo [a, b]. Essa è dunque costante in
(a, +∞). Per un esempio interessante, si consideri la funzione
1
f (x) = arctan x + arctan
x
defnita su R\{0}, ove è certamente derivabile in quanto somma di composte di funzioni
derivabili. Calcolando la derivata si ha
� �
� 1 1 1
f (x) = + · − 2 = 0.
1 + x2 1 + (1/x)2 x
Allora f è costante in (0, +∞) e tale costante è il valore di f in qualsiasi punto x > 0,
ad esempio f (1) = arctan 1 + arctan 1 = π/2. Se ne deduce l’interessante formula
π 1
(3.96) − arctan x = arctan
2 x
vera per x ∈ (0, +∞). Che formula si ottiene in (−∞, 0)?
Corollario 3.8. Sia f : [a, b] → R continua in [a, b] e derivabile in (a, b).
(i) Se f � (x) > 0 per ogni x ∈ (a, b), allora f è strettamente crescente in [a, b];
(ii) se f � (x) < 0 per ogni x ∈ (a, b), allora f è strettamente decrescente in [a, b].
Calcolo differenziale 177

Dimostrazione. Dimostriamo (i); la dimostrazione di (ii) è del tutto analoga e viene


lasciata per esercizio. Siano x1 , x2 ∈ [a, b] e si supponga x1 < x2 . Evidentemente, f è
continua in [x1 , x2 ] e derivabile in (x1 , x2 ), e quindi per il teorema di Lagrange esiste
ξ ∈ (x1 , x2 ) tale che
f (x2 ) − f (x1 ) = f � (ξ)(x2 − x1 ).
ll membro destro di questa uguaglianza è positivo per l’ipotesi su f � e per la scelta di
x1 e x2 . Quindi f (x2 ) > f (x1 ) e si ha la tesi. �

Esempi.

(16) Le implicazioni del precedente corollario non possono essere invertite, ossia non
si può dire che se f , supposta continua in [a, b] e derivabile in (a, b), è strettamente
crescente, allora f � (x) > 0 in (a, b). Si consideri f : [−1, 1] → R definita da f (x) = x3 .
Esssa è strettamente crescente in [−1, 1] ma f � (0) = 0. È invece vero che le “versioni
deboli” di monotonia e positività sono equivalenti, nel senso del corollario che segue.

Corollario 3.9. Sia f : [a, b] → R continua in [a, b] e derivabile in (a, b).


(i) f � (x) ≥ 0 per ogni x ∈ (a, b) se e solo se f è non decrescente in [a, b];
(ii) f � (x) ≤ 0 per ogni x ∈ (a, b) se e solo se f è non crescente in [a, b].
Dimostrazione. Al solito, ci limitiamo a (i). Per dimostrare che se f � (x) ≥ 0 per
ogni x ∈ (a, b) allora e f è non decrescente in [a, b] si ragiona come nella dimostrazione
del Corollario 3.8. Viceversa, supponiamo f non decrescente e prendiamo x ∈ (a, b).
Per h �= 0 sufficientemente piccolo in valore assoluto, x + h ∈ (a, b) e per ipotesi

≥ 0 se h > 0
f (x + h) − f (x) è
≤ 0 se h < 0.
Dividendo per h ed osservando che le precedenti diseguaglianze mantengono il verso
per h > 0 e lo invertono per h < 0, si ottiene
f (x + h) − f (x)
≥0
h
per ogni h �= 0 sufficientemente piccolo in valore assolto, indipendentemente dal segno.
Passando al limite per h → 0 si ha f � (x) ≥ 0, come desiderato. �

Si deve quindi interpretare cum granu salis il corollario precedente: se abbiamo


una funzione strettamente crescente in un intervallo chiuso (quindi in particolare non
decrescente), e derivabile al suo interno, possiamo dedurre che f � (x) ≥ 0 nell’intervallo
aperto, ma non possiamo affatto inferire che f � (x) > 0, come visto nell’Esempio 16.

Passiamo ora ad un corollario del teorema di Rolle e del Corollario 3.9, noto come
teorema di Darboux. Esso si enuncia alle volte dicendo che l’immagine di un intervallo
mediante una derivata è un intervallo. La versione che interessa a noi è la seguente:
Corollario 3.10 (Darboux). Sia f : (a, b) → R derivabile in (a, b). Se ξ ed η
sono due punti di (a, b), allora f � assume tutti i valori compresi tra f � (ξ) ed f � (η).
178 Analisi Matematica 1

Dimostrazione. Se f � (ξ) = f � (η) non c’è nulla da dimostrare. Supponiamo allora


per esempio f � (ξ) < f � (η) e prendiamo λ tale che f � (ξ) < λ < f � (η). Dobbiamo
provare che esiste un punto c ∈ (a, b) tale che f � (c) = λ. Si consideri la funzione
g(x) = f (x) − λx, certamente ben definita e derivabile in tutto (a, b). Per ipotesi,
g � (ξ) = f � (ξ) − λ < 0 mentre g � (η) = f � (η) − λ > 0. Segue dal Corollario 3.9 che
g non può essere monotona nell’intervallo chiuso I di estremi ξ ed η : se lo fosse, la
sua derivata non potrebbe cambiare segno. Poiché g è continua, essa non è iniettiva
e dunque esistono due punti α < β in I tali che g(α) = g(β). Perciò g soddisfa le
ipotesi del teorema di Rolle in [α, β] e ne consegue l’esistenza di un punto c ∈ (α, β)
tale che 0 = g � (c) = f � (c) − λ, come si voleva. �

Dal risultato precedente si deduce che una derivata non può avere discontinuità di
prima specie, cioè a salto.

Concludiamo il capitolo con gli importanti teoremi di de l’Hôpital e le loro con-


seguenze. Essi riguardano la possibilità di calcolare limiti del tipo
f (x)
lim ,
x→p g(x)

qualora si presentino come forme indeterminate, sapendo calcolare piuttosto


f � (x)
lim .
x→p g � (x)

Sotto opportune ipotesi, l’esistenza del secondo limite ci permette di dedurre che anche
il primo esiste e che essi sono uguali. La natura del punto p e del processo di limite
non è importante, ossia se p ∈ R oppure p = ±∞ oppure ancora se p ∈ R ma x → p+
ovvero x → p− , nel senso che enunciati analoghi valgono in tutte le situazioni possibili.
Per semplicità, daremo l’enunciato in un solo caso, invitando il lettore a produrre gli
enunciati nei casi rimanenti.
Teorema 3.11 (de l’Hôpital). Siano f, g : (a, b) → R derivabili in (a, b), sia

g (x) �= 0 per ogni x ∈ (a, b) e supponiamo che esista
f � (x)
lim+ = �,
x→a g � (x)
finito o infinito3. Se
(i) entrambe f e g sono infinitesime per x → a+ , oppure
(ii) g diverge per x → a+ ,
allora esiste anche il limite lim (f (x)/g(x)) e si ha
x→p

f (x)
lim = �.
x→p g(x)

3Ossia � ∈ R ∪ {±∞} .
Calcolo differenziale 179

Dimostrazione. Ci limitiamo a dimostrare il teorema nel caso (i) e nelle ipotesi in


cui � ∈ R. Il lettore curioso può trovare la dimostrazione dei casi restanti in [R].
Sia ε > 0. Siccome f � (ξ)/g � (ξ) → �, esiste δ > 0 tale che se a < ξ < a + δ , allora
ε f � (ξ) ε
�− < � <�+ .
2 g (ξ) 2
Presi ora x, y con a < x < y < a + δ , per il teorema di Cauchy esisterà ξ ∈ (x, y) tale
che
ε f (x) − f (y) f � (ξ) ε
�− < = � <�+ .
2 g(x) − g(y) g (ξ) 2
Passando al limite per x → a+ , siccome f e g sono entrambe infinitesime, si ha
ε f (y) ε
�− ≤ ≤�+
2 g(y) 2
per ogni y ∈ (a, a + δ). Per definizione di limite, si ha la tesi, in quanto per ogni ε > 0
abbiamo trovato δ > 0 tale che per ogni y ∈ (a, a + δ) risulta
� �
� f (y) �
� − � � < ε,
� g(y) �

visto che � − ε < � − ε/2 e anche � + ε/2 < � + ε. �

Le ipotesi (i) e (ii) si riassumono in gergo dicendo che il teorema di de l’Hôpital


vale nei casi
0 “qualunque cosa”
oppure .
0 ∞
Le virgolette sono naturalmente d’obbligo, e anche quando queste espressioni siano
correttamente interpretate, non si deve dimenticare l’ipotesi fondamentale g � �= 0 vicino
al punto in cui si calcola il limite. Il lettore attento avrà notato che questa ipotesi di
fatto implica la sensatezza del limite per x → a+ del rapporto f (x)/g(x). Infatti,
siccome la derivata di g non si annulla, essa sarà o positiva o negativa e quindi g sarà
strettamente monotona in (a, b). Ma allora g può annullarsi al più una volta in tale
intervallo e quindi per x abbastanza vicino ad a certamente si avrà g(x) �= 0. Infine,
la monotonia di g è stata implicitamente usata nella dimostrazione: quando si applica
il teorema di Cauchy si divide per g(x) − g(y) che non è nullo per x e y vicini ad a.

Esempi.

(17) Supponiamo di voler calcolare


ex − 1 + log(1 − x)
lim ,
x→0 tan x − x
che è una forma indeterminata del tipo “zero su zero”. La derivata del denominatore è
d
(tan x − x) = 1 + (tan x)2 − 1 = (tan x)2
dx
180 Analisi Matematica 1

e non si annulla in un intorno bucato dell’origine. Possiamo quindi provare ad applicare


il teorema di de l’Hôpital una prima volta, ossia possiamo calcolare il rapporto tra le
derivate, ottenendo:
1
d
dx
(ex − 1 + log(1 − x)) ex − 1−x (cos x)2 (ex (1 − x) − 1)
(3.97) d
= = .
dx
(tan x − x) (tan x)2 1−x (sin x)2
Anche questo rapporto è una forma indeterminata del tipo “zero su zero”. Prima di
procedere ad applicare nuovamente il teorema, osserviamo che esso comporta il calcolo
di diverse derivate. Conviene dunque se possibile (e nel nostro caso lo abbiamo fatto)
scrivere la funzione come il prodotto di un termine convergente e di un altro che contiene
la forma indeterminata. Il termine convergente, infatti, che nel nostro caso è
(cos x)2
,
1−x
può essere escluso dai calcoli successivi. Per quanto riguarda la forma indeterminata,
siccome
d
(sin x)2 = 2 sin x cos x
dx
non si annulla in un intorno bucato dell’origine, possiamo provare ad analizzarla cal-
colando ancora il rapporto tra le derivate. Siccome
d
dx
(ex (1 − x) − 1) −xex 1 x ex 1
d
= =− →−
dx
(sin x)2 2 sin x cos x 2 sin x cos x 2
per x → 0, per il teorema di de l’Hôpital, possiamo dedurre che
(ex (1 − x) − 1) 1
lim 2
=−
x→0 (sin x) 2
e quindi che il limite in (3.97) vale anch’esso −1/2. Ma allora, nuovamente per il
teorema di de l’Hôpital, il limite iniziale vale −1/2.
(18) Dimostriamo ora il limite notevole
log x
(3.98) lim = 0, α > 0.
x→+∞ xα

In effetti,
d
dx
log x 1/x 1
d α
= α−1
= →0
dx
x αx αxα
e per il teorema di de l’Hôpital si conclude. Quindi, per x → +∞, il logaritmo diverge
più lentamente di qualunque potenza del suo argomento.
(19) Viceversa, per x → +∞, l’esponenziale diverge più rapidmente di qualunque
potenza del suo argomento:
ex
(3.99) lim = +∞, α > 0.
x→+∞ xα
Calcolo differenziale 181

In effetti, abbiamo a che fare con una forma indeterminata del tipo “infinito su infinito”
e calcolando il rapporto delle derivate una prima volta si ha:
d x
dx
e ex
d α
= .
dx
x αxα−1
Se α − 1 ≤ 0, tale rapporto diverge a +∞, altrimenti si ha ancora una forma indeter-
minata del tipo “infinito su infinito” e calcolando nuovamente il rapporto delle derivate
si ottiene
ex
.
α(α − 1)xα−2
Se α − 2 ≤ 0, esso diverge a +∞, altrimenti si itera il procedimento. Siccome esisterà
un intero non negativo n per il quale α ∈ (n, n + 1], calcolando il rapporto delle
derivate n + 1 volte si perviene a
ex
→ +∞
α(α − 1)(α − 1) . . . (α − n)xα−(n+1)
in quanto α − (n + 1) ≤ 0. La tesi segue evidentemente dal teorema di de l’Hôpital.
(20) Un altro limite notevole interessante riguarda il comportamento del logaritmo per
x → 0+ , cioè
(3.100) lim xε log x = 0. ε > 0.
x→0+
In questo caso, dobbiamo prima osservare che
log x
xε log x = −ε ,
x
che è una forma indeterminata del tipo “infinito su infinito”. Questa osservazione ci
mostra peraltro che il limite (3.100) dice in realtà che il logaritmo diverge (negativa-
mente) più lentamente di ogni potenza negativa di x. L’aspetto interessante è che si
può prendere ε arbitrariamente piccolo, e non nel considerare valori grandi (ad esempio
maggiori di 1) di ε. Se infatti (3.100) è vera per ε = 1, lo è a maggior ragione per
ogni esponente maggiore di 1. Venendo alla dimostrazione,
d
log x 1/x 1
dx
d −ε
= −ε−1
= − xε → 0,
dx
x −εx ε
da cui segue (3.100) per il teorema di de l’Hôpital.
(21) Infine, un esempio nel quale il teorema non si può applicare. Si consideri il limite
x − sin x
lim .
x→+∞ x + sin x

La derivata del denominatore è infatti 1 − cos x e si annulla in ogni “intorno di +∞”,


ossia in ogni semiretta del tipo (a, +∞). Dunque il rapporto tra le derivate non può
neppure essere preso in esame. D’altra parte però
sin x
x − sin x 1− x
= sin x
→1
x + sin x 1+ x
in quanto sin x è limitata e 1/x infinitesima per x → +∞.
182 Analisi Matematica 1

4. Sviluppi di Taylor
In questa sezione ci addentriamo in uno dei temi centrali dell’analisi, ossia la tecnica
di approssimazione locale di una funzione (sufficientemente regolare) mediante poli-
nomi. Il più semplice esempio che illustra l’idea generale è fornito dalla formula (1.74).
La funzione f è espressa, vicino al punto x0 , come la somma di una parte lineare,
ossia x �→ f (x0 ) + d(x − x0 ), e di un resto R1 (x). Di R1 (x) sappiamo che esso è tanto
più piccolo quanto più x è vicino ad x0 ; esso tende a zero per x → x0 e vi tende più
velocemente di quanto x tenda ad x0 , come chiarito dalla formula (1.73). La formu-
lazione geometrica delle affermazioni precedenti consiste nel dire che la retta tangente
al grafico di f approssima molto bene il grafico stesso nelle vicinanze del punto di con-
tatto (x0 , f (x0 )) tra la retta stessa ed il grafico: essa è anzi la migliore approssimazione
lineare possibile. Quest’ultimo fatto è contenuto nel Teorema 1.3, secondo il quale la
linearizzazione di f in x0 , cioè la migliore approssimazione lineare possibile in quel
punto, è la retta il cui coefficiente angolare d è la derivata f � (x0 ).
È del tutto naturale chiedersi se si possa fare di meglio mediante curve, ossia se esista
ad esempio una parabola che passa per (x0 , f (x0 )) ed il cui grafico si adatti a quello
di f in modo da approssimarlo in modo ancora migliore di quanto non lo approssimi
la retta tangente, o magari una cubica, o un polinomio di grado ancora superiore.
Un esempio molto semplice si ottiene guardando la sovrapposizione dei grafici delle
funzioni f (x) = cos x, la funzione costante uguale ad uno, che ne è la linearizzazione
nel punto (0, 1), ed infine il polinomio di secondo grado p2 (x) = 1 − 21 x2 . È del tutto
evidente che quest’ultimo rappresenta un’approssimazione molto migliore di f nelle
vicinanze di (0, 1).

Come vedremo, esso è la migliore approssimazione del secondo ordine di f in (0, 1),
ossia mediante polinomi di secondo grado. Il senso da attribuire a questa affermazione
sarà chiarito in tutti i dettagli; anticipiamo che la differenza tra f e p2 sarà un resto
R2 che andrà a zero di ordine superiore al secondo.
L’idea di sviluppare una funzione localmente intorno ad un punto con polinomi di
grado via via più alto conduce infine al concetto di serie di potenze, mediante il quale
Calcolo differenziale 183

è possibile dare un significato preciso a formule del tipo


1 1
log(1 + x) = x − x2 + x3 + . . .
2 3
1 1
e x = 1 + x + x2 + x3 + . . .
2 3!
1 3 1 5
sin x = x − x + x + . . .
3! 5!
1 2 1 4
cos x = 1 − x + x + . . .
2! 4!
1
= 1 + x + x2 + x3 + x4 + . . .
1−x
che, oltre ad avere profonde implicazioni teoriche, consentono di effettuare rapidamente
calcoli di precisione arbitraria.

4.1. Derivate di ordine superiore al primo. Per formalizzare correttamente


la nozione di approssimazione di ordine superiore, e per molte altre buone ragioni, è
necessario introdurre le nozioni di derivata seconda, derivata terza e cosı̀ via.
Supponiamo che f : (a, b) → R sia derivabile in tutti i punti di (a, b). Allora ad ogni
punto x di tale intervallo possiamo associare il numero reale f � (x) ed abbiamo pertanto
la funzione x �→ f � (x) cui abbiamo già implicitamente fatto riferimento in precedenza.
Essa si chiama la derivata (prima) di f in (a, b). Nulla vieta di supporre che anche
f � sia a sua volta derivabile in (a, b). Si potrà quindi considerare la derivata (f � )� (x)
in ogni punto x ∈ (a, b), ossia la derivata seconda di f ; essa si denota solitamente con
uno dei seguenti simboli:
�� (2) d2 f
f (x), f (x), 2
(x), D2 f (x).
dx
Si potrà quindi definire induttivamente la derivata di ordine k di una funzione, ammesso
che esista, come la derivata della derivata di ordine k − 1. Scriveremo pertanto
f �� (x), f ��� (x), . . .
ed in modo più chiaro quando l’ordine diventa elevato
dk f
f (k) (x), (x), Dk f (x).
dxk
Varrà evidentemente la formula
d (k−1)
f (k) (x) =f (x)
dx
e le altre simili formule che si possono ottenere utilizzando i simboli introdotti, come
ad esempio D(Dk f )(x) = Dk+1 f (x). Chiaramente, la derivata n-esima della derivata
m-esima sarà la derivata (n + m)-esima; in altre parole, gli ordini di derivazione si
sommano. Per ragioni di coerenza notazionale che saranno chiare nel seguito, poniamo
def
(4.101) f (0) (x0 ) = f (x0 ).
184 Analisi Matematica 1

Ancora una osservazione sulle notazioni. Alle volte la derivata di ordine k in x0 si


denota anche
dk f ��
� .
dxk x=x0
Come sappiamo, condizione necessaria affinché una funzione sia derivabile è che essa
sia continua. Quindi, affinché esista f �� (x0 ) in un punto x0 ∈ (a, b) è necessario che f �
sia continua in un intorno aperto di x0 . Considerando se necessario un intervallo più
piccolo di (a, b), si avrà dunque che sia f sia f � sono continue in ogni punto di tale
intervallo. Iterando il ragionamento si perviene alla seguente nozione.
Definizione 4.1 (Classi di derivabilità). Siano f : (a, b) → R una funzione e k
un intero positivo. Diremo che f è di classe C k in (a, b) se esistono tutte le derivate
f (n) di ordine n ≤ k di f in (a, b) e se esse sono ivi continue. Diremo inoltre che
f è di classe C 0 in (a, b) se essa è continua in (a, b). L’insieme di tutte le funzioni
di classe C k in (a, b) sarà denotato C k ((a, b)). In generale, se U ⊆ R è un insieme
aperto, l’insieme di tutte le funzioni ci classe C k su U sarà denotato C k (U ). Valgono
le inclusioni
(4.102) C 0 (U ) ⊃ C 1 (U ) ⊃ C 2 (U ) ⊃ . . .
Si pone infine

(4.103) C ∞ (U ) = C k (U ),
k≥0

l’insieme delle funzioni indefinitamente derivabili in U , ossia con derivate di ogni


ordine in U .

Esempi.

(22) Esistono funzioni che sono derivabili in un intervallo ma che in esso non sono di
classe C 1 . Ciò significa che la derivata esiste ma non è continua. L’esempio standard
è il seguente:
� � �
x2 sin x1 se x ∈ (0, 1]
f (x) =
0 se (−1, 0].
Ovviamente f è derivabile in (−1, 0) ∪ (0, 1). Inoltre,
� � � �
f (x) − f (0) x2 sin x1 1
= = x sin →0
x x x
per x → 0, in quanto x �→ x è infinitesima e x �→ sin(1/x) è limitata. Quindi f � (0)
esiste ed è uguale a zero e banalmente f � (x) = 0 per x ∈ (−1, 0). D’altra parte, per
x ∈ (0, 1) si ha
� � � �� � � � � �
� 1 1 1 1 1
f (x) = 2x sin + x cos − 2 = 2x sin − cos
x x x x x
Calcolo differenziale 185

e questa non ha limite per x → 0 (il primo addendo è infinitesimo e il secondo non
ammette limite). Quindi f è derivabile in (−1, 1) ma la sua derivata non è continua
nell’origine.

(23) Si può dimostrare facilmente che ciascuna delle inclusioni C k+1 (U ) ⊂ C k (U ) è


un’inclusione propria, ossia non vale mai il segno di uguaglianza tra due classi distinte
di derivabilità, qualunque sia l’aperto (non vuoto) U .
(24) La classe C ∞ (U ), di grande importanza in analisi, contiene in effetti moltissimi
elementi. Prendiamo per esempio U = R. La funzione esponenziale, i polinomi e le
funzioni trigonometriche sono esempi di funzioni in C ∞ (R).
(25) Un classico ed importante esempio di funzione in C ∞ (R) è la funzione
� 2
e−1/x se x �= 0
(4.104) f (x) =
0 se x = 0.
Ci limitiamo ad indicare le ragioni per le quali f ammette derivate di qualunque
ordine nell’origine, che sono tutte uguali a zero, ossia
(4.105) f (k) (0) = 0 per ogni k ≥ 0.
Esaminiamo il rapporto incrementale destro nell’origine:
f (x) − f (0) 1 2
= e−1/x .
x x
Ponendo t = 1/x, si ha t → +∞ per x → 0+ , ed il rapporto diviene
2 t
te−t = t2
e
che per t → +∞ è infinitesimo, come si verifica facilmente ad esempio con il Teorema di
de l’Hôpital. Quindi f+� (0) = 0 e similmente per la derivata sinistra; perciò f � (0) = 0.
Si noti che per x �= 0 si ha
−2
f � (x) = 2x−3 e−x
186 Analisi Matematica 1
−2
e quindi il rapporto incrementale di f � nell’origine è 2x−4 e−x . Considerazioni del
tutto analoghe alle precedenti mostrano che anche f �� (0) = 0. In generale, la derivata
−2
di ordine k di f per x �= 0 è esprimibile nella forma R(x)e−x , dove R(x) è una
funzione razionale, ossia un rapporto di polinomi, in cui il denominatore si annulla
nell’origine (in effetti si può provare che R(x) = P (1/x), dove P è un polinomio). La
stessa forma avrà pertanto il rapporto incrementale di f k (x) ed applicando il Teorema
di de l’Hôpital si vede che tale rapporto è infinitesimo. Un modo informale ma efficace
per esprimere quanto appena provato è dire che f si “appiattisce di ordine infinito”
nell’origine, pur essendo diversa da zero in tutti i punti x �= 0.

4.2. Polinomi di Taylor. Siamo ora in grado di esprimere in modo quantitati-


vamente preciso il fatto che due funzioni sono “indistinguibili” ad una certa scala o
ordine. Nel seguito della sezione questa affermazione verrà chiarita meglio.
Definizione 4.2 (Ordine di contatto). Siano n > 0 un intero, f, g : (a, b) → R
e supponiamo che f e g abbiano (almeno) n derivate in x0 ∈ (a, b). Diremo che esse
hanno ordine di contatto n in x0 se i loro valori coincidono in x0 , cosı̀ come tutte le
derivate fino all’ordine n, ossia se f (k) (x0 ) = g (k) (x0 ) per 0 ≤ k ≤ n.
Per maggiore chiarezza, f e g hanno ordine di contatto n in x0 se e solo se
f (x0 ) = g(x0 )
f � (x0 ) = g � (x0 )
f �� (x0 ) = g �� (x0 )
... ...
f (n) (x0 ) = g (n) (x0 ).
Evidentemente, è necessario che f e g abbiano entrambe almeno n derivate in x0 ma
potrebbero averne di più.
Dalla definizione dovrebbe essere chiaro che se f è derivabile in x0 allora essa e la
sua linearizzazione in x0 hanno ordine di contatto uno in tal punto.

Esempi.
Calcolo differenziale 187

(26) Consideriamo f (x) = cos x, g(x) = 1 − 12 x2 e prendiamo x0 = 0. Come già


osservato, f, g ∈ C ∞ (R), cioè esse hanno derivate di ogni ordine in ogni punto; le
prime quattro derivate nell’origine sono:
f (0) = 1 g(0) = 1

f (0) = − sin(0) = 0 g � (0) = 0
f (2) (0) = − cos(0) = −1 g (2) (0) = −1
f (3) (0) = sin(0) = 0 g (3) (0) = 0
f (4) (0) = cos(0) = 1 g (4) (0) = 0.
Quindi f e g hanno ordine di contatto 3 (quindi anche 2) nell’origine, ma non hanno
ordine di contatto 4, in quanto le derivate quarte non coincidono nell’origine.
2
(27) L’esempio (25) mostra che la funzione e−1/x (prolungata per continuità a zero
nell’origine) ha ordine di contatto arbitrariamente alto con la funzione identicamente
zero, ossia queste due funzioni hanno derivate di ogni ordine coincidenti nell’origine,
pur essendo diverse l’una dall’altra in ogni punto x �= 0.
(28) Consideriamo la funzione esponenziale f (x) = ex in un intorno dell’origine. Sic-
come f (n) (x) = f (x) = ex per ogni n ≥ 0, si avrà f (n) (0) = 1 per ogni intero n ≥ 0.
Consideriamo poi il monomio g(x) = n!1 xn . È un semplicissimo esercizio mostrare che

0 se k �= n
g (k) (0) =
1 se k = n.

Ad esempio, x2 /2 si annulla nell’origine ed anche la sua derivata x; la derivata seconda


vale identicamente 1 (quindi anche nell’origine) e tutte le derivate successive sono
oviamente zero. Analogo fenomeno accade per ogni n, come si può facilmente vedere
ricordando le regole di derivazione delle potenze. Da questo fatto segue che il polinomio
di grado n
1 1 1
pn (x) = 1 + x + x2 + x3 + · · · + xn
2! 3! n!
soddisfa �
1 se k ≤ n
p(k)
n (0) =
0 se k > n.
Ma allora pn ed ex hanno ordine di contatto esattamente n (e non più di n) nell’origine,
in quanto tutte le derivate fino alla n-esima coincidono; le derivate di ordine n + 1
nell’origine sono invece diverse: una è zero e l’altra è 1.

Ispirandoci all’esempio precedente, possiamo osservare che è facile costruire una


funzione la cui derivata di ordine k abbia un preassegnato valore ak in x0 e le cui altre
derivate siano tutte nulle i tal punto. Consideriamo il monomio
ak
mk (x) = (x − x0 )k .
k!
188 Analisi Matematica 1

Le sue derivate in x0 sono tutte nulle, tranne la k -esima che vale ak . In formule:

(j) 0 se j �= k
mk (x0 ) =
ak se j = k,
come si può dimostrare per induzione sull’intero k . Se ne deduce quindi che sommando
un certo numero di monomi di tal sorta (di gradi diversi), si può ottenere un polinomio
le cui derivate in x0 abbiano tutte valori preassegnati.
Proposizione 4.3. Il polinomio
n
� ak
(4.106) pn (x) = (x − x0 )k
k=0
k!

ha in x0 derivate a0 , a1 , . . . , an , ossia

0 se k > n
(4.107) p(k)
n (x0 ) =
ak se k ≤ n.
Esso è inoltre l’unico polinomio di grado n con tale proprietà.
Dimostrazione. La verifica che il polinomio (4.106) soddisfa (4.107) è lasciata al
lettore, ed è una conseguenza della discussione appena svolta. Quanto all’unicità, sia
Qn un polinomio di grado n. Scegliendo opportunamente le costanti b0 , b1 , . . . , bn , esso
può essere scritto nella forma
n
� bk
qn (x) = (x − x0 )k .
k=0
k!

Per quanto appena visto, risulta



0 se k > n
qn(k) (x0 ) =
bk se k ≤ n.
Se quindi qn soddisfa anch’esso la formula (4.107), se cioè ha in x0 derivate a0 , a1 , . . . , an ,
bisogna che bk = ak per k = 1, . . . , n. Ma allora qn = pn , come volevasi. �

La Proposizione 4.3 dice in realtà che è facile costruire un polinomio che abbia
l’ordine di contatto che desideriamo con un’assegnata funzione in un dato punto.
Teorema 4.4 (Polinomio di Taylor). Siano f (a, b) → R ed x0 ∈ (a, b). Sup-
poniamo che f ammetta (almeno) n derivate in x0 . Esiste allora uno ed un solo
polinomio di grado n che ha ordine di contatto n con f in x0 . Esso si chiama il
polinomio di Taylor di f di grado n in x0 , ed è definito dalla formula
n
� f (k) (x0 )
(4.108) pn (x) = (x − x0 )k .
k=0
k!

Se x0 = 0, esso si dice il polinomio di McLaurin di grado n di f .


Calcolo differenziale 189

Dimostrazione. La derivata k -esima del polinomio definito da (4.108) è f (k) (x0 ) in


virtù della Proposizione 4.3, e questo vale per 1 ≤ k ≤ n. Quindi pn ed f hanno
ordine di contatto n in x0 . Per la stessa proposizione, un polinomio di tal grado e con
tali derivate è unico. �

Deve essere chiaro che un polinomio di Taylor dipende dalla funzione f , dal grado
n e dal punto x0 . Per essere precisi bisognerebbe quindi usare una notazione del
tipo pn,x0 [f ](x), che è eccessivamente pesante. Se sarà necessario mettere in evidenza
il grado, mentre la funzione ed il punto sono chiari dal contesto, scriveremo pn (x);
similmente potremo scrivere p[f ] oppure pn [f ] qualora qualche parametro debba essere
evidenziato e gli altri siano chiari.

Esempi.

(29) Da quanto visto nell’esempio (28), il polinomio di McLaurin di grado n di ex è


1 2 1 3 1
pn [exp x] = 1 + x + x + x + · · · + xn .
2! 3! n!

(30) Il polinomio di McLaurin di grado n di un qualunque polinomio Pn di grado n


è il polinomio stesso, cioè Pn . Infatti, se
n

Pn (x) = ck xk ,
k=0
(k)
allora Pn (0) = ck k!, da cui l’asserto.
(31) Un metodo efficace per calcolare ordinatamente il polinomio di Taylor di una
data funzione è di realizzare una tabella. Illustriamo questo metodo applicandolo alla
funzione f (x) = sin x, di cui vogliamo calcolare i polinomi di McLaurin.

n f (n) (x) f (n) (0)


0 sin x 0
1 cos x 1
2 − sin x 0
3 − cos x −1
4 sin x 0
5 ... ...

La tabella mostra un’evidente periodicità: il comportamento delle derivate si ripete


ogni quattro ordini. In particolare, osserviamo che tutte le derivate di ordine pari sono
zero mentre le derivate di ordine dispari sono alternativamente 1 e −1. Quindi, il
polinomio di McLaurin di sin x di un grado qualsiasi conterrà solo potenze dispari a
segni alternati, ossia sarà del tipo
1 3 1 5 1 1 1
(4.109) p2n+1 [sin x] = x − x + x − x7 + x9 + · · · + (−1)n x2n+1 .
3! 5! 7! 9! (2n + 1)!
190 Analisi Matematica 1

Si guardi con attenzione l’ultimo termine: esso indica il segno giusto. Il segno posi-
tivo compare infatti per le potenze 1, 5, 9 . . . , ossia per i dispari 2n + 1 con n pari.
Un’ultima osservazione: il polinomio di McLaurin di grado pari di sin x è un polinomio
di grado dispari! Infatti, per definizione, l’ultimo termine che compare nel polinomio di
McLaurin di grado ad esempio 4, ha come coefficiente di x4 il numero reale f (4) (0)/4!,
che è zero. Quindi tale polinomio è in effetti p4 (x) = x − 3!1 x3 . Più in generale, si può
dire che
p2n+1 [sin x] = p2n+2 [sin x]
ed entrambi sono polinomi di grado 2n + 1 nel senso usuale del termine.
(32) Utilizzando il metodo precedente per la funzione f (x) = cos x, abbiamo

n f (n) (x) f (n) (0)


0 cos x 1
1 − sin x 0
2 − cos x −1
3 sin x 0
4 cos x 1
5 ... ...

Questa volta tutte le derivate di ordine dispari sono zero mentre le derivate di ordine
pari sono alternativamente 1 e −1. Quindi, il polinomio di McLaurin di cos x di un
grado qualsiasi conterrà solo potenze pari a segni alternati, ossia sarà del tipo
1 2 1 4 1 1 1 2n
(4.110) p2n [cos x] = 1 − x + x − x6 + x8 + · · · + (−1)n x .
2! 4! 6! 8! (2n)!
Considerzioni analoghe a quelle svolte per il polinomio di McLaurin della funzione seno
mostrano che
p2n [cos x] = p2n+1 [cos x]
ed entrambi sono polinomi di grado 2n nel senso usuale del termine.
(33) Prendiamo ora f (x) = log(1 + x). La tabellina è questa volta

n f (n) (x) f (n) (0)


0 log(1 + x) 0
1 (1 + x)−1 1
2 −(1 + x)−2 −1
3 2(1 + x)−3 2
4 −3!(1 + x)−4 −3!
5 4!(1 + x)−5 4!
6 −5!(1 + x)−6 −5!

d’interpretazione non più difficile. A partire dalla derivata prima in poi, i segni di
alternano e vale la formula f (k) (0) = ±(k − 1)! con il segno opposto alla parità. Si
Calcolo differenziale 191

avrà dunque
1 1 1 1 1
(4.111) pn [log(1 + x)] = x − x2 + x3 − x4 + x5 + · · · + (−1)n+1 xn .
2 3 4 5 n

(34) La formula (4.105) mostra che il polinomio di McLaurin (del prolungamento per
2
continuità) della funzione e−1/x di qualunque grado è la funzione identicamente nulla.

Concludiamo questa sezione con una osservazione, che formalizziamo nella propo-
sizione che segue; la dimostrazione è lasciata per esercizio al lettore
Proposizione 4.5. Siano f, g : (a, b) → R derivabili n volte in x0 ∈ (a, b) e siano
α, β ∈ R. Si ha allora:
(i) pn [αf + βg] = αpn [f ] + βpn [g];
(ii) p�n [f ] = pn−1 [f � ].

4.3. Sviluppi di Taylor. Il teorema che segue generalizza il Teorema 1.3 ed anche
Teorema 3.6 a gradi più alti.
Teorema 4.6 (Sviluppo di Taylor). Sia f : (a, b) → R derivabile n volte in
x0 ∈ (a, b) e sia pn il suo polinomio di Taylor di grado n in x0 . Posto
(4.112) Rn (x) = f (x) − pn (x),
si ha
Rn (x)
(4.113) lim =0 (formula di Peano).
x→x0 (x − x0 )n
Se inoltre f è derivabile (n + 1) volte in (a, b) \ {x0 }, per ogni x ∈ (a, b) esiste ξ
compreso tra x0 ed x tale che
f (n+1) (ξ)
(4.114) Rn (x) = (x − x0 )n+1 (formula di Lagrange).
(n + 1)!
Dimostrazione. Dimostriamo (4.113) per induzione su n. Per n = 1 essa è esatta-
mente (1.72). Supponiamo ora che la formula (4.113) sia vera per ogni funzione con n
derivate in x0 . Se supponiamo che f ne abbia (n + 1), allora f � ne ha n e possiamo
scrivere la formula (4.113) per f � , cioè
f � (x) − pn [f � ](x)
lim = 0.
x→x0 (x − x0 )n
Si osservi che, riscrivendo il numeratore tenendo conto della Proposizione 4.5, l’uguaglianza
precedente diviene
d
dx
(f (x) − pn+1 [f ]) (x)
lim = 0.
x→x0 (x − x0 )n
192 Analisi Matematica 1

D’altra parte, applicando il Teorema di de l’Hôpital si ha


d
(f (x) − pn+1 [f ]) (x) dx
(f (x) − pn [f ]) (x)
lim = lim d
x→x0 (x − x0 )n+1 x→x0
dx
(x − x0 )n+1
d
(f (x) − pn+1 [f ]) (x)
dx
= lim = 0,
x→x0 (n + 1)(x − x0 )n
che è quanto serve per provare induttivamente la formula di Peano.
Dimostriamo la (4.114) assumendo x > x0 . Il caso x < x0 si dimostra in modo
analogo. Poniamo per semplicità R(x) = Rn (x). Per definizione, visto che pn è il
polinomio di Taylor di f di grado n, si avrà:
R(x0 ) = R� (x0 ) = · · · = R(n) (x0 ) = 0, R(n+1) (x) = f (n+1) (x),
per ogni x ∈ (a, b) \ {x0 }. Poniamo ora S(x) = (x − x0 )n+1 . Evidentemente
S(x0 ) = S � (x0 ) = · · · = S (n) (x0 ) = 0, S (n+1) (x) = (n + 1)!.
Le funzioni R e S soddisfano le ipotesi del Teorema di Cauchy nell’intervallo [x0 , x].
Esiste perciò un punto ξ1 ∈ (x0 , x) tale che
R(x) R� (ξ1 )
= � .
S(x) S (ξ1 )
Similmente, le funzioni R� e S � soddisfano le ipotesi del Teorema di Cauchy nell’inter-
vallo [x0 , ξ1 ]. Esiste perciò un punto ξ2 ∈ (x0 , ξ1 ) tale che
R� (ξ1 ) R�� (ξ2 )
= .
S � (ξ1 ) S �� (ξ2 )
Procedendo, si perviene ad una sequenza di (n + 1) numeri ξ1 , . . . , ξn+1 tali che
x0 < ξn+1 < ξn < · · · < ξ2 < ξ1
e tali che
R(x) R� (ξ1 ) R�� (ξ2 ) R(n+1) (ξn+1 )
= � = �� = · · · = (n+1) .
S(x) S (ξ1 ) S (ξ2 ) S (ξn+1 )
Ponendo ξ = ξn+1 , il primo e l’ultimo membro dell’uguaglianza precedente forniscono
f (n+1) (ξ)
f (x) − pn (x) = (x − x0 )n+1 ,
(n + 1)!
cioè la tesi. �

Il polinomio di Taylor approssima dunque f in un intorno di x0 con una precisione


via via superiore al crescere del grado del polinomio, nel senso che la differenza Rn tende
a zero, per x → x0 , più rapidamente, di quanto tenda a zero la potenza (x − x0 )n ;
questo il senso della formula (4.113). Vale anche il viceversa:
Proposizione 4.7. Se f : (a, b) → R ha n derivate in x0 e P è un polinomio di
grado minore o uguale a n tale che
f (x) − P (x)
lim = 0,
x→x0 (x − x0 )n
Calcolo differenziale 193

allora P è il polinomio di Taylor di grado n di f in x0 .

Dimostrazione. Sia pn il polinomio di Taylor di grado n di f in x0 . La (4.113) e


l’ipotesi implicano che
pn (x) − P (x) pn (x) − f (x) f (x) − P (x)
lim = lim + = 0.
x→x0 (x − x0 )n x→x0 (x − x0 )n (x − x0 )n
Se poniamo
pn (x) − P (x) = d0 + d1 (x − x0 ) + · · · + dn (x − x0 )n ,
si ha dunque
d0 d1 dn−1
0 = lim n
+ n−1
+ ··· + + dn ,
x→x0 (x − x0 ) (x − x0 ) x − x0
il che è possibile se e solo se d0 = d1 = · · · = dn−1 = dn = 0, ossia P (x) = pn (x), che è
quanto si voleva provare. �

In figura sono riportati i polinomi di McLaurin del seno di grado n = 1, 5, 9, 15.


194 Analisi Matematica 1

4.4. Il simbolo “o-piccolo” di Landau. Per esprimere in modo operativamente


snello la formula di Peano, è molto utile introdurre una notazione inventata da Landau4.
Definizione 4.8. Siano f, g : (a, b) → R, x0 ∈ (a, b) e g(x) �= 0 in un intorno
bucato di x0 . Diremo che f è o-piccolo di g per x → x0 se
f (x)
lim =0
x→x0 g(x)
e in tal caso scriveremo f = o (g).
Spieghiamo il senso del simbolo. L’affermazione matematica “f è o-piccolo di g ” si
può parafrasare dicendo che “f tende a zero più rapidamente di g ”. Quindi il rapporto
f /g dovrà essere piccolo in un intorno del punto in esame e questo suggerisce di utiliz-
zare la lettera graficamente più simile allo zero, ossia la “o”. Il concetto matematico che
si vuole sintetizzare potrebbe essere altrettanto bene espresso dalla scrittura f /g = o,
algebricamente equivalente a f = o · g , dove o indica una funzione infinitesima per
x → x0 (e non nulla in un intorno di x0 ). Si usa invece la parentesi anziché il prodotto
perché ciò che si vuole evidenziare è il comportamento di f rispetto a g e non l’esatto
valore del rapporto. Questa osservazione è importante, perché prima di aver compreso
appieno l’uso del simbolo di Landau si è indotti facilmente all’errore. Ad esempio, può
benissimo capitare che siano vere entrambe le scritture f = o (x) e anche f = o (x2 )
per x → 0, senza implicare x = x2 , che ovviamente è falso. Anzi, se f /x2 → 0 per
x → 0, allora a maggior ragione si avrà f /x = (f /x2 )x → 0. Scrivere invece f = o · x2
e simultaneamente f = o · x con la stessa lettera “o” ad indicare una funzione sarebbe
scorretto (perché se ne dedurrebbe x = x2 ) ed usare due lettere diverse, ridondante.
Utilizzando il simbolo di Landau, la formula di Peano per una funzione f con n
derivate in x0 diviene
(4.115) f (x) = pn (x) + o ((x − x0 )n ) .
Essa evidenzia in quale misura valga l’approssimazione locale di f mediante il suo
polinomio di Taylor perché esprime il confronto tra la differenza f (x) − pn (x) e la
potenze intera e positiva (x − x0 )n .

Il simbolo o-piccolo, in combinazione con gli sviluppi di Taylor, permette in molti


casi di svolgere il calcolo dei limiti con grande efficacia, come vedremo. La seguente
4Edmund Georg Landau, 1877–1938, matematico tedesco.
Calcolo differenziale 195

proposizione sintetizza le principali proprietà di tipo algebrico del simbolo; la facile


dimostrazione è un utile esercizio che viene lasciato al lettore.
Proposizione 4.9 (L’algebra di o-piccolo). Sia g : (a, b) → R una funzione
non nulla in un intorno bucato di x0 ∈ (a, b). Per x → x0 , si ha:
(i) o (λg) = o (g), per ogni λ ∈ R \ {0};
(ii) ϕ(x)o (g) = o (g), per ogni ϕ : (a, b) → R limitata in un intorno di x0 .
Se n ed m sono interi non negativi, si ha inoltre:
(iii) o ((x − x0 )n ) ± o ((x − x0 )m ) = o ((x − x0 )p ), con p = min{n, m};
(iv) o ((x − x0 )n ) o ((x − x0 )m ) = o ((x − x0 )n+m );
(v) [o ((x − x0 )n )]m = o ((x − x0 )mn );
(vi) (x − x0 )n o ((x − x0 )m ) = o ((x − x0 )n+m );
(vii) o [o ((x − x0 )n )] = o ((x − x0 )n );
(viii) se f = o ((x − x0 )n ), con n > 0, allora f = o ((x − x0 )m ) per ogni 0 ≤ m < n.
Illustriamo le precedenti considerazioni e le proprietà algebriche appena enunciate
con alcuni esempi.
(35) Dalla definizione, abbiamo che per x → 0
(4.116) 1 − cos x = o (x) ,
in quanto il solito limite notevole del coseno implica che
� �
1 − cos x 1 − cos x 1
=x 2
→ 0 · = 0.
x x 2
Per le stesse ragioni, per ogni numero reale λ avremo per x → 0
λ(1 − cos x) = o (x) ,
che illustra (i). Per quanto riguarda (ii), è ovvio che ad esempio per x → 0
cos x(1 − cos x) = o (x)
perché applicando la definizione si ha
� �
cos x(1 − cos x) 1 − cos x
= cos x → 0.
x x
(36) Una o più formule di McLaurin, unitamente alla formula generale (4.115) e alla
(iii), possono essere usate in sequenza per ottenere informazioni precise su somme
di funzioni. Per illustrare questo aspetto, ridimostriamo la (4.116). Lo sviluppo di
McLaurin del coseno, ossia (4.110), per n = 2 implica che per x → 0
1 � �
1 − cos x = x2 + o x5
2
e poiché dalla definizione si ha x2 /2 = o (x), la (iii) dice proprio che il membro destro
è un o-piccolo di x, visto che min{1, 5} = 1.
La (iii), nel caso n = m, mette in guardia da un possibile errore: in generale, non
è vero che o (xn ) − o (xn ) = 0, bensı̀ , un po’ sorprendentemente,
o (xn ) − o (xn ) = o (xn ) .
196 Analisi Matematica 1

L’espressione o (xn ) − o (xn ) va infatti interpretata come la differenza tra due funzioni,
a priori diverse, ciascuna delle quali tende a zero più rapidamente di xn . Ad esempio,
� � � �
x3 = o x2 , 2x3 = o x2 per x → 0,
ma certamente x3 − 2x3 = −x3 �= 0. Il significato di (iii) è che il comportamento di
una somma (o differenza che sia) è quello del “peggiore” degli addendi. Per esempio,
per x → 0 abbiamo � � � �
x3 = o x2 , x4 = o x3
e della differenza x3 − x4 possiamo dire che essa è un o (x2 ), come garantito da (iii).
(37) Per provare
(ex − 1)2 = o (x) per x → 0,
si può osservare che
� x �2
(ex − 1)2 e −1
=x →0·1=0
x x
oppure, sapendo che ex = 1 + x + o (x), si calcola:
� �
(ex − 1)2 = [x + o (x)]2 = x2 + 2xo (x) + o (x)2 = x2 + o x2 .
Infatti, usando (vi) si ha xo (x) = o (x2 ), mentre (v) implica o (x)2 = o (x2 ). La
conclusione si trae applicando (iii) ancora una volta: o (x2 ) + o (x2 ) = o (x2 ).
(38) La (v) è una conseguenza immediata di (iv). La (vii) può essere parafrasata
dicendo: qualcosa che per x → x0 tende a zero più velocemente di qualcos’altro che vi
tende più velocemente di (x − x0 )n , tende a zero più velocemente di (x − x0 )n .
(39) Infine, la (viii) è una conseguenza della (vii) perché se m < n, allora per x → x0
si ha (x − x0 )n = o ((x − x0 )m ), visto che
(x − x0 )n
m
= (x − x0 )n−m → 0.
(x − x0 )
Quindi se ad esempio f = o (x2 ) allora f = o (x), mentre il viceversa è palesemente
falso: come abbiamo già visto, 1−cos x = o (x), mentre l’affermazione 1−cos x = o (x2 )
è falsa perché (1 − cos x)/x2 → 1/2 per x → 0.
(40) Vale la pena di osservare che l’affermazione “f è infinitesima per x → x0 ” è
semplicemente f = o (1) per x → x0 .
(41) Gli sviluppi di Taylor consentono di ottenere informazioni molto più sofisticate
di quelle che discendono dalle semplici regole algebriche della Proposizione 4.9. Ad
esempio, sappiamo che per x → 0 si ha x = o(1) e anche sin x = o(1), e nessuna delle
due è migliorabile, nel senso che nessuna delle due è un o-piccolo di xn per qualche
intero positivo n. Quindi, dalla (iii) si deduce che sicuramente sin x − x = o(1). Alla
luce della formula (4.109), si può però dimostrare molto di più, ossia sin x − x = o (x2 ).
Più precisamente ancora:
sin x − x 1
(4.117) lim 3
=−
x→0 x 6
Calcolo differenziale 197

Infatti:
� �
sin x − x x − 3!1 x3 + o (x3 ) − x − 3!1 x3 + o (x3 ) 1 o (x3 ) 1
3
= 3
= 3
= − + 3
→− .
x x x 6 x 6
Se quindi le regole algebriche sono di grande utilità nelle manipolazioni, lo strumento
analitico, ossia lo sviluppo di Taylor, fornisce informazioni molto più precise.
(42) Riprendiamo l’Esempio 17 della Sezione 3, ossia
ex − 1 + log(1 − x)
lim .
x→0 tan x − x
Dagli sviluppi notevoli sappiamo che
1 1 � �
e x − 1 = x + x2 + x3 + o x3
2 6
1 2 1 3 � �
log(1 − x) = −x − x − x + o x3
2 3
1 3 � 3�
tan x − x = x + o x .
3
Se ne deduce che
o ( x3 )
ex − 1 + log(1 − x) − 16 x3 + o (x3 ) − 16 + x3 1
lim = lim 1 3 = lim 1 o(x3 ) = − .
x→0 tan x − x x→0
3
x + o (x )3 x→0 + 3 2
3 x

(43) Il lettore attento avrà notato dall’esempio (42) che una volta espressa una forma
indeterminata del tipo “0/0” mediante gli sviluppi di McLaurin fino ad arrivare a
axn + o (xn )
bxm + o (xm )
il limite per x → 0 è presto calcolato:


a/b se n = m
axn + o (xn )
(4.118) lim = 0 se n > m
x→0 bxm + o (xm ) 
non esiste se n < m.

La non esistenza del limite se n < m dipende dal fatto che la funzione in esame
si comporta come (a/b)xn−m , ossia come una potenza negativa di x: essa divergerà
positivamente per x → 0+ e negativamente per x → 0− o viceversa, a seconda del
segno di a/b.

4.5. Composizione di sviluppi. Supponiamo di voler calcolare il polinomio di


McLaurin di f (x) = log(1+sin x) di ordine ad esempio 4. Siamo tentati di argomentare
come segue. Siccome
1 1 1 � �
log(1 + y) = y − y 2 + y 3 − y 4 + o y 4
2 3 4
1 3 � 4�
sin x = x − x + o x
3!
198 Analisi Matematica 1

ponendo y = sin x si avrà allora:


1 1 1 � �
log(1 + sin x) = sin x − (sin x)2 + (sin x)3 − (sin x)4 + o (sin x)4
2 3 4
� � � � � �
1 3 � 4� 1 1 3 � 4� 2 1 1 3 � 4� 3
= x− x +o x − x− x +o x + x− x +o x
3! 2 3! 3 3!
� �4 �� �4 �
1 1 � � 1 � �
− x − x3 + o x4 + o x − x3 + o x4 .
4 3! 3!
Ora, usando l’algebra di o-piccolo
� � � �2 � �
1 3 � 4� 2 2 1 3 � 4 �2 1 3
x− x +o x =x + x + o x − 2x x
3! 3! 3!
� �
� 4� 1 3 � �
+ 2xo x + 2 x o x4
3!
1 � �
= x2 − x4 + o x4
3
e similmente
� � � �
1 3 � 4� 3 3
� 4� 1 3 � 4� 4 � �
x− x +o x =x +o x , x− x +o x = x4 + o x4 .
3! 3!
Quindi, sommando:
� �
1 3 � 4� 1 2 1 4 � 4�
log(1 + sin x) = x − x + o x − x − x +o x
3! 2 3
1 � � �� 1 � � �� � �
+ x3 + o x4 − x4 + o x4 + o x4
3 4
1 2 1 3 1 4 � �
= x − x + x − x + o x4 .
2 6 12
L’algebra di o-piccolo è stata usata per avere espressioni con le potenze di x fino alla
quarta, inglobando poi tutti i termini di ordine superiore in o (x4 ). Il ragionamento
è corretto, come spiegato dal risultato che segue. Includiamo la dimostrazione perché
non è facile reperirla nei libri di testo più comuni.
Teorema 4.10. Supponiamo che:
(i) f : (a, b) → (c, d) sia derivabile n volte in x0 ;
(ii) g : (c, d) → R sia derivabile m volte in y0 = f (x0 ).
Denotato con P il polinomio di Taylor di grado n di f in x0 e con Q il polinomio di
Taylor di grado m di g in y0 = f (x0 ), e posto
n+m

Q ◦ P (x) = ck (x − x0 )k ,
k=0
il polinomio
µ

T (x) = ck (x − x0 )k ,
k=0
Calcolo differenziale 199

dove µ = min{n, m}, è il polinomio di Taylor di grado µ di g ◦ f in x0 .


Dimostrazione. Utilizzeremo la Proposizione 4.7. Mostriamo dapprima che
(4.119) g ◦ f (x) = Q ◦ P (x) + o ((x − x0 )µ )
Scriviamo innanzitutto
g ◦ f (x) − Q ◦ P (x) g(f (x)) − Q(f (x)) Q(f (x)) − Q(P (x))
µ
= + .
(x − x0 ) (x − x0 )µ (x − x0 )µ
Ora, ponendo y = f (x) e usando il cambio di variabile nel calcolo del limite
g(f (x)) − Q(f (x)) g(f (x)) − Q(f (x)) (f (x) − f (x0 ))m
=
(x − x0 )µ (f (x) − f (x0 ))m (x − x0 )µ
� �µ
g(y) − Q(y) f (x) − f (x0 )
= m
(f (x) − f (x0 ))m−µ −→ 0.
(y − y0 ) x − x0
Infatti, il primo fattore è infinitesimo perché Q è il polinomio di Taylor di grado m di g
in y0 , il secondo tende ad una potenza non negativa di f � (x0 ) ed il terzo è infinitesimo
perché f è continua in x0 . D’altra parte, applicando il Teorema di Lagrange, esiste
un punto ξ compreso tra f (x) e P (x) per il quale si ha
Q(f (x)) − Q(P (x)) f (x) − P (x) f (x) − P (x)
µ
= Q� (ξ) µ
= Q� (ξ) (x − x0 )n−µ .
(x − x0 ) (x − x0 ) (x − x0 )n
L’espressione precedente è infinitesima per x → x0 in quanto il primo fattore tende
a g � (y0 ), il secondo è infinitesimo perché P è il polinomio di Taylor di grado n di f
in x0 e il terzo è infinitesimo perché è una potenza non negativa di x − x0 . Abbiamo
perciò provato la (4.119). Osserviamo infine che
n+m

g ◦ f (x) − Q ◦ P (x) g ◦ f (x) − T (x)
µ
= µ
+ ck (x − x0 )k−µ .
(x − x0 ) (x − x0 ) k=µ+1

Siccome il secondo addendo è infinitesimo, e abbiamo provato che lo è anche il membro


sinistro, ne segue che
g ◦ f (x) − T (x)
lim = 0.
x→x0 (x − x0 )µ
Siccome T è un polinomio di grado minore o uguale a µ, la Proposizione 4.7 ci permette
di dire che esso è il polinomio di Taylor di grado µ di g ◦ f in x0 . �

Esempi.
(44) Concludiamo con un esempio. Supponiamo di voler calcolare il limite

eλx − 1 + log(1 + x)
lim
x→0+ 1 − cos(λx)
al variare di λ ∈ R. Innanzitutto, per λ = 0 il denominatore è identicamente nullo
e quindi per tale valore il lilmite cercato non ha senso. Per ogni altro valore di λ, la
200 Analisi Matematica 1

funzione è senza’altro definita in un intorno destro dell’origine, che è quanto necessario


per poter calcolare il limite. Ricordiamo gli sviluppi di Taylor:
1 � �
e x = 1 + x + x2 + o x2
2!
√ 1 1 � �
1 + x = 1 + x − x2 + o x2
2 8
1 2 � �
log(1 + x) = x − x + o x2
2
1 1 � �
cos x = 1 − x2 + x4 + o x2 .
2! 4!
Innanzitutto
� � � �
� 1 1 2 � 2� 1 1 2 � 2� 2 � �
1 + log(1 + x) = 1 + x− x +o x − x− x +o x + o x2
2 2 8 2
1 1 � � 1 � � 2
= 1 + x − x2 + o x2 − x2 + o x2
2 4 8
1 3 2 � 2�
=1+ x− x +o x
2 8
e quindi il numeratore è
� � � �
λx
� 1 3 λ2 � �
e − 1 + log(1 + x) = λ − x+ + x2 + o x2 .
2 8 2
Il denominatore è evidentemente
λ2 � �
1 − cos(λx) = x2 + o x4 .
2
Applichiamo ora la formula (4.118). Per λ = 1/2 il limite cercato è uguale al rapporto
tra i coefficienti dei termini di grado 2, ossia
� 3
ex/2 − 1 + log(1 + x) +1
lim+ = 8 1 8 =4
x→0 1 − cos(x/2) 8
Se λ �= 1/2 si ha invece
� �
ex/2 − 1 + log(1 + x) +∞ se λ > 12
lim+ =
x→0 1 − cos(x/2) −∞ se λ < 12 .
Calcolo differenziale 201

Esercizi

1. Calcolare i polinomi di Taylor di quarto grado delle funzioni seguenti:


(i) xe−x + x log(1 + x) + 2x, x0 = 0;
(ii) x log x − sin(x − 1), x0 = 1
(iii) (sin x)2 − arctan(x2 ), x0 = 0;
(iv) e1−cos x − cos(ex − 1), x0 = 0;
� �1/x4
1 2
2. Calcolare, se esiste, il limite lim cos x + (sin x) .
x→0 2
202 Analisi Matematica 1

5. Proprietà locali di funzioni regolari


In questa sezione useremo l’apparato analitico introdotto nelle sezioni precedenti,
soprattutto gli sviluppi di Taylor, per studiare proprietà locali di funzioni sufficien-
temente regolari, che abbiano cioè una o più derivate in un punto. Un particolare
interesse rivestono i concetti di ordine di infinitesimo (o di infinito) e di estremo locale.

5.1. Confronto locale tra funzioni infinitesime o infinite. Le funzioni in


esame saranno definite tipicamente su intervalli aperti (a, b) che vanno pensati come
intorni del punto vicino al quale l’analisi si concentra. Ciò non esclude che il dominio
delle funzioni sia magari più grande, ma le ipotesi che via via verranno fatte riguarde-
ranno le loro proprietà locali, ossia valide in un intervallo anche molto piccolo che con-
tiene un dato punto x0 . Introduciamo una comoda notazione. Sianof, g : (a, b) → R e
supponiamo che g(x) �= 0 per ogni x ∈ (a, b). Se lim f (x)/g(x) = � �= 0, scriveremo
x→x0

(5.120) f �g per x → x0 .
La scrittura (5.120) significa per definizione che il limite del rapporto f /g esiste ed è un
numero reale diverso da zero ed è, dal punto di vista grafico, e non a caso, simmetrica.
In effetti, per permanenza del segno, sappiamo che f /g non è nulla in un intorno
bucato di x0 , e quindi lo stesso vale per f . Ma allora si può considerare il rapporto
g/f , che tende evidentemente a 1/� �= 0. In altri termini, se f � g allora g � f .
Definizione 5.1. Siano f, g : (a, b) → R entrambe infinitesime per x che tende a
x0 ∈ (a, b), e supponiamo g(x) �= 0 per ogni x ∈ (a, b). Diremo che f è infinitesima
(i) di ordine superiore a g se f = o (g) per x → x0 ;
(ii) dello stesso ordine di g se f � g per x → x0 ;
(iii) di ordine inferiore a g se g = o (f ) per x → x0 ;
(iv) di un ordine non confrontabile con g se lim f (x)/g(x) non esiste.
x→x0

Abbiamo espresso il concetto di confronto locale tra f e g “al finito”, ossia quando
f e g sono infinitesime per x → x0 ∈ R. Non vi è alcuna difficoltà ad estendere le
nozioni precedenti nel caso in cui il punto limite sia +∞ oppure −∞. Se f e g sono
entrambe infinitesime per x → +∞, per esempio, si supporrà g(x) �= 0 su una qualche
semiretta (a, +∞) e si considererà il limite per x → +∞ del rapporto f (x)/g(x).
Lasciamo questo facile esercizio al lettore. Similmente, ci si può limitare a considerare

x → x+ 0 oppure x → x0 .
Come vedremo, anche se la definizione precedente non richiede alcun tipo di deri-
vabilità delle funzioni f e g , il suo ambito più tipico di applicazione sarà quando g è
per esempio una potenza intera e positiva di (x − x0 ), mentre f è una funzione che si
vuole analizzare e possiede un certo numero di derivate in x0 .

Esempi.

(45) La potenza intera (x − x0 )n è infinitesima di ordine superiore a (x − x0 )m se e


solo se n > m; le due potenze saranno dello stesso ordine se e solo se n = m e infine
Calcolo differenziale 203

(x − x0 )n è infinitesima di ordine inferiore a (x − x0 )m se e solo se n < m. Questo caso


paradigmatico spiega la scelta della terminologia.
(46) Come abbiamo osservato diverse volte, x e sin x sono entrambe infinitesime per
x → 0. Il limite notevole sin x/x → 1 esprime il fatto che esse sono infinitesime dello
stesso ordine per x → 0, cioè sin x � x. Similmente, nell’origine, log(1 + x) � x,
ex − 1 � x, 1 − cos x � x2 .
(47) Sia n ≥ 1. Un polinomio del tipo P (x) = an xn + an+1 xn+1 + · · · + aN xN con
an �= 0, è infinitesimo dello stesso ordine di xn per x → 0. Infatti
P (x)
= an + an+1 x + · · · + aN xN −n → an =
� 0.
xn
Inoltre, se an �= 0 e f (x) = an xn + o (xn ), allora anche f è infinitesima dello stesso
ordine di xn per x → 0. Infatti
f (x) o (xn )
= an + → an
xn xn
per definizione di o-piccolo. Questo esempio è molto importante.
(48) Le funzioni x e x sin(1/x) sono entrambe infinitesime per x → 0. Tuttavia il
rapporto x sin(1/x)/x = sin(1/x) non ha limite per x → 0. Si tratta quindi di due
infinitesimi non confrontabili.

Discorsi completamente analoghi ai precedenti valgono per funzioni divergenti. Date


due funzioni divergenti per x → x0 (ma anche per x → x± 0 oppure per x → ±∞)
è in molti casi interessante stabilire quale delle due diverga più rapidamente, ovvero,
selezionata una classe di funzioni divergenti, confrontare con essa una data funzione
divergente. Come nel caso della Definizione 5.1, invitiamo il lettore a formulare la
definizione che segue per limiti fatti da destra o da sinista oppure a ±∞.
Definizione 5.2. Siano f, g : (a, b) → R entrambe divergenti per x che tende a
x0 ∈ (a, b). Diremo che f è infinita
(i) di ordine superiore a g se g = o (f ) per x → x0 ;
(ii) dello stesso ordine di g se f � g per x → x0 ;
(iii) di ordine inferiore a g se f = o (g) per x → x0 ;
(iv) di un ordine non confrontabile con g se lim f (x)/g(x) non esiste.
x→x0

Lo spirito nel quale si vogliono utilizzare le definizioni precedenti è quello di se-


lezionare una famiglia di funzioni per quantificare la nozione di ordine di infinitesimo
o di infinito. Si tratta in altri termini di scegliere un campione (positivo) ϕ, o meglio,
una scala di campionamento {ϕα : α > 0}, e confrontare poi una data funzione con la
famiglia selezionata.
Definizione 5.3. Siano f, ϕ : (a, b) → R e supponiamo che esista α > 0 tale che
f � ϕα per x → x0 .
(i) se f e ϕ sono entrambe infinitesime per x → x0 diremo che f è infinitesima
di ordine α rispetto a ϕ;
204 Analisi Matematica 1

(ii) se f e ϕ sono entrambe divergenti per x → x0 diremo che f è infinita di


ordine α rispetto a ϕ.
Esiste la più completa libertà nella scelta del campione ϕ che si può considerare
nella definizione precedente. Tuttavia, nella stragrande magioranza dei casi le seguenti
scelte standard vengono date per scontate. Si noti che nella definizione di ordine,
si considera la potenza ϕα con esponente positivo α non necessariamente intero. Si
assume quindi implicitamente che ϕ sia positiva in un intorno bucato del punto limite,
oppure che α sia un intero (positivo). Questo introduce una piccola complicazione,
come discusso di seguito.
(A-0) Infinitesimi campione per x → x0 . In questo caso, qualora ci si voglia
limitare agli ordini interi si sceglie come infinitesimo campione la funzione
ϕ(x) = (x − x0 )
mentre se si vogliono considerare ordini arbitrari (positivi), ossia anche non
interi, allora esso sarà
ϕ(x) = |x − x0 |.
(A-∞) Infiniti campione per x → x0 . Similmente, per i soli ordini interi, l’infinito
campione sarà la funzione
1
ϕ(x) =
x − x0
mentre per gli ordini arbitrari, interi e non interi, l’infinito campione sarà
1
ϕ(x) = .
|x − x0 |

(B-0) Infinitesimi campione per x → x+ 0 (oppure per x → x0 ). L’infinitesimo
campione
ϕ(x) = (x − x0 )
+
è positivo per x → x0 e quindi può essere utilizzato per ordini arbitrari. Per
x → x− 0 si prende naturalmente ϕ(x) = (x0 − x).

(B-∞) Infiniti campione per x → x+ 0 (oppure per x → x0 ). L’infinito campione
1
ϕ(x) =
x − x0
è positivo. Per x → x−
0 si prende ϕ(x) = 1/(x0 − x).
(C-0) Infinitesimi campione per x → +∞ (oppure per x → −∞). L’infinite-
simo campione
1
ϕ(x) =
x
è positivo per x → +∞. Per x → −∞ si prende ϕ(x) = 1/|x|.
(C-∞) Infiniti campione per x → +∞ (oppure per x → −∞). L’infinito
campione
ϕ(x) = x
è positivo per x → +∞. Per x → −∞ si prende ϕ(x) = |x|.
Calcolo differenziale 205

D’ora in avanti, i campioni appena definiti verranno dati per scontati e quindi par-
leremo tranquillamente di ordine di infinitesimo o di infinito di una funzione, omettendo
di specificare rispetto a quale scelta di infinitesimo o infinito campione.

Esempi.

(49) Per x → 0 le seguenti funzioni:


sin x, tan x, arctan x, ex − 1, log(1 + x)
sono tutte infinitesime di ordine uno; la funzione
1 − cos x
è infinitesima di ordine due e le funzioni
sin x − x, tan x − x, arctan x − x
sono tutte infinitesime di ordine tre.
(50) Con riferimento alla formula (50) della Sezione 3, mostriamo che la funzione
f (x) = π/2−arctan x è infinitesima di ordine uno per x → +∞ (rispetto all’infinitesimo
campione standard per x → +∞, ossia 1/x). Infatti, utilizzando (50) e il cambio di
variabile y = 1/x abbiamo
π
2
− arctan x arctan(1/x) arctan y
lim = lim = lim+ = 1,
x→+∞ 1/x x→+∞ 1/x y→0 y
il che mostra che f (x) � 1/x e che quindi f ha ordine uno.
(51) Il limite notevole (3.98) della Sezione 3 esprime il fatto che per x → +∞ la
funzione logaritmo è infinita di ordine inferiore ad ogni potenza del suo argomento,
mentre la funzione esponenziale è infinita di ordine superiore ad ogni potenza del suo
argomento, come chiarito da (3.99) della stessa sezione. Interessantemente, la (3.100)
dice che per x → 0+
log x
xε log x = −ε → 0,
x
ossia che anche per x → 0+ il logaritmo è infinito di ordine inferiore ad ogni potenza
del suo argomento.

Il risultato seguente illustra uno dei principali metodi di calcolo degli ordini di
infinitesimo.
Proposizione 5.4. Se f : (a, b) → R è derivabile n volte in x0 ed inoltre
f (x0 ) = f � (x0 ) = · · · = f (n−1) (x0 ) = 0, f (n) (x0 ) �= 0,
allora f è infinitesima di ordine n in x0 .
Dimostrazione. La formula di Peano in questo caso si scrive
f (n) (x0 )
f (x) = (x − x0 )n + o ((x − x0 )n ) ,
n!
206 Analisi Matematica 1

cosicché
f (x) f (n) (x0 ) o ((x − x0 )n ) f (n) (x0 )
= + → �= 0.
(x − x0 )n n! (x − x0 )n n!
Pertanto f � (x − x0 )n , come volevasi. �

Esempi.
(52) Vogliamo determinare, al variare del parametro λ in R \ {0}, l’ordine di infinites-
imo per x → 0 della funzione f (x) = (1 + x)λ − cos(λx) − λx. Scriviamo innanzitutto
(1 + x)λ = eλ log(1+x) e utilizziamo gli sviluppi di McLaurin di cos x, ex e log(1 + x),
ottenendo:
1 1
f (x) = 1 + [λ log(1 + x)] + [λ log(1 + x)]2 + [λ log(1 + x)]3 + o(x3 )
� 2 � 6
1
− 1 − (λx)2 + o(x3 ) − λx
2
� � � �2
1 2 1 3 3 λ2 1 2 1 3 3
= 1 + λ x − x + x + o(x ) + x − x + x + o(x )
2 3 2 2 3
� � 3 � �
λ3 1 2 1 3 3 1 2 3
+ x − x + x + o(x ) − 1 − (λx) + o(x ) − λx
6 2 3 2
� � 2
� �
1 2 1 3 3 λ 2 1 2 3
= 1 + λ x − x + x + o(x ) + x − 2 x · x + o(x )
2 3 2 2
3 �
� �
λ � 1
+ x3 + o(x3 ) − 1 − (λx)2 + o(x3 ) − λx
6 2
1 λ
= λ(λ − )x2 + (λ2 − 3λ + 2)x3 + o(x3 ).
2 6
Se λ �= 1/2, f è infinitesima di ordine 2; se λ = 1/2, f è infinitesima di ordine 3.
207

FORMULE DI TRIGONOMETRIA

Relazioni tra funzioni goniometriche


(sin x)2 + (cos x)2 = 1

(tan x)2 1
(sin x)2 = (cos x)2 =
1 + (tan x)2 1 + (tan x)2

sin( π2 − x) = sin( π2 + x) = cos x cos( π2 − x) = − cos( π2 + x) = sin x

sin(π − x) = − sin(π + x) = sin x cos(π − x) = cos(π + x) = − cos x

Formule di addizione e sottrazione


sin(α + β) = sin α cos β + cos α sin β sin(α − β) = sin α cos β − cos α sin β

cos(α + β) = cos α cos β − sin α sin β cos(α − β) = cos α cos β + sin α sin β

tan α + tan β tan α − tan β


tan(α + β) = tan(α − β) =
1 − tan α tan β 1 + tan α tan β

Formule di duplicazione e bisezione


sin(2x) = 2 sin x cos x cos(2x) = (cos x)2 − (sin x)2

�x� � � x � � 1 + cos x
1 − cos x
sin = , x ∈ (0, 2π) cos = , x ∈ (−π, π)
2 2 2 2
� x � � 1 − cos x 1 − cos x sin x
tan = = = , x ∈ (0, π)
2 1 + cos x sin x 1 + cos x

x
Formule parametriche (t = tan( ))
2
2t 1 − t2 2t
sin x = cos x = tan x =
1 + t2 1 + t2 1 − t2

Formule di prostaferesi
α+β α−β α+β α−β
sin α + sin β = 2 sin( ) cos( ) sin α − sin β = 2 cos( ) sin( )
2 2 2 2
α+β α−β α+β α−β
cos α + cos β = 2 cos( ) cos( ) cos α − cos β = −2 sin( ) sin( )
2 2 2 2
sin(α ± β)
tan α ± tan β =
cos α cos β
208

LIMITI NOTEVOLI

sin x 1 − cos x 1
lim =1 lim 2
=
x→0 x x→0 x 2
ex − 1 log(1 + x)
lim =1 lim =1
x→0 x x→0 x
� �x
1 loga (1 + x) 1
lim 1 + =e lim = , a > 0, a �= 1
x→±∞ x x→0 x log a

ax − 1 (1 + x)α − 1
lim = log a, a>0 lim = α, α ∈ R.
x→0 x x→0 x

DERIVATE

d d 1
sin x = cos x arcsin x = √
dx dx 1 − x2
d d 1
cos x = − sin x arccos x = − √
dx dx 1 − x2
d 1 d 1
tan x = 1 + (tan x)2 = arctan x =
dx (cos x)2 dx 1 + x2

d α d � g(x) � �
x = αxα−1 f (x)g(x) = f (x)g(x) g � (x) log f (x) + f (x)
dx dx f (x)

d x d x
e = ex a = ax log a
dx dx
d 1 d 1
log x = loga x =
dx x dx x log a

d d
sinh x = cosh x cosh x = sinh x
dx dx
209

SVILUPPI DI TAYLOR

1 2 1 3 1 4 1
ex = 1 + x + x + x + x + · · · + xn + o (xn )
2! 3! 4! n!
1 2 1 3 1 4 1 n
log (1 + x) = x − x + x − x + · · · ± x + o (xn )
2 3 4 n
1 3 1 5 1 7 1 � �
sin x = x − x + x − x + · · · ± x2n−1 + o x2n
3! 5! 7! (2n − 1)!
1 1 1 1 2n � �
cos x = 1 − x2 + x4 − x6 + · · · ± x + o x2n+1
2! 4! 6! (2n)!
1 � �
tan x = x + x3 + o x4
3
1 � �
arctan x = x − x3 + o x4
3
√ 1 1 1 � �
1 + x = 1 + x − x2 + x3 + o x3
2 8 16
Bibliografia

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