Professional Documents
Culture Documents
1. Avvertenze previe
La fedeltà al messaggio rivelato da Dio richiede di ricorrere a quelle che
teologicamente sono chiamate le fonti della rivelazione. È in esse, infatti, che la fede
cristiana trova i dati basilari che costituiscono, per l'annuncio della Chiesa, come "la
sostanza viva, il contenuto essenziale, che non si può modificare ne passare sotto
silenzio" (EN 25).
In concreto, e pur sapendo che non sono le uniche fonti della fede (c'è anche la
Tradizione nelle sue diverse espressioni), noi faremo ricorso alle fonti bibliche. E ciò,
in primo luogo, per un'esigenza generale: la comunità ecclesiale ha mantenuto lungo
i secoli un profondo attaccamento a tali fonti, nella convinzione che esse
costituiscano il fondamento della sua esistenza e la norma ultima della sua fede (DV
11B). Ma, in secondo luogo, anche per un'esigenza particolare del momento storico
attuale.
Come è già stato ripetutamente fatto rilevare, l'umanità, e quindi anche la comunità
ecclesiale che in essa esiste e agisce (GS 1.40b), sta sperimentando oggi dei
cambiamenti culturali molto profondi, perché si stanno producendo dei mutamenti
epocali che coinvolgono le basi stesse della cultura. In situazioni come queste, la
precedente interpretazione o ricomprensione della fede diventa di solito più un
ostacolo che un veicolo per la trasmissione del messaggio. Il ricorso alle fonti
originarie - quelle bibliche - risulta in questo caso più conducente allo scopo che si
persegue. Proprio per questo la Bibbia resta come punto fermo e irremovibile nel
cuore della Chiesa. Naturalmente, ciò non significa ignorare o, tanto meno,
disprezzare quanto la comunità ecclesiale ha vissuto precedentemente, nel tempo
trascorso tra la formazione della Bibbia e oggi. È semplicemente un dare risposta
alle esigenze concrete delle circostanze storiche.
Prima perciò di iniziare la nostra raccolta dei dati biblici sul Dio della fede da
annunciare agli uomini d'oggi, dobbiamo dichiarare le nostre opzioni, anticipate
d'altronde e giustificate già nell'unità precedente: la nostra inchiesta verrà condotta
a partire da una sensibilità che, da una parte, superi le istanze speculative proprie
di altri tempi e, dall'altra, sia di per sé sufficientemente aperta tanto alle istanze
1
Cf Y.CONGAR, La tradìtion et les traditions. Essai historìque et essai théologiquefsyolà, Paris 1960-63, 2 voll.
1
esistenziali-personalistiche quanto a quelle prassico storiche, e a quelle della
condizione postmoderna.
Se le cose stanno in questo modo, si può allora capire cosa ciò implichi per la nostra
indagine. Lo si può esprimere mediante la seguente domanda: per i cristiani, a chi
spetta la parola ultima e definitiva su Dio? L'espressione "il Dio di Gesù Cristo"
racchiude in sé la risposta: se Gesù di Nazaret, il Cristo, è la Parola piena e
definitiva di Dio, lo è anche e anzitutto su Dio stesso.
Secondo quest'asserzione, non è quindi fondamentalmente dall'esperienza della
natura che i cristiani attingono i lineamenti essenziali del volto del Mistero Ultimo
della realtà che chiamiamo Dio, come succede nelle religioni cosmico-naturali e, in
parte almeno, nella religiosità cristiana popolare; non è nemmeno dalla riflessione
filosofica sul mondo, come avvenne al loro tempo presso i grandi pensatori
dell'antichità greco-romana e, qualche secolo fa, presso i filosofi deisti. Li attingono,
invece, da ciò che disse e fece l'uomo Gesù di Nazaret nella sua vita, e da ciò che
avvenne nella sua morte e soprattutto nella sua risurrezione.
2
Cf F. SCHERSE, Rivelazione neotestamentaria della Trinità, in J. FEENER - M. LÒHRER (a cura), Mysterium salutis.
Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza, Queriniana, Brescia 1972, HJ 133-134; Ch DUQUOC,
Un Dio diverso 47-48.
3
Cf SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia 11.43.
2
Il che non vuol dire che si debba considerare come totalmente falso o privo di
valore quanto viene affermato su Dio in base alle altre fonti appena accennate 4.
Sappiamo, infatti, quanto il Vaticano II, seguendo le tracce di S. Paolo (Rom 1,20) e
le affermazioni del Vaticano I (DS 3004), abbia fatto per valorizzare i "semi del Verbo"
presenti nel mondo (AG 11b). Le altre vie hanno quindi un certa consistenza da
questo punto di vista, ma per la fede non hanno valore ultimo e definitivo.
La coerenza porta, dunque, la fede cristiana a sostenere l'originalità e la
definitività dell'immagine di Dio vissuta e proposta da Gesù Cristo.
Bisogna tuttavia riconoscere che la tentazione di sostituire tale immagine con
altre, o di giustapporre ad essa in maniera sincretistica delle immagini provenienti
da altre fonti non è stata, per i cristiani, una tentazione solo del passato, ma
continua ad esserlo sempre, anche nel momento attuale. Risulta illuminante, al
riguardo, il caso veramente emblematico avvenuto nel secolo IV: Ario, il prete che
scatenò la discussione che portò alla convocazione del Concilio di Nicea,
rappresentava una certa corrente di cristiani che, abbagliati dalla sapienza dei
filosofi (specialmente neoplatonici) dell'epoca, decise, più o meno consciamente, di
accettare che non fosse Gesù di Nazaret ad avere la parola definitiva sul volto di Dio,
ma i filosofi. Fu questo il vero problema che affrontò Nicea nel 325.
Detto Concilio volle, in fondo, attraverso l'affermazione del Figlio… con Dio, dare
soluzione a siffatta questione. Che poi, per influsso dei condizionamenti culturali
dell'epoca, i Padri conciliari si siano lasciati prendere da altri problemi e abbiano
spostato il centro del dibattito al rapporto tra Dio e il “logos” eterno nell'ambito
intratrinitario, ciò non toglie nulla alla fermezza con cui mantennero la tradizionale
affermazione della fede sul ruolo esclusivo di Gesù nella rivelazione definitiva di Dio.
In altre parole, questo Concilio non fece che ribadire, attraverso il complicato
armamentario ellenistico, ciò che la comunità ecclesiale aveva confessato sin
dall'inizio, e cioè che Gesù di Nazaret è la Parola piena e definitiva di Dio su Dio
stesso5.
La conseguenza che deriva da tutto ciò è logica: se il Dio di Gesù Cristo è il Dio
della fede cristiana. Egli è anche il Dio del suo annuncio, a qualunque livello esso
venga fatto, anche a quello catechistico.
La nostra indagine biblica si muoverà, quindi, all'insegna di quest'obiettivo:
trovare i tratti fondamentali del volto di Dio vissuto e annunciato da Gesù Cristo,
tratti che assicureranno la fedeltà dell'annuncio agli uomini e donne d'oggi.
4
Infatti, il Concilio Vaticano I dichiarò che si può arrivare una vera conoscenza dell'esistenza e dei principali attributi di Dio
attraverso la ragione naturale (DS 3004). Resta però il fatto che Gesù fa da "griglia" nei suoi confronti.
5
Cf DUQUOC, Un Dio diverso 30-44.
3
Indubbiamente, una certa cristologia impostata in maniera prevalentemente
discendente a partire dall'affermazione di Gv 1,14, e sviluppata con l'aiuto di
categorie ellenistiche di pensiero e con un metodo deduttivo, contribuì ad
accentuare eccessivamente e in un determinato modo l'essere "dalla parte di Dio" di
Gesù. Essa finì per lasciare così un po' nell'ombra il suo essere "dalla parte degli
uomini". Era già questa, come si sa, la tendenza prevalente nella corrente teologica
alessandrina nell'antichità cristiana, in contrapposizione a quella antiochena.
Oggi non pochi preferiscono fare una cristologia cosiddetta "dal basso" - la
denominazione è discutibile -, che prenda più sul serio l'essere-uomo di Gesù 6. In
essa viene fortemente evidenziato il fatto che egli è veramente uomo (affermazione
d'altronde già ribadita nella formula calcedonense: DS 301), e quindi uno che porta
in sé tutte le ricchezze, ma anche le inevitabili limitazioni del suo popolo e del suo
tempo.
E su questo humus umano concreto che germoglia e cresce l'immagine di Dio da
lui vissuta ed annunciata. Senza questo retroterra tale immagine resterebbe
incomprensibile.
Troviamo in ciò il fondamento del ricorso agli scritti dell'Antico Testamento per la
nostra ricerca riguardante i tratti del volto del Dio di Gesù Cristo.
6
Cf W. PANNENBERG. Cristologia. Lineamenti fondamentali, Morcelliana, Broscia 1974, XX-XXX.
7
Tale concezione della rivelazione è correlativa a quella della fede pensata come adesione dell'intelligenza - naturalmente
sotto l'influsso della grazia - a delle verità che superano la capacità della stessa intelligenza umana (cf Vaticano I, ibid. cap.
3, DS 3008-3014).
4
• Anzitutto, bisogna ricordare ancora una volta che, benché tale immagine provenga
dall'alto e sia frutto di una rivelazione, essa è germogliata e si è sviluppata
nell'esperienza concreta di un gruppo umano e mediante essa (DV14)8.
• Inoltre, occorre notare che tale immagine non è scaturita dalla semplice esperienza
della natura, ma proprio da una esperienza storica. Fu infatti in un avvenimento che
cambiò il suo destino storico che il gruppo dei discendenti di Abramo schiavo in
Egitto incontrò il suo Dio-JHWH, e m ancora in successivi avvenimenti storici, quali
la conquista della terra di Canaan, la monarchia, l'esilio, il ritorno alla propria terra
che continuò ad approfondire tale sua scoperta.
All'interno di tali avvenimenti alcuni uomini, e con il loro aiuto poi l'intero gruppo,
vissero inizialmente ciò che può considerarsi come un fenomeno di disclosure, il
quale permise loro di cogliere nell'avvenimento umano-storico dell'esodo la presenza
e l'azione del loro Dio facendo in tale modo una autentica esperienza di fede.
Secondo le testimonianze della Bibbia, questo gruppo, costituitosi più tardi in
popolo, mantenne la sua fedeltà a tale immagine di Dio in mezzo a non pochi
ostacoli e difficoltà. L'avvento di nuove situazioni quali la sedentarizzazione, la
monarchia, la perdita dell'indipendenza nazionale, costituirono autentici momenti di
crisi e perfino di tentazione per la sua fede9.
Ma, d'altra parte, tali situazioni furono altrettante occasioni di rilettura della loro
fede in lui. In questo contesto l'opera dei profeti, e specialmente di alcuni di essi,
come ad esempio Elia (cf I Re 18,16-40), svolse un ruolo veramente determinante.
In vista di queste difficoltà, noi optiamo per seguire una via più semplice che, pur nella
sua concisione, crediamo possa raggiungere adeguatamente l'obiettivo cercato:
focalizzeremo l'immagine del Dio d'Israele nel momento germinale della sua rivelazione
al popolo. In fondo è questa, nei suoi tratti sostanziali, l'immagine che il popolo si
porterà appresso lungo tutta la sua storia.
8
Se per qualche tempo la Chiesa ha avuto un atteggiamento cauto nei confronti di questa concezione
della rivelazione, ciò si dovette al rischio di modernismo che essa può comportare. I modernisti, infatti, riducevano la
rivelazione e la fede a un fenomeno di pura esperienza umana. D fatto che la concezione di una rivelazione in e mediante
l'esperienza storica del popolo d'Israele sia insinuata nel citato n. l4 della DV, lascia intravedere che ormai si considera
superato quel rischio. La polemica antimodernista è passata, e oggi si possono accettare le istanze valide di tale corrente pur
continuando a rifiutare l'intera impostazione.
9
Si veda a questo proposito la narrazione emblematica di Es 32,1-5 sul vitello d'oro, simbolo della tendenza sincretistica
d'Israele.
5
Partiamo da queste constatazione: per chi legge con sufficiente attenzione l'Antico
Testamento appare chiaro che l'avvenimento dell'esodo dall'Egitto occupa un posto
centrale nella coscienza del popolo d'Israele10. Infatti, esso viene ivi non soltanto
descritto, ricordato e celebrato costantemente, ma anche proiettato sia sul passato,
come si può vedere per esempio nella narrazione della creazione in Gen 1-2 e della
vocazione di Abramo in Gen 12, sia sull'avvenire, come si può cogliere, per esempio,
in Is 41,17-20; 43,16-21. ecc.
L'esodo costituì come una specie di modello di pensiero nel popolo. L'Israele
credente dimostra infatti di avere un modo esodale di ragionare.
10
"M. Noth, isolando il ritornello teologico costante Jhwh ci ha fatto uscire dall'Egitto, l'ha definito 'la
confessione di fede originaria di Israele". Lo stesso 'credo' storico [...] non fa che ribadire questo primato dell'esodo nella
struttura della Heilgeschichte - storico-salvifica - della fede biblica [...]. L'evento decisivo della liberazione dalla schiavitù
faraonica è come la radice sempre viva da cui nasce l'albero ramificato della storia della salvezza" (G. RAVASI, Esodo, in P.
ROSSANO - G. RAVASI - A. GERLANDA [a cura]. Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Paoline, Cisinello Balsamo
1988, 506-507).
11
Cf G. AUZOU, Dalla servitù al servizio. Il libro dell'Esodo, Dehoniane, Bologna 1975; J. PLASTARAS, Il Dio
dell'Esodo. La teologia dei racconti dell'Esodo, Marietti, Torino 1977.
6
una terra "che stilla latte e miele"; e viene aperta ad essi la possibilità di costituire
un popolo libero, acquistando così una possibilità di futuro per sé e per i loro
posteri.
"Questo avvenimento di salvezza acquista ulteriore stabilità e forza mediante
l'alleanza stipulata, sul modello di quelle che si usava fare allora, tra il Dio-JHWH e
il suo popolo (Es 19-24). Tale alleanza svela la disposizione permanente di questo
Dio verso il suo popolo e, in esso, verso tutta l'umanità (cf Gen 12,4;3,15; 9,12-17).
È anche il fondamento dei suoi ulteriori interventi salvifici che riprodurranno, con
sfumature proprie, lo schema-esodo del primo intervento; ed è pure il fondamento
della speranza dello stesso popolo in un intervento futuro decisivo, in cui lo schema-
esodo avrà la sua realizzazione piena e definitiva12.
Da questa breve analisi emerge già con sufficiente chiarezza l'immagine del Dio
dell'Antico Testamento. La si ritrova espressa in forma condensata
nell'autopresentazione che, nella narrazione del libro dell’Esodo, fa JHWH di Se
stesso prima di enunciare il codice dell'alleanza: "Io sono JHWH, tuo Dio, che ti ho
fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù" (Es 20,2). È espressa
anche nello stesso nome "JHWH", mediante il quale Israele intende dire non tanto la
natura di Dio in sé, quanto piuttosto ciò che questo Dio vuole essere per lui.
Si potrebbe descrivere così quest'immagine in poche parole: JHWH è un Dio che si
rivela storicamente come tenacemente impegnato, con tutta la sua potenza, nello
strappare il popolo d'Israele dalla situazione di perdizione in cui si trova, per aiutarlo
a passare a una nuova situazione di maggior pienezza, in vista del raggiungimento
di una pienezza definitiva (shalom).
7
negli scritti veterotestamentari, come il creatore-salvatore, unico soggetto divino
dell'intera realtà e dell'intera vicenda umana.
• Benché Israele abbia considerato in un primo momento questo Dio JHWH come
un Dio esclusivamente suo, analogamente a come facevano gli altri popoli nei
confronti dei loro dèi, a poco a poco andò imparando a pensarlo sempre più come il
Dio di tutte le genti, impegnato nel realizzare con tutti i popoli ciò che aveva
cominciato a fare emblematicamente con lui. Così questo Dio andò a poco a poco
acquistando tratti sempre più decisi di universalismo.
" Come si coglie da più di un testo veterotestamentario, Israele restò segnato, anche
nella sua fede, dal carattere conflittuale della sua esperienza iniziale. Il Dio
sperimentato nell'esodo fu un Dio-che-prende-partito, un Dio-che-lotta, appunto
perché si rese alleato di un gruppo umano in situazione di conflitto e non in
situazione pacifica. Questo suo farsi alleato del gruppo debole, oppresso e sfruttato
per la sua salvezza, comportò di rimbalzo un suo dissociarsi dall'altro gruppo in
quanto responsabile di tale situazione.
• Infine, chi legge l'Antico Testamento (e la stessa narrazione dell'esodo) percepisce
facilmente che, insieme a quest'immagine di Dio così delineata nei suoi tratti
essenziali, appaiono più di una volta dei tratti delle immagini cosmiche delle divinità
dei popoli vicini (soprattutto dei cananei). Di essi Israele se ne andrà purificando
lentamente lungo la sua storia, ma la vera e piena purificazione avverrà solo con
Gesù Cristo.
4. Approccio sistematico
Volendo ora organizzare sistematicamente i principali tratti dell'immagine del Dio
dell'Antico Testamento, raccogliamo i dati da esso fomiti attorno a tre filoni che
percorrono tutti i suoi scritti: il monoteismo, la trascendenza e l'immanenza15.
15
Seguiremo il lavoro A. DEISSLER più volte citato (qui, nelle pp. 285-289). Altri autori preferiscono invece una
sistematizzazione attorno ai titoli più salienti dati a Dio dagli scritti veterotestamentari. Così, per esempio, R.
FESTORAZZI, Rivelazione biblica di Dio, in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA [a cura], I teologi del Dio vivo.
La tradizione di Dio oggi, Milano, Ancora 1968, 63-125.
8
(adorazione di un unico dio nel popolo) non è ancora monoteismo, ma una tappa
verso di esso nell'evoluzione della storia delle religioni.
16
Enoteismo. Termine introdotto dallo storico delle religioni Friederich Max Müller (1823-1900) per indicare una forma
particolare di politeismo, rintracciabile nei Veda, per la quale ogni divinità è "agli occhi del supplicante allo stesso tempo
una divinità vera, suprema e assoluta". A una singola divinità, pertanto, viene tributato un culto che, indirizzandosi a "un
unico Dio alla volta", esclude l'adorazione di altre divinità. L'enoteismo sarebbe quindi connesso a un'idea dell'unicità (di
Dio) che non esclude l'idea di pluralità (degli dei), laddove il monoteismo la esclude radicalmente. Müller propose
l'enoteismo come una fase della religione precedente a politeismo e monoteismo.
9
chiamato "il Dio di Abramo", o "il Forte di Giacobbe", e più tardi "il Dio di Abramo,
d'Isacco e di Giacobbe" o, semplicemente, "il Dio dei nostri Padri".
Dall'esame di questa prima tappa si potrebbe dire, dunque, brevemente, che è molto
difficile stabilire se il monoteismo in senso stretto sia stato una delle componenti
dell'immagine di Dio all'epoca dei Patriarchi. Tutt'al più si può dire che essi
vivevano una specie di monoteismo "esistenziale", nel senso che si sentivano
strettamente e vitalmente legati al "loro" Dio, ma non un vero e proprio monoteismo
tematizzato. Si tratterebbe quindi piuttosto di una forma di enoteismo.
esso passa a poco a poco, nella e attraverso la sua esperienza storica, da un iniziale
monoteismo "esistenziale" (enoteismo) a un monoteismo "teoretico", "riflesso", che viene
10
a costituire, negli ultimi secoli che precedono la venuta di Cristo, un suo vanto nei
confronti degli altri popoli.
Una certa risposta, che in qualche modo rivela un presentimento trinitario già
nell'Antico Testamento, lo si può trovare:
1) nel fatto che la vita di questo Dio sia pensata come in se stessa personalmente
sovrabbondante,
2) e soprattutto nella tendenza a ipostatizzare (= concepire come persone) alcune
mediazioni divine.
Infatti, troviamo negli scritti veterotestamentari frequenti riferimenti ad alcune
figure caratteristiche quali l'Angelo, la Parola, la Sapienza, e lo Spirito di JHWH,
figure che nei testi appaiono soggette ad un processo crescente di "ipostastizzazione"
(personificazione), arrivando in certi momenti ad apparire come delle autentiche
"persone" esistenti con e nell'unico Dio. Queste figure non sono soltanto dei "nomi,
[delle] descrizioni o [dei] modi di agire di JHWH 'stesso', bensì determinate forme di
mediazione delle quali [...] JHWH si serve per essere presente efficacemente in mezzo
al popolo, oppure per intervenire in sua difesa"20.
Sono come una specie di "sdoppiamento" di JHWH, e servono ad approfondire la
conoscenza della trascendenza di Dio e contemporaneamente della sua immanenza.
Esprimono bene in questo modo ciò che è stata l'esperienza del popolo d'Israele, il
quale lungo la sua storia senti JHWH come un Dio allo stesso tempo lontano e
vicinissimo, separato dal mondo e profondamente immerso in esso.
D'altronde, queste mediazioni permettono di capire che il popolo
veterotestamentario andava maturando una sua concezione circa l'intersoggettività
intradivina, ossia sul fatto che questo Dio solo non era un Dio solitario. Soprattutto
nella crescente accentuazione della ipostatizzazione di tali mediazioni. Così si andava
preparando la rivelazione della trinità in Dio. Le prendiamo ora in considerazione
molto succintamente, rilevando la loro funzione e il processo di ipostatizzano a cui
sono state soggette.
11
L'angelologia biblica è molto complessa e ha una sua lunga storia. Tuttavia, si deve
constatare che tra i molti angeli che appaiono negli scritti veterotestamentari, quello
che viene chiamato "l'Angelo di JHWH", ha una fisionomia inconfondibile. Egli
interviene sempre da solo, e svolge diverse funzioni:
• spesso esercita una funzione di salvezza ben determinata, per esempio, nei confronti
dell'intero popolo durante il pellegrinaggio del deserto che lo portò dalla terra della
schiavitù fino alla terra della promessa (Es 14,19; 23,20.23; 32,34; Nm 20,16), ma
anche nei confronti di alcuni Profeti o di altri timorati di Dio (Gen 24,7,40; 1 Rè
19,5-7.; ecc.);
• appare anche a volte come angelo di sciagura e castigo (2 Sam 24,16-17; 2 Rè
19,35) o come giudice (2 Sam 14.7.20; 19,28; Zac 3,1-2.).
Particolarmente interessanti sono quei racconti dove l'Angelo di JHWH non si
distingue chiaramente da JHWH stesso e si identifica con Lui (Gen 16,7.13; 31.11.13;
48,15-17.; Gdc 6,11 24; ecc.). In essi l'ipostatizzazione o personalizzazione
dell'Angelo è molto accentuata.
Dice Eichrodt su questa figura: l'Angelo di JHWH costituisce "un ponte tra il Dio
incomprensibile per l'uomo e il Dio che si manifesta effettivamente ed
essenzialmente nel mondo fenomenico"17.
Nella Bibbia la Parola di Dio è di tre tipi, non indipendenti tra di loro:
• c'è una Parola di comandamento, che è rivelazione della volontà eterna di Dio per il
suo popolo e in ordine alla sua salvezza. La si trova specialmente in Es, dove i dieci
comandamenti sono le "dieci Parole" per eccellenza, e in Dt, che di quelle Parole è
come l'esplicitazione e l'approfondimento;
• c'è poi la Parola profetica, intimamente vincolata agli avvenimenti della storia, che
diventa una potenza effettivamente decisiva, come si vede negli scritti profetici;
• e c'è infine la Parola creatrice, che si trova soprattutto e quasi esclusivamente negli
scritti più recenti dell'Antico Testamento (Sal 33,6; 147,4; 148,8; Sap 9,1; Sir 39,17;
42,15; ecc.). È una Parola che fonda tutto, che chiama all'esistenza ciò che non
esiste. Afferma con ragione uno studioso:
17
Cf R. SCHULTE, La preparazione della rivelazione trinitaria, in FEINER – LOHRER, Mysterium salutis, III 82.
12
"Nell'Antico Testamento, quasi tutta l'opera di Dio nella fondazione e nella
conservazione del mondo e nell'adozione del popolo come libera scelta e per amore e
nella guida di esso, anzi, dell'intera umanità, viene ricondotta alla 'Parola di Dio' [...].
Così il concetto di 'Parola di Dio" mette in luce tanto la trascendenza quanto
l'immanenza di Dio: egli è fino a tale punto il totalmente diverso, da creare e dirigere
tutto 'mediante' la sua parola pronunciata senza fatica e liberamente; nello stesso
tempo però egli è presente qui precisamente attraverso questa sua parola onnipotente.
Ciò spiega anche la 'personificazione' della parola condotta sempre più decisamente"22.
13
• in tempi più recenti si parla del Messia come del portatore dello Spirito (Is 61), e
dei tempi messianici come di tempi di effusione universale dello Spirito (Ez, Ger,
e specialmente Gl).
Appare anche la tendenza alla ipostatizzazione dello Spirito, benché meno marcata di
quella della Sapienza (2Sam 23,2; Ag2,5; Is 63,10-11; Sai 52,13; Sap 1,5-6; ecc,).
14
questa le potenze degli spazi celesti vengono detronizzate e sottoposte a JHWH.
Fondamento ultimo di questa trascendenza spaziale e il potere creatore del Dio
JHWH, potere che Israele esprime tra l'altro con il titolo, così frequentemente
presente nella Bibbia, di "JHWH degli eserciti" (JHWH shebaoth).
In Israele, invece, l'origine del mondo è vista come cornice dell’alleanza tra Dio e
il suo popolo, come primo atto della storia della salvezza. Inoltre, essa viene espressa
in termini di creazione da parte di Dio, una creazione che implica la sua
trascendenza, manifestata soprattutto nel fatto di creare il mondo mediante la sola
sua parola. Ciò è probabilmente il risultato di un'evoluzione nella coscienza del
popolo della Bibbia:
18
Cf J. MOLTMANN, Trinità e regno di Dio. La dottrina su Dio, Brescia, Queriniana 1983, 30-71.
15
• il primo passo di tale evoluzione lo costituirebbe l'esperienza dell'efficacia della
parola profetica nei confronti della storia;
• il secondo, la proiezione di questa esperienza storica sulla creazione;
• il terzo, l'affermazione che JHWH Dio è signore della storia perché è creatore del-
l'universo (tema tipico del Deuteroisaia).
Natura e storia appaiono quindi, nella Bibbia, come Parola di Dio incarnata,
fatta realtà. E in ciò si vede allo stesso tempo e la sua trascendenza e la sua
immanenza al mondo.
16
4.3. L'immanenza di JHWH
Negli scritti veterotestamentari non si parla di un'immanenza generica, ma
dell'immanenza tipica del Dio JHWH, trascendente e santo, di cui si è detto nel
punto precedente. Un'immanenza che, nella concezione del popolo d'Israele, non è di
tipo ontico-metafisico, ma di tipo economico, ossia storico-salvifico. Secondo l'Antico
Testamento il Dio tre volte santo, e quindi trascendente e libero, entra liberamente e
per propria iniziativa nel mondo dell'uomo, da Lui creato. Ed entra storicamente e
con un preciso scopo, quello della salvezza dell'uomo stesso.
Tale immanenza divina e salvifica al mondo costituisce certamente il centro di
tutto il messaggio della Bibbia, la sua buona novella nel senso più vero del termine,
e quindi anche il tratto fondamentale del Dio dell'Antico Testamento. Questo suo
immanentizzarsi salvificamente nella storia trova nella Scrittura dell'Antico
Testamento la sua espressione più rilevante nell'esodo e nella alleanza, che abbiamo
sopra esposto nei suoi diversi risvolti.
17