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DIO NELLE SACRE SCRITTURE: L’ANTICO TESTAMENTO

1. Avvertenze previe
La fedeltà al messaggio rivelato da Dio richiede di ricorrere a quelle che
teologicamente sono chiamate le fonti della rivelazione. È in esse, infatti, che la fede
cristiana trova i dati basilari che costituiscono, per l'annuncio della Chiesa, come "la
sostanza viva, il contenuto essenziale, che non si può modificare ne passare sotto
silenzio" (EN 25).
In concreto, e pur sapendo che non sono le uniche fonti della fede (c'è anche la
Tradizione nelle sue diverse espressioni), noi faremo ricorso alle fonti bibliche. E ciò,
in primo luogo, per un'esigenza generale: la comunità ecclesiale ha mantenuto lungo
i secoli un profondo attaccamento a tali fonti, nella convinzione che esse
costituiscano il fondamento della sua esistenza e la norma ultima della sua fede (DV
11B). Ma, in secondo luogo, anche per un'esigenza particolare del momento storico
attuale.

Come è già stato ripetutamente fatto rilevare, l'umanità, e quindi anche la comunità
ecclesiale che in essa esiste e agisce (GS 1.40b), sta sperimentando oggi dei
cambiamenti culturali molto profondi, perché si stanno producendo dei mutamenti
epocali che coinvolgono le basi stesse della cultura. In situazioni come queste, la
precedente interpretazione o ricomprensione della fede diventa di solito più un
ostacolo che un veicolo per la trasmissione del messaggio. Il ricorso alle fonti
originarie - quelle bibliche - risulta in questo caso più conducente allo scopo che si
persegue. Proprio per questo la Bibbia resta come punto fermo e irremovibile nel
cuore della Chiesa. Naturalmente, ciò non significa ignorare o, tanto meno,
disprezzare quanto la comunità ecclesiale ha vissuto precedentemente, nel tempo
trascorso tra la formazione della Bibbia e oggi. È semplicemente un dare risposta
alle esigenze concrete delle circostanze storiche.

Un lavoro di ricerca analogo a quello che affronteremo si potrebbe fare,


certamente, prendendo in considerazione le altre fonti della rivelazione, quelle che
nel loro insieme vengono dette la Tradizione (con la maiuscola1) della Chiesa. I motivi
esposti ci decidono però a realizzarla in quelle bibliche.

Ancora un'osservazione di rilievo prima di inoltrarci nella ricerca. Come abbiamo


precedentemente accennato, ormai è in genere pacificamente ammesso che la lettura
del testo biblico non è mai asettica. Essa viene sempre fatta a partire da una
determinata sensibilità, sotto il segno di determinate attese e domande, conscie o
inconsce, che la propria sensibilità crea in chi la realizza.

Prima perciò di iniziare la nostra raccolta dei dati biblici sul Dio della fede da
annunciare agli uomini d'oggi, dobbiamo dichiarare le nostre opzioni, anticipate
d'altronde e giustificate già nell'unità precedente: la nostra inchiesta verrà condotta
a partire da una sensibilità che, da una parte, superi le istanze speculative proprie
di altri tempi e, dall'altra, sia di per sé sufficientemente aperta tanto alle istanze

1
Cf Y.CONGAR, La tradìtion et les traditions. Essai historìque et essai théologiquefsyolà, Paris 1960-63, 2 voll.

1
esistenziali-personalistiche quanto a quelle prassico storiche, e a quelle della
condizione postmoderna.

Ulteriori precisazioni verranno fatte in seguito, nell'utilizzazione dei dati ricavati


dalla ricerca per l'elaborazione del saggio di rilettura che presenteremo nella quinta
unità.

2. Perché l'immagine del Dio di Gesù Cristo?


Sin dai primi momenti della loro fede pasquale i cristiani hanno confessato Gesù
di Nazaret come Cristo, Signore e Figlio di Dio (At 2,36; 9,19b, ecc.). Tali titoli,
attribuiti a Gesù dopo la Pasqua e a conseguenza di essa, sono nati dal bisogno di
esprimere l'esperienza di salvezza che essi andavano facendo nella fede 2. Mediante
quei titoli volevano infatti far palese la convinzione di ciò che in lui avevano trovato,
e cioè la salvezza piena e definitiva da parte di Dio 3. È quanto, sinteticamente, dice il
discorso di Pietro dopo la guarigione dello storpio nel Tempio presso la Porta Bella
del tempio: "In nessun altro c'è salvezza; non vi è altro nome dato agli uomini sotto il
cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati" (At 4,12). Gesù di Nazaret è,
per chi crede in lui, il Salvatore assoluto, colui nel quale e attraverso il quale si fa
presente nel mondo la salvezza di Dio.
Questa assolutezza attribuita dalla fede a Gesù Cristo nel suo ruolo di salvatore,
include anche l'assolutezza del suo ruolo di rivelatore da parte di Dio. Perciò gli
vengono attribuiti anche altri titoli negli scritti neotestamentari: quello di luce del
mondo (Gv 1,4.5.10; 3,19; 8,12; ecc.), di sapienza di Dio e, come sintesi e
condensazione di tutti, quello di Parola di Dio. Ciò sta ad indicare che per i credenti
in lui. Gesù, già in ciò che ha fatto e detto durante la sua vita terrena, ma
soprattutto in ciò che in lui avvenne nella Pasqua, è la Parola di Dio per eccellenza.
Il che equivale a dire che tutto ciò che Dio aveva detto su Se stesso e sul suo disegno
di salvezza lungo la storia, trova in lui compimento e pienezza (Eb 1,1).

Se le cose stanno in questo modo, si può allora capire cosa ciò implichi per la nostra
indagine. Lo si può esprimere mediante la seguente domanda: per i cristiani, a chi
spetta la parola ultima e definitiva su Dio? L'espressione "il Dio di Gesù Cristo"
racchiude in sé la risposta: se Gesù di Nazaret, il Cristo, è la Parola piena e
definitiva di Dio, lo è anche e anzitutto su Dio stesso.
Secondo quest'asserzione, non è quindi fondamentalmente dall'esperienza della
natura che i cristiani attingono i lineamenti essenziali del volto del Mistero Ultimo
della realtà che chiamiamo Dio, come succede nelle religioni cosmico-naturali e, in
parte almeno, nella religiosità cristiana popolare; non è nemmeno dalla riflessione
filosofica sul mondo, come avvenne al loro tempo presso i grandi pensatori
dell'antichità greco-romana e, qualche secolo fa, presso i filosofi deisti. Li attingono,
invece, da ciò che disse e fece l'uomo Gesù di Nazaret nella sua vita, e da ciò che
avvenne nella sua morte e soprattutto nella sua risurrezione.
2
Cf F. SCHERSE, Rivelazione neotestamentaria della Trinità, in J. FEENER - M. LÒHRER (a cura), Mysterium salutis.
Nuovo corso di dogmatica come teologia della storia della salvezza, Queriniana, Brescia 1972, HJ 133-134; Ch DUQUOC,
Un Dio diverso 47-48.
3
Cf SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia 11.43.

2
Il che non vuol dire che si debba considerare come totalmente falso o privo di
valore quanto viene affermato su Dio in base alle altre fonti appena accennate 4.
Sappiamo, infatti, quanto il Vaticano II, seguendo le tracce di S. Paolo (Rom 1,20) e
le affermazioni del Vaticano I (DS 3004), abbia fatto per valorizzare i "semi del Verbo"
presenti nel mondo (AG 11b). Le altre vie hanno quindi un certa consistenza da
questo punto di vista, ma per la fede non hanno valore ultimo e definitivo.
La coerenza porta, dunque, la fede cristiana a sostenere l'originalità e la
definitività dell'immagine di Dio vissuta e proposta da Gesù Cristo.
Bisogna tuttavia riconoscere che la tentazione di sostituire tale immagine con
altre, o di giustapporre ad essa in maniera sincretistica delle immagini provenienti
da altre fonti non è stata, per i cristiani, una tentazione solo del passato, ma
continua ad esserlo sempre, anche nel momento attuale. Risulta illuminante, al
riguardo, il caso veramente emblematico avvenuto nel secolo IV: Ario, il prete che
scatenò la discussione che portò alla convocazione del Concilio di Nicea,
rappresentava una certa corrente di cristiani che, abbagliati dalla sapienza dei
filosofi (specialmente neoplatonici) dell'epoca, decise, più o meno consciamente, di
accettare che non fosse Gesù di Nazaret ad avere la parola definitiva sul volto di Dio,
ma i filosofi. Fu questo il vero problema che affrontò Nicea nel 325.
Detto Concilio volle, in fondo, attraverso l'affermazione del Figlio… con Dio, dare
soluzione a siffatta questione. Che poi, per influsso dei condizionamenti culturali
dell'epoca, i Padri conciliari si siano lasciati prendere da altri problemi e abbiano
spostato il centro del dibattito al rapporto tra Dio e il “logos” eterno nell'ambito
intratrinitario, ciò non toglie nulla alla fermezza con cui mantennero la tradizionale
affermazione della fede sul ruolo esclusivo di Gesù nella rivelazione definitiva di Dio.
In altre parole, questo Concilio non fece che ribadire, attraverso il complicato
armamentario ellenistico, ciò che la comunità ecclesiale aveva confessato sin
dall'inizio, e cioè che Gesù di Nazaret è la Parola piena e definitiva di Dio su Dio
stesso5.
La conseguenza che deriva da tutto ciò è logica: se il Dio di Gesù Cristo è il Dio
della fede cristiana. Egli è anche il Dio del suo annuncio, a qualunque livello esso
venga fatto, anche a quello catechistico.
La nostra indagine biblica si muoverà, quindi, all'insegna di quest'obiettivo:
trovare i tratti fondamentali del volto di Dio vissuto e annunciato da Gesù Cristo,
tratti che assicureranno la fedeltà dell'annuncio agli uomini e donne d'oggi.

3. Dio negli scritti dell'Antico Testamento


Gesù di Nazaret non è apparso nel mondo come un fungo dopo la pioggia o come
un meteorite caduto dal cielo. Gli scrittori del Nuovo Testamento evidenziarono la
sua appartenenza all'umanità e in particolare al popolo d'Israele, tra l'altro mediante
l'inserzione delle genealogie all'inizio della narrazione evangelica (Mt 1,1-17; Lc 3,23-
38). Paolo, da parte sua, afferma chiaramente la discendenza davidica di Gesù
"secondo la carne" (Rom 1,3), e la sua nascita "da donna" (Gal 4,4).

4
Infatti, il Concilio Vaticano I dichiarò che si può arrivare una vera conoscenza dell'esistenza e dei principali attributi di Dio
attraverso la ragione naturale (DS 3004). Resta però il fatto che Gesù fa da "griglia" nei suoi confronti.
5
Cf DUQUOC, Un Dio diverso 30-44.

3
Indubbiamente, una certa cristologia impostata in maniera prevalentemente
discendente a partire dall'affermazione di Gv 1,14, e sviluppata con l'aiuto di
categorie ellenistiche di pensiero e con un metodo deduttivo, contribuì ad
accentuare eccessivamente e in un determinato modo l'essere "dalla parte di Dio" di
Gesù. Essa finì per lasciare così un po' nell'ombra il suo essere "dalla parte degli
uomini". Era già questa, come si sa, la tendenza prevalente nella corrente teologica
alessandrina nell'antichità cristiana, in contrapposizione a quella antiochena.
Oggi non pochi preferiscono fare una cristologia cosiddetta "dal basso" - la
denominazione è discutibile -, che prenda più sul serio l'essere-uomo di Gesù 6. In
essa viene fortemente evidenziato il fatto che egli è veramente uomo (affermazione
d'altronde già ribadita nella formula calcedonense: DS 301), e quindi uno che porta
in sé tutte le ricchezze, ma anche le inevitabili limitazioni del suo popolo e del suo
tempo.
E su questo humus umano concreto che germoglia e cresce l'immagine di Dio da
lui vissuta ed annunciata. Senza questo retroterra tale immagine resterebbe
incomprensibile.
Troviamo in ciò il fondamento del ricorso agli scritti dell'Antico Testamento per la
nostra ricerca riguardante i tratti del volto del Dio di Gesù Cristo.

3.1. Genesi dell'immagine di Dio nel popolo d'Israele


Iniziando questa nostra ricerca facciamo subito rilevare che tanto il Magistero
della Chiesa quanto la teologia affermano l'origine "dall'alto" dell'immagine di Dio
nell'Antico Testamento: essa è frutto di una rivelazione divina. Si tratta di
un'affermazione che mira a sottolineare soprattutto l'originalità di tale immagine nei
confronti di quella di altri popoli le cui divinità provenivano "dal basso", ossia dal
loro rapporto con la natura.
Detta affermazione può tuttavia portare a pensare che tale immagine sia qualcosa
di "prefabbricato", di caduto direttamente dal cielo, senza mediazioni umane7. Cosi,
per esempio, può indurre a credere che il popolo d'Israele abbia avuto sin dall'inizio,
già al tempo dei Padri (Gen 12-50), un'idea nettamente monoteistica di Dio,
venerando JHWH quale Dio unico, creatore e salvatore di tutto il mondo. O
addirittura che l'umanità stessa (Gen 1-11) abbia avuto sin dalle sue origini tale
idea, oscurata poi a causa del peccato e nuovamente illuminata nella storia dei
Patriarchi. Perfino l'attuale ordinamento dei libri della Bibbia può favorire una tale
concezione, dal momento che da per scontata la fede nell'unico Dio - JHWH,
secondo la narrazione della creazione di Gen 2-3 - sin dai primi momenti
dell'umanità.
La realtà invece, da quel che si può cogliere tra le righe della Bibbia stessa,
sembra essere un'altra.

6
Cf W. PANNENBERG. Cristologia. Lineamenti fondamentali, Morcelliana, Broscia 1974, XX-XXX.
7
Tale concezione della rivelazione è correlativa a quella della fede pensata come adesione dell'intelligenza - naturalmente
sotto l'influsso della grazia - a delle verità che superano la capacità della stessa intelligenza umana (cf Vaticano I, ibid. cap.
3, DS 3008-3014).

4
• Anzitutto, bisogna ricordare ancora una volta che, benché tale immagine provenga
dall'alto e sia frutto di una rivelazione, essa è germogliata e si è sviluppata
nell'esperienza concreta di un gruppo umano e mediante essa (DV14)8.
• Inoltre, occorre notare che tale immagine non è scaturita dalla semplice esperienza
della natura, ma proprio da una esperienza storica. Fu infatti in un avvenimento che
cambiò il suo destino storico che il gruppo dei discendenti di Abramo schiavo in
Egitto incontrò il suo Dio-JHWH, e m ancora in successivi avvenimenti storici, quali
la conquista della terra di Canaan, la monarchia, l'esilio, il ritorno alla propria terra
che continuò ad approfondire tale sua scoperta.
All'interno di tali avvenimenti alcuni uomini, e con il loro aiuto poi l'intero gruppo,
vissero inizialmente ciò che può considerarsi come un fenomeno di disclosure, il
quale permise loro di cogliere nell'avvenimento umano-storico dell'esodo la presenza
e l'azione del loro Dio facendo in tale modo una autentica esperienza di fede.
Secondo le testimonianze della Bibbia, questo gruppo, costituitosi più tardi in
popolo, mantenne la sua fedeltà a tale immagine di Dio in mezzo a non pochi
ostacoli e difficoltà. L'avvento di nuove situazioni quali la sedentarizzazione, la
monarchia, la perdita dell'indipendenza nazionale, costituirono autentici momenti di
crisi e perfino di tentazione per la sua fede9.
Ma, d'altra parte, tali situazioni furono altrettante occasioni di rilettura della loro
fede in lui. In questo contesto l'opera dei profeti, e specialmente di alcuni di essi,
come ad esempio Elia (cf I Re 18,16-40), svolse un ruolo veramente determinante.

3.2. Importanza decisiva dell'avvenimento dell'esodo


Ci chiediamo ora come fare per cogliere i tratti fondamentali del volto del Dio
dell'Antico Testamento, quale strada seguire.
In realtà, di Dio parlano tutte e ognuna delle pagine veterotestamentarie. Sarebbe
certamente molto arricchente seguire diacronicamente la storia dell'immagine che di
lui il popolo si andò formando, e scoprire la continuità e la novità presenti in essa.
Un lavoro del genere risulta tuttavia molto difficile, tra l'altro per via delle incertezze
esegetiche esistenti al riguardo: su molti testi gli studiosi si dimostrano tutt'altro che
unanimi per ciò che riguarda la loro datazione e la loro interpretazione.

In vista di queste difficoltà, noi optiamo per seguire una via più semplice che, pur nella
sua concisione, crediamo possa raggiungere adeguatamente l'obiettivo cercato:
focalizzeremo l'immagine del Dio d'Israele nel momento germinale della sua rivelazione
al popolo. In fondo è questa, nei suoi tratti sostanziali, l'immagine che il popolo si
porterà appresso lungo tutta la sua storia.

8
Se per qualche tempo la Chiesa ha avuto un atteggiamento cauto nei confronti di questa concezione
della rivelazione, ciò si dovette al rischio di modernismo che essa può comportare. I modernisti, infatti, riducevano la
rivelazione e la fede a un fenomeno di pura esperienza umana. D fatto che la concezione di una rivelazione in e mediante
l'esperienza storica del popolo d'Israele sia insinuata nel citato n. l4 della DV, lascia intravedere che ormai si considera
superato quel rischio. La polemica antimodernista è passata, e oggi si possono accettare le istanze valide di tale corrente pur
continuando a rifiutare l'intera impostazione.
9
Si veda a questo proposito la narrazione emblematica di Es 32,1-5 sul vitello d'oro, simbolo della tendenza sincretistica
d'Israele.

5
Partiamo da queste constatazione: per chi legge con sufficiente attenzione l'Antico
Testamento appare chiaro che l'avvenimento dell'esodo dall'Egitto occupa un posto
centrale nella coscienza del popolo d'Israele10. Infatti, esso viene ivi non soltanto
descritto, ricordato e celebrato costantemente, ma anche proiettato sia sul passato,
come si può vedere per esempio nella narrazione della creazione in Gen 1-2 e della
vocazione di Abramo in Gen 12, sia sull'avvenire, come si può cogliere, per esempio,
in Is 41,17-20; 43,16-21. ecc.
L'esodo costituì come una specie di modello di pensiero nel popolo. L'Israele
credente dimostra infatti di avere un modo esodale di ragionare.

3.3. I tratti del Dio dell'esodo


Per cogliere i lineamenti essenziali dell'immagine del Dio rivelatesi nell'esodo,
occorre analizzare tale avvenimento, così come lo presenta l’Antico Testamento. E ciò
che faremo ora. Ci ridurremo però a raccoglierne gli elementi più sostanziali e
tenendo conto, nella misura del possibile, di quanto dicono comunemente gli esegeti
su di esso11. Sappiamo infatti che le discussioni riguardanti i testi che ne parlano
sono moltissime, a cominciare da quelle che affrontano il carattere storico dei
medesimi.
• L'esodo appare, anzitutto, nelle narrazioni bibliche, come un avvenimento di
salvezza, anzi come l'avvenimento di salvezza per eccellenza. In esso si possono
scorgere le seguenti componenti:
• una situazione di perdizione: il gruppo dei discendenti di Abramo che poi, con
l'alleanza, costituiranno il popolo di JHWH, si trova in una condizione
umanamente negativa e addirittura disperata, per un insieme convergente di
motivi; concretamente, per il fatto di vivere in una terra non propria (Gen 50,22-24),
in condizione di schiavitù e sfruttamento da parte del Faraone (Es 1,8-14; 5,15-19),
e nella prospettiva sicura di venir completamente soppressi per l'eliminazione
violenta dei nascituri maschi (Es 1,15-22);
• un intervento straordinario del Dio-JHWH: questo Dio prende l'iniziativa di
strapparli dalla situazione disperata in cui si trovano, avendo deciso per propria
iniziativa di cambiarla radicalmente (Es 3,1-10); il risultato di tale iniziativa è la loro
fugga o, secondo altri testi, la loro espulsione dall'Egitto ad opera del Faraone e dei
suoi;
• una situazione nuova: a conseguenza di questo intervento divino, e di una serie di
azioni dove si vede protagonista Mosè, dagli altri suoi collaboratori e in definitiva
dall'intero gruppo, essi entrano in una nuova condizione umanamente più positiva,
che si contrappone a quella dalla quale erano usciti; concretamente: sono liberati
dalla schiavitù e dallo sfruttamento del Faraone (Es 14,30); acquistano come propria

10
"M. Noth, isolando il ritornello teologico costante Jhwh ci ha fatto uscire dall'Egitto, l'ha definito 'la
confessione di fede originaria di Israele". Lo stesso 'credo' storico [...] non fa che ribadire questo primato dell'esodo nella
struttura della Heilgeschichte - storico-salvifica - della fede biblica [...]. L'evento decisivo della liberazione dalla schiavitù
faraonica è come la radice sempre viva da cui nasce l'albero ramificato della storia della salvezza" (G. RAVASI, Esodo, in P.
ROSSANO - G. RAVASI - A. GERLANDA [a cura]. Nuovo Dizionario di Teologia Biblica, Paoline, Cisinello Balsamo
1988, 506-507).
11
Cf G. AUZOU, Dalla servitù al servizio. Il libro dell'Esodo, Dehoniane, Bologna 1975; J. PLASTARAS, Il Dio
dell'Esodo. La teologia dei racconti dell'Esodo, Marietti, Torino 1977.

6
una terra "che stilla latte e miele"; e viene aperta ad essi la possibilità di costituire
un popolo libero, acquistando così una possibilità di futuro per sé e per i loro
posteri.
"Questo avvenimento di salvezza acquista ulteriore stabilità e forza mediante
l'alleanza stipulata, sul modello di quelle che si usava fare allora, tra il Dio-JHWH e
il suo popolo (Es 19-24). Tale alleanza svela la disposizione permanente di questo
Dio verso il suo popolo e, in esso, verso tutta l'umanità (cf Gen 12,4;3,15; 9,12-17).
È anche il fondamento dei suoi ulteriori interventi salvifici che riprodurranno, con
sfumature proprie, lo schema-esodo del primo intervento; ed è pure il fondamento
della speranza dello stesso popolo in un intervento futuro decisivo, in cui lo schema-
esodo avrà la sua realizzazione piena e definitiva12.
Da questa breve analisi emerge già con sufficiente chiarezza l'immagine del Dio
dell'Antico Testamento. La si ritrova espressa in forma condensata
nell'autopresentazione che, nella narrazione del libro dell’Esodo, fa JHWH di Se
stesso prima di enunciare il codice dell'alleanza: "Io sono JHWH, tuo Dio, che ti ho
fatto uscire dal paese d'Egitto, dalla condizione di schiavitù" (Es 20,2). È espressa
anche nello stesso nome "JHWH", mediante il quale Israele intende dire non tanto la
natura di Dio in sé, quanto piuttosto ciò che questo Dio vuole essere per lui.
Si potrebbe descrivere così quest'immagine in poche parole: JHWH è un Dio che si
rivela storicamente come tenacemente impegnato, con tutta la sua potenza, nello
strappare il popolo d'Israele dalla situazione di perdizione in cui si trova, per aiutarlo
a passare a una nuova situazione di maggior pienezza, in vista del raggiungimento
di una pienezza definitiva (shalom).

3.4. Alcuni rilievi conclusivi


L'accentuata stringatezza con cui abbiamo presentato il volto del Dio dell'A.
Testamento ci costringe a fare alcune osservazioni a suo complemento e
precisazione:
• La memoria culturale del popolo d'Israele, discendente da antenati seminomadi (Dt
26,5), rafforzata dall'esperienza dell'esodo, fece che questo popolo pensasse sempre
il suo Dio come un Dio-da-tenda, e non come un Dio-da-tempio al modo dei popoli a
civiltà sedentaria. Così si spiega tra l'altro la sua riluttanza iniziale alla costruzione
di un tempio in suo onore (2Sam 7,1-7). Ciò ebbe indubbiamente influsso sul
carattere escatologico della sua immagine di Dio, sul quale torneremo più avanti. Il
suo è un Dio di futuro, che in qualche modo forza il popolo a guardare sempre in
avanti.
• È alla luce della sua immagine di JHWH salvatore che Israele ripensò il tema del
Dio creatore, certamente già presente precedentemente nella sua coscienza13,
venendo così a concepire la creazione come il primo atto della storia della salvezza,
fatto che conferma l'attuale ordinamento dei libri del Pentateuco14. JHWH appare,
12
Vedere specialmente il Deuteroisaia, nel quale si scorgono due piani sovrapposti: uno, immediato, riferito al ritorno del
popolo dall'esilio; l'altro, più lontano nel futuro, che si riferisce alla realizzazione della promessa per l'intera umanità (ci
Bibbia di Gerusalemme 1256-1257).
13
Cf SCHILLEBEECKX, Gesù. La storia 600-609, dove l'A. discute la diffusa opinione contraria sostenuta da Von Rad e
molti suoi seguaci.
14
Cf C. WESTERMANN, Il racconto della creazione inizio della Bibbia, in N. NEGRETTI - C. WESTERMANN - G.
von RAD G., Gli inizi della nostra storia, Marietti, Torino 1974, 61-65.

7
negli scritti veterotestamentari, come il creatore-salvatore, unico soggetto divino
dell'intera realtà e dell'intera vicenda umana.
• Benché Israele abbia considerato in un primo momento questo Dio JHWH come
un Dio esclusivamente suo, analogamente a come facevano gli altri popoli nei
confronti dei loro dèi, a poco a poco andò imparando a pensarlo sempre più come il
Dio di tutte le genti, impegnato nel realizzare con tutti i popoli ciò che aveva
cominciato a fare emblematicamente con lui. Così questo Dio andò a poco a poco
acquistando tratti sempre più decisi di universalismo.
" Come si coglie da più di un testo veterotestamentario, Israele restò segnato, anche
nella sua fede, dal carattere conflittuale della sua esperienza iniziale. Il Dio
sperimentato nell'esodo fu un Dio-che-prende-partito, un Dio-che-lotta, appunto
perché si rese alleato di un gruppo umano in situazione di conflitto e non in
situazione pacifica. Questo suo farsi alleato del gruppo debole, oppresso e sfruttato
per la sua salvezza, comportò di rimbalzo un suo dissociarsi dall'altro gruppo in
quanto responsabile di tale situazione.
• Infine, chi legge l'Antico Testamento (e la stessa narrazione dell'esodo) percepisce
facilmente che, insieme a quest'immagine di Dio così delineata nei suoi tratti
essenziali, appaiono più di una volta dei tratti delle immagini cosmiche delle divinità
dei popoli vicini (soprattutto dei cananei). Di essi Israele se ne andrà purificando
lentamente lungo la sua storia, ma la vera e piena purificazione avverrà solo con
Gesù Cristo.

4. Approccio sistematico
Volendo ora organizzare sistematicamente i principali tratti dell'immagine del Dio
dell'Antico Testamento, raccogliamo i dati da esso fomiti attorno a tre filoni che
percorrono tutti i suoi scritti: il monoteismo, la trascendenza e l'immanenza15.

4.1. Il monoteismo veterotestamentario


Premettiamo che il problema dell'esistenza di Dio, previo logicamente a quello del
monoteismo, non esiste per la Bibbia. Essa è tutt'intera una professione di fede in
JHWH, il Dio che liberato il popolo dalla schiavitù d'Egitto e ha fatto alleanza con
lui. Presuppone, quindi, la sua esistenza. D'altronde, è questa una situazione che
Israele condivide con tutti i popoli dell'antichità, i quali sono senza eccezione
profondamente religiosi. Specifico e peculiare del popolo della Bibbia è invece il
monoteismo, che ora passiamo a considerare nelle sue grandi linee:

4.1.1. Significato del termine


Etimologicamente, monoteismo significa riconoscimento e adorazione di un unico
Dio. Secondo le informazioni degli storici delle religioni, ci sono stati - e ci sono
tuttora - dei popoli a religione politeista, enoteista16 e monoteista. L’enoteismo

15
Seguiremo il lavoro A. DEISSLER più volte citato (qui, nelle pp. 285-289). Altri autori preferiscono invece una
sistematizzazione attorno ai titoli più salienti dati a Dio dagli scritti veterotestamentari. Così, per esempio, R.
FESTORAZZI, Rivelazione biblica di Dio, in ASSOCIAZIONE TEOLOGICA ITALIANA [a cura], I teologi del Dio vivo.
La tradizione di Dio oggi, Milano, Ancora 1968, 63-125.

8
(adorazione di un unico dio nel popolo) non è ancora monoteismo, ma una tappa
verso di esso nell'evoluzione della storia delle religioni.

4.1.2. Evoluzione storica del monoteismo in Israele


Comunemente si pensa che il popolo d'Israele sia stato monoteista sin dall'inizio
della sua esistenza, che abbia cioè creduto da sempre che il suo Dio JHWH, creatore
del mondo e salvatore della storia, fosse l'unico Dio di tutti i popoli. Tale convinzione
è spesso frutto di una lettura inadeguata dei dati biblici, che non tiene conto del
dato storico. La realtà è, come ci fanno sapere gli studiosi della Bibbia, che c'è stata
un'evoluzione da questo punto di vista nella storia di questo popolo. Ne descriviamo
ora brevemente le principali probabili tappe.
• La prima è quella costituita dalla cosiddetta storia dei Patriarchi (Gen 12-50).
Prima di accennare ai dati che ci forniscono le narrazioni bibliche al riguardo, è
importante ricordare ancora una volta la natura di tali narrazioni. Esse non
sono dei racconti storici nel senso oggettivo e attuale della parola, ma piuttosto
delle narrazioni "teologiche", ossia delle proposte, a sfondo storico certamente,
di messaggi della fede alla fede. Su di esse si proietta l'esperienza posteriore del
popolo. Quindi più che parlare della concezione che i personaggi in questione
hanno di Dio, parlano della concezione che l’intero popolo ne ha avuto nel corso
della sua storia. I Patriarchi (Abramo, Isacco e Giacobbe) sono come la
personificazione della fede di questo popolo. Ciò vale in maniera del tutto
speciale di Abramo, "il padre" di tutti i credenti. Ad ogni modo, avvalendoci
anche di altre conoscenze storiche esterne alla Bibbia possiamo ricavare alcuni
dati riguardanti il tema che ci interessa.

Un dato importante, difficilmente controvertibile dal punto di vista storico e che


ha certamente segnato la concezione di Dio del popolo d'Israele nei confronti di
altri (dei cananei per esempio), è che questo popolo proveniva da antenati
seminomadi. Ciò ebbe indubbiamente delle notevoli ripercussioni sia sul suo modo
di concepire il tempo (non circolarmente ma linearmente), che su quello di concepire
Dio. Il fatto di dover emigrare spesso, smontando le tende per andare verso
nuovi pascoli con cui nutrire il loro bestiame, segnò profondamente il modo di
pensare delle tribù delle origini. Anche per ciò che riguarda la religione.
Non ci sono invece dati certi circa un monoteismo esplicito e riflesso dei Patriarchi
nei capitoli che narrano la loro storia. Anzi, si può sospettare che essi, come i
mèmbri degli altri popoli della regione, credessero nell'esistenza di altre divinità oltre
alla propria. Quello poi che in queste narrazioni appare come "il Dio dei Padri",
ha due caratteristiche fondamentali: anzitutto, una certa parentela o vicinanza di
tratti con il dio "El", la divinità principale del panteon cananeo, e poi, un legame
molto stretto con Abramo e con i suoi discendenti. Difatti, inizialmente viene

16
Enoteismo. Termine introdotto dallo storico delle religioni Friederich Max Müller (1823-1900) per indicare una forma
particolare di politeismo, rintracciabile nei Veda, per la quale ogni divinità è "agli occhi del supplicante allo stesso tempo
una divinità vera, suprema e assoluta". A una singola divinità, pertanto, viene tributato un culto che, indirizzandosi a "un
unico Dio alla volta", esclude l'adorazione di altre divinità. L'enoteismo sarebbe quindi connesso a un'idea dell'unicità (di
Dio) che non esclude l'idea di pluralità (degli dei), laddove il monoteismo la esclude radicalmente. Müller propose
l'enoteismo come una fase della religione precedente a politeismo e monoteismo.

9
chiamato "il Dio di Abramo", o "il Forte di Giacobbe", e più tardi "il Dio di Abramo,
d'Isacco e di Giacobbe" o, semplicemente, "il Dio dei nostri Padri".
Dall'esame di questa prima tappa si potrebbe dire, dunque, brevemente, che è molto
difficile stabilire se il monoteismo in senso stretto sia stato una delle componenti
dell'immagine di Dio all'epoca dei Patriarchi. Tutt'al più si può dire che essi
vivevano una specie di monoteismo "esistenziale", nel senso che si sentivano
strettamente e vitalmente legati al "loro" Dio, ma non un vero e proprio monoteismo
tematizzato. Si tratterebbe quindi piuttosto di una forma di enoteismo.

• Altra tappa importante è quella segnata dalla figura di Mosè.


Nei testi che parlano di questa tappa è chiara l'affermazione di una coscienza
monoteistica nel popolo protagonista dell'esodo e dell'alleanza. Lo si coglie, per
esempio, nel precetto fondamentale dell'alleanza di non avere altri dei ali infuori di
JHWH, il Dio che li ha strappati dall'Egitto (Es 20,3). Malgrado ciò, non si può
decidere in base a tali dati e in ragione dell'osservazione tana sopra- se Mosè e il
popolo abbiano già allora concepito il loro Dio JHWH come un Dio unico di tutti i
popoli. Potrebbe trattarsi anche qui di una retroiezione dell'esperienza di fede
posteriore.

• Una tappa decisiva è invece e indubbiamente quella segnata dall'opera dei


Profeti. In realtà sono stati in definitiva essi a portare il popolo
veterotestamentario, inclinato al politeismo e convinto dell’esistenza e del potere
di altri dèi all'infuori di JHWH (Gdc 11,24; 1 Sam 26,19; 2 Re 3,27), al vero
monoteismo.
Uno speciale rilievo acquista in questo contesto l'opera di Elia. Egli, stando ai
racconti biblici, interviene pieno di zelo per ricondurre il popolo dall'idolatria baalica
in cui era caduto, all'adesione esclusiva a JHWH, il loro Dio salvatore (1 Re 18,20-
40). Ma anche più tardi Amos (1,2), Isaia (visione nel Tempio: cap. 6; appellativo
della "nullità" dato agli altri dèi: 2,8.18; 10,10; 19,3), e Geremia (chiama gli dèi
"soffio di vento": 2,5; 10,8.15; 14,22; 16,19, e anche "non-dèi": 2,11; 5.7)
intervengono decisivamente in questa direzione.
Il Deuteroisaia segna, al momento dell'esilio e del post-esilio, una tappa importante
in questo cammino, poiché proclama già apertamente il monoteismo riflesso e non
solo esistenziale (Is 45,20-23).
• La tappa veterotestamentaria finale è quella dell'epoca del giudaismo, nel periodo
postesilico. In questo momento della sua storia il popolo d'Israele ha già acquisito
e professa pacificamente un monoteismo completo: il suo Dio JHWH, che l'ha tolto
dalla schiavitù dell'Egitto e ha stretto un'alleanza con lui, è l'unico Dio e, perciò
stesso, anche il Dio universale. Non ce ne sono altri all'infuori di Lui.

Sintetizzando quanto è stato brevemente esposto sull'argomento, si può dire che


si constata una evoluzione aggettiva, da questo punto di vista, nel popolo d'Israele:

esso passa a poco a poco, nella e attraverso la sua esperienza storica, da un iniziale
monoteismo "esistenziale" (enoteismo) a un monoteismo "teoretico", "riflesso", che viene

10
a costituire, negli ultimi secoli che precedono la venuta di Cristo, un suo vanto nei
confronti degli altri popoli.

4.1.3. Portata del monoteismo dell'Antico Testamento


II monoteismo che professa Israele, per lo meno nello stadio finale della sua
evoluzione, non è puramente numerico-formale come, per esempio, quello imposto
dal faraone Echn-Aton in Egitto attorno al 1350 a. C. Quest'ultimo era un
monoteismo la cui divinità era immanente al mondo, perché non era in realtà altro
che il sole divinizzato. Quello del popolo biblico è invece confessione di fede
nell'unicità di JHWH come Dio che trascende il mondo e non si identifica con esso,
pur coinvolgendosi con la storia del suo popolo.
Una questione importante in questo contesto è quella che riguarda il rapporto tra il
monoteismo e l'intersoggettività divina. In altre parole: se questo Dio JHWH, unico e
solo Dio, sia anche un Dio solitario, senza un "tu" che gli faccia da interlocutore da
sempre, prima ancora della creazione del suo interlocutore umano. Si deve
constatare che non c'è al riguardo una risposta esauriente nei testi
veterotestamentari, ma solo degli indizi appena abbozzati.

Una certa risposta, che in qualche modo rivela un presentimento trinitario già
nell'Antico Testamento, lo si può trovare:
1) nel fatto che la vita di questo Dio sia pensata come in se stessa personalmente
sovrabbondante,
2) e soprattutto nella tendenza a ipostatizzare (= concepire come persone) alcune
mediazioni divine.
Infatti, troviamo negli scritti veterotestamentari frequenti riferimenti ad alcune
figure caratteristiche quali l'Angelo, la Parola, la Sapienza, e lo Spirito di JHWH,
figure che nei testi appaiono soggette ad un processo crescente di "ipostastizzazione"
(personificazione), arrivando in certi momenti ad apparire come delle autentiche
"persone" esistenti con e nell'unico Dio. Queste figure non sono soltanto dei "nomi,
[delle] descrizioni o [dei] modi di agire di JHWH 'stesso', bensì determinate forme di
mediazione delle quali [...] JHWH si serve per essere presente efficacemente in mezzo
al popolo, oppure per intervenire in sua difesa"20.
Sono come una specie di "sdoppiamento" di JHWH, e servono ad approfondire la
conoscenza della trascendenza di Dio e contemporaneamente della sua immanenza.
Esprimono bene in questo modo ciò che è stata l'esperienza del popolo d'Israele, il
quale lungo la sua storia senti JHWH come un Dio allo stesso tempo lontano e
vicinissimo, separato dal mondo e profondamente immerso in esso.
D'altronde, queste mediazioni permettono di capire che il popolo
veterotestamentario andava maturando una sua concezione circa l'intersoggettività
intradivina, ossia sul fatto che questo Dio solo non era un Dio solitario. Soprattutto
nella crescente accentuazione della ipostatizzazione di tali mediazioni. Così si andava
preparando la rivelazione della trinità in Dio. Le prendiamo ora in considerazione
molto succintamente, rilevando la loro funzione e il processo di ipostatizzano a cui
sono state soggette.

4.1.3.1. L'angelo di JHWH (mal'ak JHWH)

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L'angelologia biblica è molto complessa e ha una sua lunga storia. Tuttavia, si deve
constatare che tra i molti angeli che appaiono negli scritti veterotestamentari, quello
che viene chiamato "l'Angelo di JHWH", ha una fisionomia inconfondibile. Egli
interviene sempre da solo, e svolge diverse funzioni:

• spesso esercita una funzione di salvezza ben determinata, per esempio, nei confronti
dell'intero popolo durante il pellegrinaggio del deserto che lo portò dalla terra della
schiavitù fino alla terra della promessa (Es 14,19; 23,20.23; 32,34; Nm 20,16), ma
anche nei confronti di alcuni Profeti o di altri timorati di Dio (Gen 24,7,40; 1 Rè
19,5-7.; ecc.);
• appare anche a volte come angelo di sciagura e castigo (2 Sam 24,16-17; 2 Rè
19,35) o come giudice (2 Sam 14.7.20; 19,28; Zac 3,1-2.).
Particolarmente interessanti sono quei racconti dove l'Angelo di JHWH non si
distingue chiaramente da JHWH stesso e si identifica con Lui (Gen 16,7.13; 31.11.13;
48,15-17.; Gdc 6,11 24; ecc.). In essi l'ipostatizzazione o personalizzazione
dell'Angelo è molto accentuata.
Dice Eichrodt su questa figura: l'Angelo di JHWH costituisce "un ponte tra il Dio
incomprensibile per l'uomo e il Dio che si manifesta effettivamente ed
essenzialmente nel mondo fenomenico"17.

4.1.3.2. La parola di JHWH (dabar JHWH)


È importante, anzitutto, ricordare il senso che aveva nell'antichità in genere la
parola in quanto tale.
• Nel mondo antico le si dava molto più peso di oggi. Le si riconosceva infatti un
potere di azione proprio e perdurante, specialmente se veniva pronunciata con una
decisione energica della volontà. Si pensi, per esempio, alle formule di benedizione
e di maledizione. Fra i popoli semiti poi ciò era ancora più accentuato.
• In Israele la parola è vista nel contesto della storia della salvezza. Essa ha un doppio
risvolto: semantico, in quanto contiene e manifesta ciò che designa; dinamico, in
quanto possiede un intimo potere di azione che entra in attività all'esterno. Questo,
che vale nei confronti della parola umana. vale anche e con maggior ragione della
Parola di JHWH.

Nella Bibbia la Parola di Dio è di tre tipi, non indipendenti tra di loro:
• c'è una Parola di comandamento, che è rivelazione della volontà eterna di Dio per il
suo popolo e in ordine alla sua salvezza. La si trova specialmente in Es, dove i dieci
comandamenti sono le "dieci Parole" per eccellenza, e in Dt, che di quelle Parole è
come l'esplicitazione e l'approfondimento;
• c'è poi la Parola profetica, intimamente vincolata agli avvenimenti della storia, che
diventa una potenza effettivamente decisiva, come si vede negli scritti profetici;
• e c'è infine la Parola creatrice, che si trova soprattutto e quasi esclusivamente negli
scritti più recenti dell'Antico Testamento (Sal 33,6; 147,4; 148,8; Sap 9,1; Sir 39,17;
42,15; ecc.). È una Parola che fonda tutto, che chiama all'esistenza ciò che non
esiste. Afferma con ragione uno studioso:

17
Cf R. SCHULTE, La preparazione della rivelazione trinitaria, in FEINER – LOHRER, Mysterium salutis, III 82.

12
"Nell'Antico Testamento, quasi tutta l'opera di Dio nella fondazione e nella
conservazione del mondo e nell'adozione del popolo come libera scelta e per amore e
nella guida di esso, anzi, dell'intera umanità, viene ricondotta alla 'Parola di Dio' [...].
Così il concetto di 'Parola di Dio" mette in luce tanto la trascendenza quanto
l'immanenza di Dio: egli è fino a tale punto il totalmente diverso, da creare e dirigere
tutto 'mediante' la sua parola pronunciata senza fatica e liberamente; nello stesso
tempo però egli è presente qui precisamente attraverso questa sua parola onnipotente.
Ciò spiega anche la 'personificazione' della parola condotta sempre più decisamente"22.

4.1.3.3. La sapienza (hokmah JHWH)


La sapienza ebraica non si identifica ne con quella dei greci, ne con la sapientia
dei latini, ne con il nostro concetto moderno di sapienza, tutte e tre protese piuttosto
sul versante noetico dell'attività umana. Essa si riferisce invece principalmente al
campo pratico e morale della vita, come avveniva già tra i principali popoli
circondanti Israele. Viene inoltre considerata come una proprietà autenticamente
divina (Gen 3,5.11; Prov 21, 30; Ez 28, 1-5; Giob 15,8; ecc.).
Nell’Antico Testamento la sapienza soffre un'evoluzione, poiché all'epoca
postesilica viene riferita al campo autenticamente religioso ed elevata a un concetto
teologicamente importante specialmente nella formazione della letteratura
sapienziale. La si riconosce chiaramente divina, cioè come appartenente alla sfera di
Dio, viene equiparata alla Parola di comandamento e di profezia, e subisce un forte
processo di personificazione sul cui senso e portata però si discute.

4.1.3.4. Lo Spirito di JHWH (ruah JHWH)


II termine ruah, che in ebraico è femminile, comporta diversi significati:
• è il vento, da quello leggero alla bufera, che dai contadini viene ricondotto a Dio
come creatore e conservatore (Gen 1,2; 1 Rè 18,45; Sai 33,6; ecc.); a questo "vento"
viene attribuito in particolare l'intervento di Dio nella liberazione iniziale di Israele
dalla schiavitù d'Egitto (Es 10,13.19; 14,21-22; ecc.);
• è anche soffio vitale, respiro, vita. In quanto tale è una proprietà di Dio (Gen 2,7)
e indica pure la stretta relazione vitale dell'uomo con Dio.
Lo Spirito di Dio è inteso come potenza divina invisibile che tuttavia vivifica tutto
(Sap 1,7; Sai 139,7), cioè l'intimità dell'uomo e la storia del popolo. Anch'esso soffre
un'evoluzione nell'Antico Testamento, un'evoluzione che abbraccia tutto l'arco della
storia del popolo d'Israele:
• agli inizi gli si attribuiscono azioni di tipo fisico-psichico (Giud 13,25; 1 Rè 8,12; 2
Re2,16);
• al tempo dei Giudici si pensa che esso conferisca agli uomini una forza fisica per la
salvezza del popolo (Giud 13,25; 14,6.19; 15,14), la quale li rende atti alle imprese
belliche con cui il popolo riconquista la sua libertà dopo essere ricaduto in una
condizione "egiziaca" (Giud3,\0; 6.34; ecc.);
• al tempo dei Profeti, per il rischio di contaminazione con gli altri culti che
favorivano un profetismo di altro tipo, si preferisce riferirsi alla Parola anziché allo
Spirito (non mancano però dei riferimenti ad esso, specialmente in Is);

13
• in tempi più recenti si parla del Messia come del portatore dello Spirito (Is 61), e
dei tempi messianici come di tempi di effusione universale dello Spirito (Ez, Ger,
e specialmente Gl).
Appare anche la tendenza alla ipostatizzazione dello Spirito, benché meno marcata di
quella della Sapienza (2Sam 23,2; Ag2,5; Is 63,10-11; Sai 52,13; Sap 1,5-6; ecc,).

4.2. La trascendenza di JHWE

Non si può negare che il centro della rivelazione veterotestamentaria, ossia il


tratto dell’immagine di Dio più sottolineato e più evidente in essa, è “la buona
novella del Dio [...] che Trascende se stesso verso l’uomo e il mondo”. In termini di
storia delle religioni si direbbe il mysterium fascinosum, cioè quell’aspetto del divino
che attira irresistibilmente l'uomo. Ciò corrisponde al tipo di esperienza storico-
religiosa del popolo della Bibbia, che sentì il suo Dio JHWH vicinissimo,
costantemente all'opera in suo favore. È l'aspetto dell'immanenza di questo Dio al
mondo. Ciò non può tuttavia far dimenticare la coscienza presente in Israele
dell'altro polo dell'immagine divina, cioè la trascendenza di Dio riguardo al mondo;
ciò che, ancora in termini di storia delle religioni, si qualifica come mysterium
tremendum. In Israele però questa stessa trascendenza acquista delle caratteristiche
proprie, per via appunto della sua peculiare esperienza religiosa, di tipo
prevalentemente storico-salvifico Le vedremo in seguito, mettendone in rilievo i
principali aspetti sottolineati dalla Scrittura e segnalando la peculiarità del Dio di
Israele in confronto con gli dei degli altri popoli circondanti.

4.2.1. Trascendenza spaziale


Mentre gli dèi degli altri popoli sono delle divinità essenzialmente condizionate
dal loro rapporto con lo spazio geografico dei loro devoti (2 Re 5,14-19), JHWH si
caratterizza anzitutto per il fatto di avere una trascendenza regionale e di non
apparire vincolato a un determinato spazio:
• già all'epoca dei Patriarchi, stando a quanto dice la Bibbia. JHWH non solo
pellegrinava con essi, essendo un dio-da-tenda. ma si muoveva pure liberamente nel
territorio del Medio Oriente; inoltre, appariva loro in diversi posti (Beth-el, Hebron,
Bersabea), e prometteva loro in eredita la terra dei Baal cananei (Gen 12,7; ecc.);
• nell'esperienza dell'esodo JHWH appare come un Dio che dimora con gli ebrei in
Egitto, che vince poi i potenti dèi egiziani e guida il suo popolo attraverso il deserto
verso la terra di Canaan;
• quando più tardi Israele diventerà sedentario e verrà costruito il tempio, questo sarà
considerato certamente il luogo della presenza di JHWH, ma si avrà chiara coscienza
che esso non può rinchiuderlo tra le sue mura. Lo si vede in Is 6,1-10, dove la gloria
di JHWH riempie il tempio ma lo deborda; in 1 Re 8,27: la preghiera di Salomone
nella dedicazione del tempio ribadisce questa stessa idea. Più tardi Ezechiele vede la
gloria di JHWH allontanarsi dal tempio;
• JHWH ha inoltre perfino una trascendenza cosmica, totale. È questa un'idea che
diventa chiara specialmente grazie a: Profeti. La si può trovare, per esempio, in
Am 9,2-3 e nel Deuteroisaia (Is 40.26, 45.12), ma è presente anche, e fortemente
sottolineata, nel Sai "-39 i specialmente ai vv. 7-10) e nella narrazione di Gen 1. In

14
questa le potenze degli spazi celesti vengono detronizzate e sottoposte a JHWH.
Fondamento ultimo di questa trascendenza spaziale e il potere creatore del Dio
JHWH, potere che Israele esprime tra l'altro con il titolo, così frequentemente
presente nella Bibbia, di "JHWH degli eserciti" (JHWH shebaoth).

4.2.2. Trascendenza temporale


Le divinità dei popoli che circondano Israele sono, in fondo, la divinizzazione del
processo ciclico della natura. E ciò che spiega la frequente presenza tra essi del mito
della morte e della risurrezione dei loro dèi. JHWH, il Dio d'Israele, trascende invece
il tempo. È prima di esso e al di là di esso. Ne è una conferma il fatto che, a
differenza di quanto accade nella letteratura mitica delle altre religioni, nel racconto
biblico della creazione il caos iniziale non è una materia primordiale, preesistente,
dalla quale JHWH estrae il cosmo, ma è simbolo del nulla (Gen 1 e Sal 90,2).
I Profeti, come al solito, sono gli uomini che aiutarono Israele a chiarire questo
rapporto di JHWH col tempo. Essi arrivano ad affermarne l'eternità. Ovviamente,
tenendo
presente che per questo popolo semita, l'idea di eternità non è quella della filosofia
occidentale, ma un'idea costruita si potrebbe dire "per viam negationis", come di un
tempo che non ha ne inizio ne fine. In questo contesto, è importante il contributo di
Geremia, che interpreta l'eternità di Dio come infinita pienezza di vita (Ger 10,10).
L'affermazione veterotestamentaria dell'eternità di JHWH pone la questione se essa
sia compatibile o meno con una variabilità o mutabilità in Dio La questione viene
sollevata specialmente in ragione delle frequenti attribuzioni di sentimenti mutevoli
a questo Dio eterno. Naturalmente Israele, un popolo di una sensibilità culturale
diversa della nostra, non si poneva questo problema, almeno nei termini in cui noi
ce la poniamo. Oggi invece essa è diventata di molta attualità18.
Ciò che si può qui dire al riguardo è che nella Bibbia l'affermazione dell'eternità
di JHWH serve a mettere in luce la sua vitalità personale, una vitalità
imperturbabile e invincibile. E un modo di dire che Egli è il Vivente, colui che ha in
sé la pienezza totale della Vita.

4.2.3. Trascendenza nei confronti della natura e della storia


Come attestano numerosi testi letterari, nelle religioni antiche l'origine del
mondo come "cosmo" viene espressa mediante narrazioni cosmogoniche. In esse
spesso, dopo una teogonia che riguarda la nascita degli dèi, segue la lotta degli dèi
contro il caos, che sfocia poi nella creazione del cosmo come mondo abitabile
dall'uomo.

In Israele, invece, l'origine del mondo è vista come cornice dell’alleanza tra Dio e
il suo popolo, come primo atto della storia della salvezza. Inoltre, essa viene espressa
in termini di creazione da parte di Dio, una creazione che implica la sua
trascendenza, manifestata soprattutto nel fatto di creare il mondo mediante la sola
sua parola. Ciò è probabilmente il risultato di un'evoluzione nella coscienza del
popolo della Bibbia:

18
Cf J. MOLTMANN, Trinità e regno di Dio. La dottrina su Dio, Brescia, Queriniana 1983, 30-71.

15
• il primo passo di tale evoluzione lo costituirebbe l'esperienza dell'efficacia della
parola profetica nei confronti della storia;
• il secondo, la proiezione di questa esperienza storica sulla creazione;
• il terzo, l'affermazione che JHWH Dio è signore della storia perché è creatore del-
l'universo (tema tipico del Deuteroisaia).

Natura e storia appaiono quindi, nella Bibbia, come Parola di Dio incarnata,
fatta realtà. E in ciò si vede allo stesso tempo e la sua trascendenza e la sua
immanenza al mondo.

4.2.4. Santità essenziale di JHWH


Nelle religioni semitiche si constata in genere una spiccata sensibilità verso il
mysterium tremendum, sensibilità che le porta a vivere spesso anche una dicotomia
tra sacro e profano. Ne è un indice la distinzione fra animali puri e impuri. In Israele
si ritrova qualcosa di analogo, come lo dimostra anzitutto la terminologia usata nei
confronti di Dio, e poi diversi comportamenti generalizzati e addirittura fatti oggetto
di legislazione.
• Cominciando dalla terminologia, troviamo che vengono spesso usati nella Bibbia,
anzitutto, l'aggettivo qadosh (santo) e il correlativo sostantivo qodesh (santità). Essi
sono sempre utilizzati in relazione alla persona di JHWH, ossia che o fanno
riferimento a Lui in persona o a persone o cose che sono un rapporto con Lui (Es
3,5).
Hanno un senso ontologico, in primo luogo, in quanto indicano che JHWH è il
separato, il puro, colui che non è toccato dall'impurità del mondo (Is 6,3; cf anche
Osea e Deuteroisaia in genere), e che le persone e le cose sono rese altrettanto
separate e pure perché sono a contatto con Lui. Uno dei segni teofanici più
caratteristici di tale santità di JHWH è il fuoco (Es 19,18; Sai 29,7; ecc.). Ma, in
secondo luogo, questi termini hanno pure un senso morale, che si deve intendere nel
contesto della fedeltà alla alleanza stipulata con Lui. Il popolo di JHWH deve essere
santo, perché è stato separato per il Santo, e la sua santità deve consistere
fondamentalmente nell'essere fedele all'alleanza mediante l'adempimento della Legge
(cf Lev 17-27: il codice della santità del popolo liberato dalla schiavitù).
Altro termine spesso utilizzato in questo contesto è kabod (gloria). Esso designa la
manifestazione visibile della "qodesh" di JHWH, non tanto nella natura quanto
piuttosto nella storia. "Gloria di JHWH" sono soprattutto le gesta di salvezza che Egli
realizza in favore del suo popolo (Is 6,3). In Ezechiele il verbo "santificarsi",
strettamente collegato con la "kabod" di JHWH, significa il suo automanifestarsi
potente davanti ai popoli e in favore del suo popolo. In Es 33,18.20-23, in Ez 1,28 e
in genere nel libro del Levitico la gloria designa direttamente l'essere di Dio.
• Riguardo ai comportamenti, si desume dagli scritti dell'Antico Testamento che la
santità o trascendenza di JHWH fonda determinate esigenze per il suo popolo.
In concreto, da un parte, la proibizione di farsene delle immagini materiali che lo
rappresentino (Es 20,4-5) e di svolgere pratiche magiche (Es 20,7; Dt 18,10-12;
ecc.); dall'altra, la diversità del suo culto nei confronti di altri tipi di culto, propri
dei popoli circondanti (Am 5.21-26; Is 1,10; Ger 7,1-15; ecc.).

16
4.3. L'immanenza di JHWH
Negli scritti veterotestamentari non si parla di un'immanenza generica, ma
dell'immanenza tipica del Dio JHWH, trascendente e santo, di cui si è detto nel
punto precedente. Un'immanenza che, nella concezione del popolo d'Israele, non è di
tipo ontico-metafisico, ma di tipo economico, ossia storico-salvifico. Secondo l'Antico
Testamento il Dio tre volte santo, e quindi trascendente e libero, entra liberamente e
per propria iniziativa nel mondo dell'uomo, da Lui creato. Ed entra storicamente e
con un preciso scopo, quello della salvezza dell'uomo stesso.
Tale immanenza divina e salvifica al mondo costituisce certamente il centro di
tutto il messaggio della Bibbia, la sua buona novella nel senso più vero del termine,
e quindi anche il tratto fondamentale del Dio dell'Antico Testamento. Questo suo
immanentizzarsi salvificamente nella storia trova nella Scrittura dell'Antico
Testamento la sua espressione più rilevante nell'esodo e nella alleanza, che abbiamo
sopra esposto nei suoi diversi risvolti.

17

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