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la comunicazione
Antonio Vigilante 2

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© 2005-2006 Antonio Vigilante
3 Muntu / La comunicazione

La comunicazione

Una definizione di comunicazione, 5


Il silenzio comunica, 7
Pragmatica della comunicazione, 8
Comunicazione e stati dell'io, 14
La comunicazione malata, 17
Palcoscenico e retroscena, 21
Breaching experiments, 24
Speaking, 26
La comunicazione non verbale, 29
Antonio Vigilante 4
5 Muntu / La comunicazione

Ognuno di noi sperimenta gli effetti di una comunicazione difettosa,


bloccata, inautentica. Quando ciò accade, proviamo sensazioni che vanno
da disagio alla rabbia vera e propria. Non sentirsi compresi o non
comprendere, accorgersi che le proprie affermazioni vengono travisate in
modo intenzionale o involontario, venire offesi senza che l’altro ci abbia
apparentemente detto nulla di offensivo: sono esperienze che
comunemente ci infastidiscono, impedendoci spesso di mantenere buoni
rapporti con gli altri. Ma la comunicazione può anche darci gioia. Poche
cose trasmettono pace e senso di soddisfazione come l’aprirsi a qualcuno e
sentirsi profondamente compresi. La comprensione del messaggio
dell’altro è premessa per la partecipazione emotiva alla sua esperienza, e
quindi per ogni profonda relazione umana.
La comunicazione, insomma, è una cosa che può farci soffrire o darci gioia.
Ci fa soffrire quando è malata, ci dà gioia quando è sana. Ma quando una
comunicazione è sana, e quando è malata? È una domanda cui cercheremo
di rispondere in questo percorso, con l’aiuto delle principali teorie.
Ma la domanda da cui dobbiamo partire è un’altra: che cos’è la
comunicazione?

Una definizione di comunicazione


Un primo modo per cercare di rispondere alla nostra domanda è quello di
osservare una situazione comunicativa comune. Immaginiamo dunque
questa situazione: una persona parla con un’altra. Possono essere due
amiche, due fidanzati, o una madre che parla alla figlia, o il dirigente che
parla ad un impiegato. Il rapporto che c’è tra le persone che parlano è
fondamentale, come presto vedremo. Ammettiamo, per ora, che le due
persone che parlano siano due amici. Essi comunicano verbalmente,
prendendo la parola a turno. La persona che parla ha una intonazione della
voce che varia in base a quello che dice: può parlare a voce bassissima se
sta riferendo un pettegolezzo o arrivare a gridare se sta raccontando un
episodio che l’ha indignata. Anche la sua postura può variare. Può essere
immobile, o agitarsi e gesticolare in modo più o meno teatrale. Questo
dipende da diversi fattori: la personalità di chi parla, il contenuto della
comunicazione (se si tratta di qualcosa di emotivamente coinvolgente, è
Antonio Vigilante 6

più facile che si gesticoli) o dalla reazione dell’interlocutore. Quest’ultimo,


infatti, può reagire in diversi modi. Può ascoltare in modo attento o
distratto, può intervenire interrompendo l’altro, può manifestare noia ed
impazienza attraverso i gesti e la postura del proprio corpo, ad esempio
guardando spesso l’orologio o agitando una gamba.
Nella situazione che abbiamo immaginato, vi sono dunque le seguenti
cose: 1) un persona che parla, 2) ciò che dice attraverso le parole la persona
che parla, 3) ciò che dice attraverso i gesti la persona che parla, 4) una
persona che ascolta, 5) ciò che dice attraverso i gesti la persona che ascolta.
Possiamo dare un nome a ciascuno di questi punti, seguendo l’analisi fatta
dal linguista di origine russa Roman Jacobson nei suoi Saggi di linguistica
generale. La persona che parla si chiama mittente, chi ascolta si chiama
destinatario, ciò che l’emittente dice attraverso le parole è il messaggio
verbale, ciò che l’emittente e il destinatario si dicono attraverso i gesti e le
posizioni del corpo è il messaggio non verbale.
Se consideriamo la situazione con più attenzione, emergono altri aspetti. Il
messaggio inviato dal mittente al
destinatario dev’essere compreso da
quest’ultimo. La persona che ascolta compie
un lavoro di interpretazione del messaggio
ricevuto, cerca di capire il significato delle
parole, non solo in generale, ma anche
all’interno del loro contesto; analizza e
valuta i gesti, dandone una interpretazione
in rapporto al messaggio verbale (e,
Roman Jacobson viceversa, interpreta il messaggio verbale
anche in base ai gesti e alle posture); cerca
di dedurre il significato di eventuali parole non ben comprese o
sconosciute o prende atto di non aver compreso il messaggio, chiedendo
ulteriori informazioni. Tutto questo lavoro si chiama decodifica. La
situazione del destinatario non è diversa da chi si trova a decifrare un
messaggio in codice. Ogni messaggio, infatti, utilizza un codice, vale a dire
un sistema di segni cui è stato attribuito un particolare significato. Se il
destinatario deve operare una decodifica del messaggio, l’emittente può
comunicare solo attuando una codifica del suo messaggio, scegliendo cioè
con quale codice esprimersi e traducendo il suo messaggio nei segni di quel
codice. L’emittente può scegliere di esprimersi in un codice linguistico,
gestuale, artistico, rituale eccetera, a condizione però che esso sia condiviso
dal destinatario. È necessario, insomma, che i due interlocutori parlino la
stessa lingua e condividano una cornice di significati. Ciò non è sempre
garantito dall’uso di una stessa lingua nazionale, perché esistono anche i
codici settoriali che, benché formalmente rispettosi delle caratteristiche
7 Muntu / La comunicazione

della lingua nazionale, di fatto ritagliano un settore più ristretto di


significati, non intelligibili a chi non abbia una formazione culturale in
quel settore specifico.
Ogni comunicazione, inoltre, avviene attraverso un canale particolare. La
conversazione può avvenire faccia a faccia, o telefonicamente, per lettera,
via internet. Ognuno di questi canali è esposto a rischi di ricezione
imperfetta del messaggio, a causa di eventi disturbanti. Può succedere che
io non senta bene cosa mi sta dicendo la persona all’altro capo del telefono
perché c’è un’interferenza, o che non riesca a sentire bene nella confusione
di una discoteca o per il traffico stradale, o che abbia difficoltà a decifrare
la scrittura di chi mi ha mandato una lettera. Tutto ciò è il rumore.
Possiamo definire la comunicazione come il passaggio di un messaggio
codificato dall’emittente al destinatario attraverso un canale, in un
contesto preciso, e con la presenza di qualche forma di rumore.
Questo modello formale indica le caratteristiche generali di una
comunicazione, ma non dà conto della differenza, spesso enorme, tra le
varie situazioni comunicative concrete. Noi possiamo rivolgere un
messaggio ad un destinatario con finalità molto varie: possiamo chiedere
qualcosa, fare un rimprovero, domandare scusa, descrivere qualcosa. La
teoria di Jakobson si completa con la precisazione delle differenti funzioni
del linguaggio. Il linguista ne individua sei: funzione emotiva, persuasiva,
referenziale, fàtica, metalinguistica e poetica. La funzione emotiva è
centrata sul mittente, di cui esprime le emozioni e sensazioni, quella
persuasiva è orientata verso il destinatario, che si cerca di convincere a
fare o approvare qualcosa, quella referenziale dà informazioni su un fatto,
un oggetto, una situazione, quella fàtica ha la funzione di stabilire e
mantenere il contatto comunicativo, rimediando anche alle distorsioni
dovute al rumore («Mi stai ascoltando?», «Hai capito quello che ho
detto?»), la funzione metalinguistica ha come oggetto lo stesso codice, di
cui dà chiarimenti («velocemente è un avverbio», «Weltanschauung vuol
dire visione del mondo»), quella poetica, infine, pone in risalto il
messaggio in se stesso.

Il silenzio comunica
Consideriamo ora una situazione comunicativa piuttosto lontana da quella,
molto quotidiana, che abbiamo immaginato nel paragrafo precedente.
«Nei tempi antichi, durante una riunione sulla Montagna Spirituale, il
Buddha raccolse un fiore e lo mostrò alla folla. Rimasero tutti in silenzio,
tranne il santo Kashyapa, che sorrise. Il Buddha disse: 'Ho il tesoro
dell'occhio della verità, l'ineffabile mente del nirvana, il più sottile degli
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insegnamenti sull'assenza di forma della forma della realtà. Non può


essere espresso dalle parole, ma viene trasmesso in modo speciale al di
fuori della dottrina. Io lo affido a Kashyapa l'anziano»1.
Qui è il Buddha, una personalità eccezionale, che trasmette ai suoi
discepoli il punto fondamentale del suo insegnamento: quello che riguarda
la liberazione dell’uomo dalla sofferenza della vita (nirvana). Questa
comunicazione avviene, viene detto, in modo speciale, mostrando
semplicemente un fiore. Senza nemmeno una parola.
In altre circostanze, il Buddha rispondeva con il silenzio alle domande che
riteneva inopportune. Si chiama nobile silenzio, ed è anch’esso pieno di
significati. Restando in silenzio quando gli si rivolgevano domande
riguardanti questioni metafisiche, insegnava che i problemi di cui bisogna
preoccuparsi sono solo quelli che riguardano la nostra situazione
esistenziale, mentre tutte le altre sono inutili e dannose.
Abbiamo visto nel paragrafo precedente che la comunicazione può anche
essere non verbale. L’esempio del Buddha ci fa comprendere ora che
questa comunicazione non verbale non è necessariamente di supporto a
quella verbale (come i gesti che accompagnano le nostre parole), ma può
comunicare autonomamente; può, anzi, comunicare cose che le parole non
riuscirebbero a comunicare. Non solo. Lo stesso silenzio può comunicare.

Pragmatica della comunicazione


Le nostre parole comunicano, i nostri gesti comunicano, il nostro silenzio
comunica. Comunica, anche, il nostro modo di disporci spazialmente nei
confronti degli altri. Comunica il nostro modo di vestirci. In un certo
senso si può dire che realmente l’abito fa il monaco, perché vestendoci in
un certo modo scegliamo consapevolmente l’immagine di noi stessi da
offrire agli altri, decidiamo di rassicurarli, di spaventarli, di sedurli, di
suscitare rispetto.
Se è così, allora non c’è modo di non comunicare. Siamo condannati a
comunicare. È proprio questa una delle conclusioni cui sono giunti tre
studiosi del Mental Research Institute di Palo Alto, in California: Paul
Watzlawick, Janet Helmick Beavin e Don D. Jackson. In un libro
pubblicato nel 1967, che è diventato un classico della psicologia, questi
autori hanno studiato la pragmatica, ossia l’aspetto comportamentale,

1 Wumenguan, 6 (a cura di Th. Cleary, Mondadori, Milano 2002, p.55). Il


Wumenguan è una antica raccolta di koan, cioè di piccole storie che contengono
insegnamenti fondamentali appartenenti allo Zen, una corrente del Buddhismo diffusa in
Giappone.
9 Muntu / La comunicazione

della comunicazione umana, giungendo a fissare alcuni assiomi della


comunicazione.

Primo assioma

Il primo di questi assiomi è: non si può non


comunicare. Comunicare è un comportamento. I
comportamenti umani possono variare, ma non
possono mai lasciare il campo ad un non-
comportamento. Qualunque cosa l’uomo faccia, l’uomo
sta attuando un comportamento; e, dal momento che
ogni comportamento comunica qualcosa, ognuno di
Paul Watzlawick
noi comunica, qualunque cosa faccia. «L’uomo che
guarda fisso davanti a sé mentre fa colazione in una tavola calda, o il
passeggero d’aereo che siede con gli occhi chiusi, stanno entrambi
comunicando che non vogliono parlare con nessuno né vogliono che si
rivolga loro la parola, e i vicini di solito ‘afferrano il messaggio’ e
rispondono in modo adeguato lasciandoli in pace. Questo, ovviamente, è
proprio uno scambio di comunicazione nella stessa misura in cui lo è una
discussione animata»2.
Questa conclusione ha incontrato grande successo, ma anche diverse
critiche. Sicuramente chi resta in silenzio comunica e, come abbiamo visto
con l’esempio del Buddha, può comunicare anche qualcosa di
profondamente importante. Ma, in genere, non definiamo comunicativa
una persona molto silenziosa. Il suo silenzio comunica, ma comunica,
paradossalmente, l’intenzione di non comunicare. Una persona che
cercasse di chiarire i problemi con il proprio partner, e si trovasse di fronte
un muro di silenzio, ne dedurrebbe l’incomunicabilità e la necessità di
riconoscere la fine di quel rapporto. La persona che fa colazione alla tavola
calda senza guardare nessuno sicuramente comunica, ma si tratta di una
comunicazione che stronca sul nascere qualunque scambio con gli altri.
L’uomo trasmette un messaggio al quale corrisponde l’evitamento da parte
degli altri. Ugualmente, la persona che rifiuta il confronto provoca
l’allontanamento del partner. In tutti questi casi c’è un unico scambio
comunicativo che blocca tutti gli altri possibili scambi comunicativi. C’è
una comunicazione che tronca la possibilità di un’ulteriore comunicazione.
Ciò non avviene solo attraverso il silenzio. Risposte evasive,
monosillabiche, fatte con tono infastidito, o affermazioni imperative, a
voce alta, suscitano lo stesso effetto. Esse non trasmettono solo un

2P.Watzlawick-J.H.Beavin-D.D.Jackson, Pragmatica della comunicazione umana,


Astrolabio, Roma 1971, p.41.
Antonio Vigilante 10

contenuto, ma impongono anche un comportamento all’interlocutore.


Ugualmente, una risposta affettuosa, simpatica ad una semplice richiesta
di informazioni (sull’ora, ad esempio) contiene un invito all’interlocutore
ad approfondire la relazione. In altri termini, i nostri messaggi contengono
un secondo livello, una specie di messaggio nascosto, con il quale
cerchiamo di indurre gli altri ad assumere un determinato atteggiamento.

Secondo assioma

È quel che afferma il secondo assioma della pragmatica della


comunicazione: «Ogni comunicazione ha un aspetto di contenuto e un
aspetto di relazione in modo che il secondo classifica il primo ed è quindi
metacomunicazione»3. Detto in modo più semplice, ognuno di noi deve
interpretare i messaggi che provengono dagli altri, badando al tono, alla
gestualità, ad ogni aspetto che può incidere sul significato di quel
messaggio. Un «Tu sei proprio stupido» può assumere molti significati
diversi, a seconda che sia detto con un tono iroso, o ridendo, o facendo una
carezza. Il tono, la risata e la carezza comunicano dunque qualcosa sul
messaggio: per questo si tratta di metacomunicazione.
Il secondo assioma della pragmatica della comunicazione ci consente di
riconoscere alcune trappole della comunicazione quotidiana.
Frequentemente utilizziamo la discrepanza tra aspetto di contenuto ed
aspetto di relazione per spiazzare l’interlocutore, ricorrendo alla
metacomunicazione come copertura e giustificazione del messaggio
manifesto, o viceversa.

A: «Sei proprio uno stupido» (sorride, ma è un sorriso non pienamente


giustificato dal contesto).
B: «Come ti permetti?»
A: «Come sei permaloso. Stavo scherzando.»

In questo caso A ha utilizzato l’aspetto di relazione – leggero ed amichevole


– per mascherare e far passare un messaggio manifesto offensivo.
A: «Certo che hai fatto proprio un bel lavoro» (con un tono canzonatorio)
B: «Perché mi dici così? Ho fatto del mio meglio.»
A: «Ma sì, infatti ho detto che hai fatto un bel lavoro.»

In questo secondo caso il messaggio manifesto di A vale a coprire l’aspetto


di relazione, che è offensivo. In entrambi i casi A può esprimere critiche
verso B senza assumersene la responsabilità.

3 Ivi, p.46.
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Entrambe gli esempi riguardano situazioni comunicative che possono


sfociare in un litigio. Quando ciò accade, ognuno dei comunicanti cerca di
attribuire all’altro la causa dello scontro, individuandone l’origine in una
sua precisa affermazione o presa di posizione; l’altro si difenderà
sostenendo che la sua affermazione non era che una risposta ad una offesa
ricevuta in precedenza.

A: «Tu mi hai detto che sono uno stupido.»


B: «È vero, non lo nego. Ma tu prima avevi detto che sono una persona
superficiale.»
A: «Ti ho detto che sei superficiale perché mi hai offeso con le tue osservazioni sul
mio modo di vestire.»

Terzo assioma

La schermaglia tra A e B può andare avanti all’infinito. Cosa stanno


cercando di fare entrambi? Stanno cercando di individuare l’inizio di quel
particolare scambio comunicativo in modo tale da poterne dare una
interpretazione favorevole per sé. Detto con il linguaggio comune, si
stanno confrontando su chi ha cominciato per primo. Detto con il
linguaggio della Scuola di Palo Alto, ognuno dei due interlocutori cerca di
punteggiare le sequenze di comunicazione, ponendo il punto d’inizio in
un’affermazione dell’altro, in modo tale che le affermazioni proprie
risultino essere semplicemente delle risposte, delle reazioni comprensibili
e innocenti a provocazioni o altri comportamenti inaccettabili. Una
persona esterna, cui A o B raccontassero del loro litigio, avrebbe molta
difficoltà a farsene un’idea oggettiva. Se sarà A a raccontarglielo,
concluderà che A è stato ingiustamente offeso da B e si è giustamente
difeso; il contrario, se a raccontare il litigio sarà B. Lo scambio
comunicativo avrà un significato assolutamente differente (contrario) a
seconda che venga punteggiato da A o da B. È quello che indica il terzo
assioma della pragmatica della comunicazione: la natura di una relazione
dipende dalla punteggiatura delle sequenze di comunicazione tra i
comunicanti 4.

Quarto assioma

Abbiamo accennato precedentemente alla comunicazione non verbale. Di


che tipo di comunicazione si tratta? Come rientra nel quadro teorico
tracciato da questi assiomi? Essa si lega a quell’aspetto di relazione di una

4 Ivi, p.51.
Antonio Vigilante 12

comunicazione che il secondo assioma distingue dall’aspetto di contenuto.


In altri termini, i messaggi significativi sul piano della relazione sono
affidati soprattutto agli aspetti non verbali della comunicazione. E non è
difficile verificarlo. Se un uomo dicesse «ti amo» ad una donna,
mantenendo un’espressione imperturbabile, avrebbe poca possibilità di
essere creduto. Nel campo della relazione, le affermazioni hanno una
validità limitata. C’è un linguaggio del corpo, dei gesti, del volto che
esprime più liberamente e più sinceramente la verità sulla relazione.
Ma in cosa si differenziano una affermazione ed una carezza? Si tratta di
espressioni di due linguaggi differenti. La prima fa ricorso ad un sistema di
simboli, quale è appunto il linguaggio, per denotare un oggetto. Per
indicare un gatto, dico o scrivo la parola gatto, la quale però, essendo
semplicemente un insieme di lettere e di suoni, non ha nessun reale
legame con l’animale che indica. C’è un altro modo di indicare un gatto:
quello di disegnarlo. In questo caso c’è somiglianza tra il disegno e
l’oggetto indicato dal disegno. Nel primo caso io ho adoperato un modulo
numerico, nel secondo un modulo analogico. Quest’ultimo esprime
dunque una realtà ricorrendo ad una immagine o a una rappresentazione
fisica, tangibile. L’amore, l’affetto, la solidarietà vengono espressi con gesti
che esprimono immediatamente la situazione relazionale: carezzare la
guancia, toccare un braccio, guardare negli occhi. Questi gesti dicono i
sentimenti ed i rapporti umani in un modo infinitamente più diretto ed
efficace di qualsiasi parola. Hanno però dei limiti. Non è possibile,
attraverso il modulo analogico, comunicare cose complesse ed astratte –
ad esempio teoremi o idee filosofiche. Non è possibile fare con il modulo
analogico un discorso ipotetico («se… allora»), oppure riferirsi al passato o
al futuro. Il modulo analogico non conosce le distinzioni di tempo. Inoltre,
il modulo numerico è spesso ambiguo, ed è una ambiguità che complica
non poco i nostri rapporti con gli altri. Come fare per sapere se le lacrime
di una persona sono di gioia o di dolore? Come distinguere il rossore
dovuto alla timidezza da quello dovuto alla rabbia, o la freddezza dalla
timidezza?
Il modulo numerico e quello analogico hanno entrambi dei difetti, ed è per
questo che li integriamo l’uno con l’altro. Al modulo numerico manca la
capacità di esprimere efficacemente contenuti di relazione, a quello
analogico la capacità di esprimere messaggi astratti, complessi e non
ambigui. Detto con le parole del quarto assioma della pragmatica della
comunicazione, «gli esseri umani comunicano sia con il modulo numerico
che con quello analogico. Il linguaggio numerico ha una sintassi logica
assai complessa e di estrema efficacia ma manca di una semantica
adeguata nel settore della relazione, mentre il linguaggio analogico ha la
semantica ma non ha nessuna sintassi adeguata per definire in un modo
13 Muntu / La comunicazione

che non sia ambiguo la natura delle relazioni»5. Il modulo analogico


possiede unità di significato della relazione che mancano al modulo
numerico, ma non sa come mettere insieme queste unità in modo tale da
costruire un discorso che superi ogni ambiguità. È degno di rilievo anche il
fatto che gli autori della Scuola di Palo Alto accostano il modulo analogico
al processo primario di Freud e quello numerico al processo secondario.6
L’ambiguità del linguaggio analogico è la stessa ambiguità delle espressioni
dell’Es, che è al di qua delle leggi della logica. Il modulo analogico risulterà
così maggiormente presente nei bambini, nelle persone con ritardo
mentale o con disturbi della personalità, in tutti coloro che non hanno un
pensiero logico ben sviluppato. Questo non dovrebbe però indurre a
considerare inferiore il modulo analogico, poiché si tratta di una modalità
comunicativa fondamentale quando si tratta di saggiare la sincerità
dell’altro: «perché è facile dichiarare qualcosa verbalmente, ma è difficile
sostenere una bugia nel regno dell’analogico»7. Questa affermazione non è
in contrasto con la considerazione del carattere ambiguo del modulo
analogico, perché tale ambiguità si riferisce alla possibilità di interpretare
in modi opposti una stessa espressione analogica, non alla possibilità di
usare intenzionalmente il modulo analogico per ingannare. Si può piangere
di gioia o di dolore, ma sicuramente un «mi dispiace» accompagnato da
lacrime è considerato più sincero di un pentimento espresso in forma
esclusivamente verbale (numerica). Resta tuttavia possibile esprimere
intenzionalmente sentimenti falsi attraverso il modulo analogico; piangere,
ad esempio, finte lacrime di dolore. Si tratta di una possibilità che i teorici
della pragmatica della comunicazione sembrano ignorare, e che appare più
come una patologia della comunicazione che come una modalità corrente.

Quinto assioma

Un ultimo, importantissimo aspetto da considerare, è la posizione dei


comunicanti. Nella situazione che abbiamo immaginato, i due comunicanti
sono amici, e quindi si trovano sullo stesso piano. Non tutte le situazioni
comunicative seguono questo modello. Gli scambi comunicativi che
avvengono tra madre e figlia, tra docente e studente, tra dirigente ed
impiegato sono essenzialmente diversi. In uno scambio tra amici entrambi
hanno la possibilità di alzare la voce, ad esempio, o di reagire
scherzosamente alle affermazioni dell’altro; in uno scambio tra persone tra
le quali vi è un ordinamento gerarchico ciò non è possibile: vi sono cose
che sono consentire all’uno, e cose che sono consentite all’altro. Il dirigente
5 Ivi, p.57.
6 Ivi, p. 56, nota.
7 Ivi, pp.54-55.
Antonio Vigilante 14

può rimproverare l’impiegato, ma non è vero il contrario. La prima


situazione è simmetrica: il comportamento dell’uno rispecchia quello
dell’altro. Nel secondo caso abbiamo una situazione complementare,
poiché i comportamenti dei due comunicanti si completano l’un l’altro. Il
quinto assioma della pragmatica della comunicazione afferma dunque:
«Tutti gli scambi di comunicazione sono simmetrici o complementari, a
seconda che siano basati sull’uguaglianza o sulla differenza»8. La
superiorità di uno dei due comunicanti nell’interazione complementare
può essere il risultato dell’evoluzione della relazione tra i due (ad esempio
nel caso in cui un coniuge abbia raggiunto una forma di prevalenza
sull’altro) oppure essere legata al ruolo (la relazione tra docente e studente,
ad esempio). Nel primo caso, la normalità delle interazioni complementari
è la degenerazione di un rapporto che originariamente era simmetrico
(presumibilmente da fidanzati avevano un rapporto paritario). Con il
tempo, uno dei due è riuscito ad assumere una posizione dominante,
posizionando l’altro un gradino più in basso. Per approfondire la modalità
di questo posizionamento dell’altro nella comunicazione quotidiana
abbandoniamo un attimo la scuola di Palo Alto, per rivolgerci all’Analisi
Transazionale.

Comunicazione e stati dell’io


L’Analisi Transazionale è una corrente psicoterapeutica creata dallo
psicologo americano Eric Berne che distingue in ognuno di noi tre stati
dell’io: Genitore, Adulto e Bambino. Uno stato dell’io è un insieme
coerente di sentimenti, cui corrisponde un insieme di comportamenti. In
altri termini, noi abbiamo di volta in volta, nelle diverse situazioni della
nostra vita, sentimenti da bambino, da adulto e da genitore, e ci
comportiamo di conseguenza. Siamo nello stato dell’io Genitore quando ci
comportiamo come si sarebbero comportati i nostri genitori, dell’Adulto
quando valutiamo una situazione in modo oggettivo, affrontiamo
razionalmente i problemi e siamo concentrati sul qui ed ora, e del Bambino
quando, pur essendo adulti, reagiamo come avremmo fatto da bambini,
quando siamo creativi, spontanei, tesi al divertimento ed alla gioia9.

8 Ivi, p.60.
9 Per completezza, è bene specificare che l’Analisi Transazionale distingue
ulteriormente il Genitore in Genitore diretto e Genitore indiretto (il primo si ha quando ci
comportiamo imitando i nostri genitori e identificandoci con loro, il secondo quando ne
seguiamo gli insegnamenti) ed il Bambino in Bambino adattato e Bambino naturale (il
primo è il bambino che conforma il suo comportamento alle richieste dei genitori, il
secondo è il bambino libero).
15 Muntu / La comunicazione

La personalità di un uomo e di una donna si può rappresentare quindi con


il seguente diagramma strutturale (dove G sta per Genitore, A per Adulto e
B per Bambino).

Questo diagramma rende molto più complessa la considerazione della


situazione dalla quale siamo partiti (due persone che comunicano). La
comunicazione, infatti, non è più soltanto tra persone, ma tra stati dell’io.
Quando ci rivolgiamo a qualcuno, possiamo farlo trovandoci nello stato del
Genitore, dell’Adulto o del Bambino. Se chiedo una semplice informazione,
sono nello stato dell’Adulto, se faccio un rimprovero sono in quello del
Genitore, se propongo un gioco o mi lamento in quello del Bambino. Non
solo. Ogni nostra comunicazione – che nel linguaggio dell’Analisi
Transazionale si chiama stimolo transazionale – può essere rivolta al
Genitore, all’Adulto o al Bambino dell’altro. Nel momento in cui l’altro
risponde (la risposta si chiama reazione transazionale) possono succedere
due cose: a rispondere può essere lo stesso stato dell’io cui mi sono rivolto
con la mia domanda, oppure uno stato diverso. Se lo stato dell’io è lo
stesso, si parla di transazione complementare, semplificata dal diagramma
che segue:
Antonio Vigilante 16

Abbiamo qui uno stimolo transazionale da Genitore a Bambino cui


risponde una reazione transazionale da Bambino a Genitore; uno stimolo
transazionale da Adulto ad Adulto, cui risponde una reazione transazionale
da Adulto ad Adulto; uno stimolo transazionale da Bambino a Genitore, cui
risponde una reazione transazionale da Genitore a Bambino. Si tratta di
situazioni piuttosto comuni, nelle quali i comunicanti provano una
sensazione di soddisfazione ed armonia, perché c’è corrispondenza tra ciò
che l’uno chiede e ciò che l’altro offre. Questa situazione si chiama
transazione complementare, ed è una transazione (cioè uno scambio
comunicativo) che procede senza ostacoli, e si interrompe solo per
interventi esterni (ad esempio perché è tardi ed uno dei due comunicanti
deve andare, o perché interviene una terza persona).Diverso è il caso di
una transazione incrociata. Essa si ha quando ad uno stimolo
transazionale si risponde con una reazione trasazionale che non proviene
dallo stato dell’io cui era rivolto lo stimolo. Lo schema seguente mostra
una transazione incrociata.

Come si vede, in questo caso le linee non procedono parallele, ma si


incrociano. Una semplice richiesta da Adulto ad Adulto ha provocato una
risposta da Bambino a Genitore. Ad esempio, il soggetto A ha chiesto una
informazione, ed il soggetto B ha risposto come se quella domanda
contenesse una critica. Come si può intuire, queste transazioni sono molto
meno facili delle transazioni complementari. Se le prime procedono
virtualmente all’infinito, le transazioni incrociate rappresentano un
inciampo nella comunicazione, cui può seguire il silenzio oppure una
transazione complementare (nel caso dell’esempio, potrebbe seguire una
transazione complementare tra Genitore e Bambino). Questo genere di
transazioni abbondano nelle relazioni tra persone che non si comprendono
i cui scambi comunicativi lasciano una sensazione di fastidio, a volte anche
di rabbia. Un terzo, importante genere di transazione è la transazione
ulteriore. Nelle transazioni che abbiamo visto, interviene uno stato dell’io
alla volta; in quelle ulteriori, gli stati dell’io che intervengono sono due.
Queste transazioni, cioè, contengono un messaggio evidente ed un altro
17 Muntu / La comunicazione

nascosto, si rivolgono in modo palese ad uno stato dell’io ed in modo


occulto ad un altro. Semplifichiamo ancora con uno schema.

Qui abbiamo uno scambio comunicativo evidente tra Adulto ed Adulto, ed


uno scambio contemporaneo tra Adulto e Bambino. Eric Berne illustra
questa situazione con l’esempio di uno scambio di battute tra un
commesso ed una casalinga. Il commesso sa che per vendere il suo
aspirapolvere deve far leva sulla parte infantile della personalità delle sue
clienti (strategia ampiamente sfruttata dai pubblicitari, come vedremo).
Per questo mostra alla casalinga l’aspirapolvere più costoso, ed osserva:
«Questo sarebbe il migliore, ma lei non se lo può permettere».
Apparentemente, questa è una osservazione oggettiva: l’aspirapolvere
costa realmente molto, ed evidentemente la casalinga non mostra di essere
ricca. Si tratta di una transazione da Adulto ad Adulto. Ma l’osservazione
contiene anche una provocazione ed una sfida rivolta alla parte meno
razionale della casalinga, che infatti risponde: «E invece lo prendo»10.
Le transazioni ulteriori, che costituiscono la parte più intrigante dei nostri
scambi comunicativi, sono transazioni nelle quali l’aspetto di contenuto e
l’aspetto di relazione di una comunicazione, individuati dal secondo
assioma della pragmatica della comunicazione, si distinguono per il fatto di
essere indirizzati ad aspetti differenti della personalità dell’interlocutore.

La comunicazione malata
La parola comunicazione ha una etimologia che rimanda al rendere
comune ciò che si possiede. Se da una parte dunque comunicazione indica
una realtà cui non si può sfuggire – non si può non comunicare, abbiamo
visto – dall’altra il senso della parola è realizzato fino in fondo solo in una
realtà di compartecipazione e solidarietà, in cui più soggetti condividono

10 E. Berne, A che gioco giochiamo, Bompiani, Milano 2003, p.36.


Antonio Vigilante 18

conoscenza, sentimenti, progetti. Una tale realtà è possibile solo ove vi sia
la volontà, da parte dei soggetti, di rendere realmente comune ciò che si
possiede; occorre inoltre che si sia in grado di farlo, quando se ne abbia la
volontà. La mancanza di questi due aspetti (la volontà di comunicare e la
capacità di farlo in modo efficace) genera una comunicazione in cui manca
l’aspetto essenziale del rendere comune, sostituito da diffidenza,
incomprensione, ostilità. In questo caso si può parlare di comunicazione
malata.
Le patologie della comunicazione sono state studiate dalla Scuola di Palo
Alto in stretta relazione con gli assiomi della comunicazione: per ognuno
dei quattro assiomi esiste una forma particolare di patologia della
comunicazione. Il primo assioma afferma, come sappiamo, che non si può
non comunicare. Anche il silenzio comunica. A volte comunica anche
troppo, per cui si preferisce evitarlo, e scegliere una forma di
comunicazione verbale, anche se inadeguata.
Un uomo ha passato la sera con una donna. A notte fonda torna a casa,
dove la moglie lo attende agitata. Appena entra, gli chiede: «Tu mi
tradisci?». L’uomo ha tre possibilità. Può non rispondere alla domanda,
ma in questo modo alimenterebbe i sospetti della moglie, ed è come se
avesse risposto di sì. Può dirle la verità, comunicando in modo pieno
(rendendo comune, cioè, una verità per lei dolorosa). Oppure può scegliere
di eludere la domanda rispondendo in maniera evasiva o criptica. Ad
esempio può rispondere così: «Che cosa vuol dire tradire?». Oppure: «A
questo mondo tutti quanti tradiamo». L’uomo ha accettato di rispondere
alla domanda, ma senza accettare l’impegno di rendere comune ciò che si
possiede, che appartiene alla comunicazione. In questi casi, che sono
piuttosto frequenti, si ricorre a frasi generiche, oppure ad un linguaggio
che può essere interpretato in molti modi (quello che gli autori della Scuola
di Palo Alto chiamano schizofrenese), o ancora ci si può contraddire
sfacciatamente, si possono interpretare le affermazioni dell’interlocutore in
modo palesemente distorto: in altri termini, si cerca con ogni mezzo di
squalificare la comunicazione.
Una seconda patologia molto frequente, in relazione con il secondo
assioma della pragmatica della comunicazione, è la disconferma. Il
secondo assioma riconosce nella comunicazione un aspetto di contenuto ed
un aspetto di relazione. Quest’ultimo riguarda la nostra identità.
Comunicando, io propongo all’altro – al livello della relazione - una certa
immagine di me stesso. L’altro ha tre possibilità: la conferma, il rifiuto e la
disconferma.
Madre e figlia sono un negozio di abbigliamento. La figlia ha tredici anni
ed in famiglia è ancora considerata una bambina, mentre lei comincia a
percepirsi come una «adulta». Nel negozio la figlia vede un abito un po’
19 Muntu / La comunicazione

audace, certamente non infantile, e lo indica alla madre: «Mi compri


quello?» Questa richiesta contiene, al di là del contenuto, un messaggio
ben preciso a livello di relazione: «Io non sono più una bambina, ed è
giusto che cominci ad indossare abiti da grande». La madre può accettare
questa richiesta («Sì, penso che ti starebbe bene, lo prendiamo») e
l’immagine di sé che ad essa è legata («In fondo non sei più una
bambina»), o rifiutarla, mettendo in discussione l’immagine di sé proposta
dalla figlia («No, quel vestito non va bene per te, sei ancora troppo
piccola»), oppure può negare la legittimità stessa di quella richiesta: «Chi
sei tu per scegliere cosa comprare? Si compra quello che dico io».
La disconferma è un comportamento pericoloso, che ha conseguenze gravi
sulla salute psichica di chi si trova a subirla. Gli studi hanno messo in luce
il legame tra disconferma e schizofrenia, e ciò appare evidente se si
considera che un soggetto che subisca una costante disconferma non riceve
solo una negazione dell’immagine di sé («tu non sei così»), ma una
negazione di sé come fonte legittima delle proprie affermazioni («tu non
esisti»).
Le ricerche sulla comunicazione hanno consentito di mettere in luce un
altro fenomeno particolarmente importante nella genesi della schizofrenia:
il doppio legame. Per doppio legame si intende una forma di
comunicazione paradossale, vale a dire una situazione comunicativa
contraddittoria che non consente alcuna soluzione. Il doppio legame si
verifica in un contesto caratterizzato da relazioni interpersonali intense
(nella famiglia, in primo luogo) allorquando un soggetto dà un messaggio
che è intimamente contraddittorio, perché afferma qualcosa ed al
contempo afferma una cosa contraria riguardante la propria affermazione,
senza che il destinatario possa sottrarsi al dovere di reagire a quel
messaggio. Il classico esempio è quello dell'ingiunzione «sii spontaneo»:
per rispondere a questa ingiunzione bisognerebbe adeguarvisi, ma
adeguarsi all'ingiunzione di essere spontaneo significa agire secondo
quanto richiesto da un altro, e quindi non essere spontaneo. Situazioni
comunicative di questo genere possono capitare sporadicamente,
lasciandoci confusi ed irritati; quando diventano la norma delle relazioni
comunicative, quando il paradosso diventa abituale, il sistema diventa
schizofrenico. La malattia del sistema diviene evidente in uno dei suoi
membri, ma è tutto il sistema ad essere malato. Lo schizofrenico va visto,
in base a questa teoria, come il rappresentante di un sistema caratterizzato
da un modello comunicativo schizofrenico. La terapia, di conseguenza, non
può riguardare il singolo individuo, ma deve coinvolgere l'intero sistema,
principalmente la famiglia.
Una storia raccontata da Watzlawick in Istruzioni per rendersi infelici
mostra in modo efficace e divertente il fenomeno della profezia che si
Antonio Vigilante 20

autoavvera, che è la più frequente distorsione della punteggiatura delle


sequenze comunicative: «Un uomo vuole appendere un quadro. Ha il
chiodo, ma non il martello. Il vicino ne ha uno, così decide di andare da lui
e di farselo prestare. A questo punto gli sorge un dubbio: e se il mio vicino
non me lo vuole prestare? Già ieri mi ha salutato appena. Forse aveva
fretta, ma forse la fretta era soltanto un pretesto ed egli ce l'ha con me. E
perché? Io non gli ho fatto nulla, è lui che si è messo in testa qualcosa. Se
qualcuno mi chiedesse un utensile, io glielo darei subito. E perché lui no?
Come si può rifiutare al prossimo un così semplice piacere? Gente così
rovina l'esistenza agli altri. E per giunta si immagina che io abbia bisogno
di lui, solo perché possiede un martello. Adesso basta! E così si precipita di
là, suona, il vicino apre, e prima ancora che questi abbia il tempo di dire
'Buon giorno', gli grida: 'Si tenga pure il suo martello, villano!'»11 Tutti noi
tendiamo a punteggiare a nostro favore le sequenze degli scambi
comunicativi cui abbiamo preso parte, in modo tale da far apparire le
nostre affermazioni (o insulti) come risposta a quelle altrui, ignorando o
fingendo di ignorare la circolarità della comunicazione. Nelle profezie che
si autoavverano questa punteggiatura avviene con sequenze comunicative
non reali, ma solo possibili. Io interpreto la mia affermazione come
risposta ad una possibile, ma certa, affermazione altrui. Purtroppo gli
esempi di questa patologia della comunicazione non sono sempre innocui o
divertenti come quello dell'uomo del martello. È proprio questo
meccanismo, ricordano gli autori di Palo Alto, che scatena a livello
mondiale la corsa agli armamenti. Lo stato A afferma di aver bisogno si
armi sofisticate perché altrimenti lo stato B lo aggredirà. Lo stato B
affermerà di ricorrere agli armamenti perché lo stato A si sta armando per
scopi evidentemente aggressivi.
C'è un'altra condizione che favorisce questa competizione tra nazioni o
individui. Quando le relazioni sono simmetriche, c'è la tendenza di ognuno
dei due comunicanti a prendere il sopravvento sull'altro, uscendo dalla
situazione di uguaglianza per stabilirne una di dominio. L' escalation
simmetrica è la patologia delle relazioni simmetriche. Anche le relazioni
complementari hanno il loro risvolto patologico, che è più importante per
la nascita di vere e proprie patologie psicologiche. In una relazione
complementare c'è chi è in una posizione di dominio e chi in una posizione
di inferiorità. In alcuni casi questa complementarità può essere
particolarmente rigida e mostrarsi come una vera e propria follia a due, in
cui la persona che occupa la posizione inferiore vive un senso di
frustrazione costante, perché la sua identità viene disconfermata, e tuttavia
non riesce, per una sorta di accordo perverso, ad uscire da quella

11 P. Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici (1983), Feltrinelli, Milano 1991, p. 29.
21 Muntu / La comunicazione

situazione relazionale. È il caso di alcune famiglie in cui i figli (spesso figli


unici) sono costretti anche in età adulta in uno stato di costante minorità
psicologica; è anche il caso del sadomasochismo, in cui la crudeltà di un
partner si amalgama con la sottomissione e l'umiliazione volontaria
dell'altro.
Come impresa rischiosa, la comunicazione può fallire o bloccarsi. Non
sempre però ad essa segue il silenzio. A interrompersi è la comunicazione
nel modulo numerico: il parlarsi. In genere però si continua a comunicare
con l'altro modulo, quello analogico, il linguaggio dei gesti, dei simboli, dei
rituali. Dopo un litigio il marito può far recapitare alla moglie dei fiori o
azzardare una carezza. Ma il modulo analogico ha, come abbiamo visto, dei
limiti ben precisi: non è possibile dire tutto e, soprattutto, non è possibile
comunicare in modo non ambiguo. Quando si comunica con il modulo
analogico si può verificare quindi una ulteriore patologia della
comunicazione, nel momento in cui si sbaglia a tradurre il materiale
analogico. Delle lacrime di rabbia, dopo un litigio dovuto ad accuse
infondate, possono essere scambiate per lacrime dovute al senso di colpa, e
quindi interpretate come una ammissione della colpa. In realtà, quando
comunichiamo nel modulo analogico non facciamo affermazioni, ma
invochiamo una relazione, facciamo proposte, domande, minacce che
riguardano il nostro rapporto futuro con la persona cui ci rivolgiamo.

Palcoscenico e retroscena
A meno che non ci troviamo in un paese di cui non conosciamo la lingua,
non è difficile per noi chiedere un'informazione ad uno sconosciuto.
Rispondere ad un saluto è per noi un atto quasi automatico: sappiamo
quali sono le espressioni verbali e non verbali da impiegare con quella
determinata persona; sappiamo che possiamo salutare un amico con un
familiare «ciao», mentre per una persona con cui abbiamo relazioni più
formali è preferibile un «arrivederci». Quando siamo in treno, sappiamo di
non poter attaccare discorso con chi ci sta di fronte senza qualche fondato
pretesto, se non vogliamo apparire poco educati.
Tutte queste cose, che ci sembrano assolutamente naturali, comportano in
realtà un complesso sistema di regolazione dei nostri rapporti
interpersonali. Per quanto possa sembrarci spontanea, una semplice
conversazione segue in realtà una serie di regole ben precise, il cui mancato
rispetto provoca conseguenze vistose. Agli inizi del Novecento il sociologo
Gabriel Tarde auspicava la creazione di una vera e propria «conversazione
Antonio Vigilante 22

comparata»12, che confrontasse i modi di conversare nelle diverse culture.


Da allora, molti progressi sono stati fatti nella comprensione
dell'interazione umana e delle relazioni interpersonali.
Nei nostri rapporti con gli altri siamo guidati da una fondamentale fiducia
nel prossimo. Quando chiediamo un'informazione siamo certi che la
persona interpellata farà di tutto per aiutarci, quando conversiamo siamo
certi che il nostro interlocutore non se ne andrà bruscamente, quando
salutiamo diamo per certo che l'altro risponderà al saluto. Su cosa si basa
questa fiducia? Se l'altro fosse assolutamente libero di comportarsi come
gli pare, probabilmente questa fiducia non sarebbe possibile. A chiunque
sarebbe concesso di piantare di stucco l'interlocutore durante una
conversazione e di andarsene. Ma questo succede raramente. La nostra
fiducia si basa dunque sul fatto che gli altri nella vita quotidiana sono
attori che seguono un copione con margini di improvvisazione limitati e
con la necessità di ottenere il gradimento del pubblico. Questa metafora
teatrale è stata impiegata dal sociologo Erving Goffman nel volume La vita
quotidiana come rappresentazione (The Presentation of Self in Everiday
Life, 1959). Secondo Goffman, quando siamo in presenza di uno o più
osservatori cerchiamo di trasmettere loro le impressioni che preferiamo,
mettiamo in scena una rappresentazione, impiegando una serie di tecniche
di controllo delle impressioni che la sociologia ha il compito di studiare. In
modo intenzionale o non intenzionale, noi costruiamo sempre una facciata.
Se vogliamo ingannare qualcuno, dobbiamo fare attenzione a presentarci
in modo da apparire come persone affidabili, trovare un tono adatto,
vestirci secondo i canoni correnti di abbigliamento rispettabile. Anche
quando siamo sinceri, però, facciamo ricorso a mezzi espressivi che
facciano comprendere che stiamo dicendo la verità; costruiamo cioè una
facciata.
Noi siamo sempre immersi nella comunicazione con gli altri, ma non in
tutte le situazioni si tratta dello stesso tipo di comunicazione. Aspettando
un autobus, noi prendiamo atto della presenza degli altri e comunichiamo
loro questa presa d'atto. Lo facciamo ricorrendo a forme di comunicazione
non verbale: principalmente uno sguardo sfuggente, con il quale è come se
dicessimo «so che ci sei, ma non ti darò disturbo». È il tipo di sguardo che
le persone che non si conoscono si scambiano quando sono costrette a
stare insieme in uno spazio ristretto. Questa è per Goffman l' interazione
non focalizzata, caratterizzata dalla disattenzione civile (espressione
contraddittoria per dire che non facciamo attenzione agli altri pur essendo
consapevoli della loro presenza).

12G. Tarde, L'opinion et la foule (1901), Les Presses Universitaires de France, Paris
1989, prefazione.
23 Muntu / La comunicazione

Se alla fermata dell'autobus chiediamo a qualcuno a che ora passerà il


prossimo autobus, passiamo da una interazione non focalizzata ad una
interazione focalizzata. Possiamo così abbandonare la disattenzione civile e
guardare il nostro interlocutore, anche se ci sono proibite molte altre cose:
non possiamo dargli del tu, non possiamo avvicinarci troppo, non
possiamo toccarlo; o meglio, non possiamo fare queste cose senza
incorrere nella disapprovazione sua e di chi si trovasse ad assistere alla
scena. Se ci capita di toccare inavvertitamente il corpo di qualcuno che non
conosciamo, generalmente ce ne scusiamo. Insomma, nelle nostre
interazioni sociali seguiamo un vero e proprio rituale. L'altro, nota
Goffman, è paragonabile ad un oggetto sacro, che si può maneggiare solo a
condizione di prendere una serie di precauzioni rituali, che sono appunto
tutte le nostre regole di cortesia, le buone maniere, le norme non scritte
sulla distanza personale, e così via. Poiché i rapporti umani sono reciproci,
non soltanto gli altri sono sacri per noi, ma anche noi siamo sacri per gli
altri. Nello scambio con l'altro, emergono quindi degli individui dotati di
una identità forte, sacrale, intangibile. In questo senso, si può dire che la
nostra identità non è soltanto condizionata dalla società, ma nasce
realmente all'interno dell'ordine cerimoniale delle interazioni sociali.
L'interazione umana, dunque, è simile ad una
rappresentazione teatrale e ad un sistema
cerimoniale. La vita di un teatro, però, non si
svolge tutta sulla scena. Per Goffman, noi
disponiamo di un retroscena, nel quale
possiamo allentare la tensione che ci procura il
fatto di dover recitare sul nostro palcoscenico
quotidiano. Nel retroscena siamo molto più
liberi, ci concediamo cose di cui ci
vergogneremmo in pubblico, come
«cantarellare, fischiare, masticare, rosicchiare,
ruttare e avere flatulenze»13. Questo spazio
privato e libero può essere assolutamente
individuale, ma può anche essere condiviso Erving Goffman
con altri. È il caso del mondo del lavoro. Dei
commessi sono tenuti ad essere gentili e disponibili con i clienti, anche con
quelli intrattabili; nei momenti in cui i clienti non sono presenti, sono
liberi di sfogarsi, riempendoli di insulti o facendone la caricatura. Goffman
riscontrò un atteggiamento simile nei camerieri di un hotel delle isole
Shetland, ma è diffuso in tutti i settori lavorativi ed in tutti i gruppi umani.

13 E. Goffman, La vita quotidiana come rappresentazione (1959), Il Mulino, Bologna


1969.
Antonio Vigilante 24

Breaching experiments
Abbiamo detto che nell'interazione con gli altri siamo guidati da una
fiducia assolutamente naturale sulla possibilità di prevedere le loro
reazioni. Ma che succede quando l'altro non rispetta le nostre aspettative?
Quale è la reazione di un uomo che all'improvviso si trova in una
situazione comunicativa assolutamente imprevedibile, non rituale? È
quello che si è chiesto Harold Garfinkel, fondatore dell' etnometodologia,
una scuola sociologica che intende studiare i metodi usati dalla gente per
dare significato alle loro azioni quotidiane, in modo che esse appaiano
naturali, scontate, non problematiche. Per rispondere, ha escogitato quelli
che forse sono gli esperiementi più singolari della storia della sociologia: i
breaching experiments (esperimenti di rottura). In questi esperimenti, lo
sperimentatore viola sistematicamente le aspettative caratteristiche delle
interazioni quotidiane, allo scopo di metterne in rilievo l'importanza e di
misurare le conseguenze della loro violazione.
Durante la comunicazione, i soggetti giungono a
comprendersi perché operano istintivamente
alcune semplificazioni. Ogni comunicante, infatti,
presuppone che il proprio punto di vista e quello
dell'altro corrispondano (idealizzazione della
interscambiabilità dei punti di vista) e che le
differenze personali siano insignificanti, in modo
da poter parlare dando per scontato che l'altro
comprenda anche ciò che non viene spiegato
espressamente (idealizzazione della congruenza
del sistema di attribuzione di rilevanza).
Quest'ultima certezza viene distrutta, nei Harold Garfinkel
breaching experiments, facendo domande con le
quali si chiedono spiegazioni su ciò che dovrebbe essere scontato. Ecco un
esempio di esperimento (So sta per Soggetto, Sp per Sperimentatore):

(So) «Ciao Ray, come sta la tua ragazza?»


(Sp) «Cosa vuoi dire con 'come sta'?. Vuoi dire fisicamente o mentalmente?».
(So) «Voglio dire come si sente. Che cosa ti prende?»
(Sembrava risentito)
(Sp) «Niente. Semplicemente vuoi spiegare un po' meglio quello che intendi dire?»
(So) «Lascia perdere... Come va con le domande di iscrizione alla Facoltà di
medicina?»
(Sp) «Che cosa vuol dire con 'come va'?».
(So) «Tu sai cosa intendo».
(Sp) «No. Veramente non capisco».
25 Muntu / La comunicazione

(So) «Cosa ti prende, non ti senti bene?».14

In altri esperimenti viene violata l'interscambiabilità dei punti di vista, vale


a dire la convinzione che gli altri, se fossero al nostro posto,
interpreterebbero quello che sta succedendo come facciamo noi. In questo
caso l'esperimento consisteva nell'entrare in un negozio, individuare un
cliente qualsiasi e cominciare a trattarlo come un commesso, restando
indifferenti alle sue proteste. Il cliente veniva disorientato dal fatto di non
riuscire a far assumere all'interlocutore il suo punto di vista. Ma
l'esperimento più significativo, e dalle conseguenze più gravi, era quello
con il quale si violava l'aspettativa di inserire il singolo evento in un ordine
sociale già stabilito e convidiso da tutti. Ognuno di noi sa che in certi
ambienti – a casa, a scuola, in discoteca – avvengono certe cose, sono
previste certe azioni e non altre, si parla di certi argomenti e lo si fa con un
certo tono. L'esperimento ideato da Garfinkel consisteva semplicemente
nel chiedere ai suoi studenti di comportarsi a casa dei loro genitori come se
fossero degli ospiti di una pensione, e ciò per un periodo di tempo variabile
dai quindici minuti ad un'ora. «I resoconti degli studenti – scrive Garfinkel
– erano pieni di espressioni di stupore, sconcerto, shok, ansia, imbarazzo e
collera, e di accuse che lo studente era meschino, gretto, sconsiderato,
egoista, villano e scortese. I membri delle famiglie esigevano spiegazioni
(...) Una madre, infuriata perché sua figlia le parlava solo quando veniva
interrogata, cominciò ad urlare accusandola di mancanza di rispetto e di
insubordinazione, e si rifiutò di essere calmata dall'altra figlia»15. Questi
esperimenti finivano in qualche caso con una vera e propria esasperazione
delle famiglie, che si allarmavano per la stranezza del comportamento dei
figli. Queste reazioni sono assolutamente comprensibili, se si considera
appunto l'importanza di uno schema condiviso di comunicazione nelle
nostre interazioni. Ogni interruzione delle aspettative crea un piccolo shok,
al quale si cerca di sottrarsi interpretando la situazione come uno scherzo.
In effetti, gli esperimenti di Garfinkel hanno le stesse caratteristiche
formali degli scherzi e della candid camera. Da essi possiamo apprendere
che le reazioni che la gente ha agli scherzi, soprattutto a quelli ben
congegnati – reazioni che vanno dall'angoscia alla rabbia, dal senso di
smarrimento alla indignazione – oltre ad essere motivo di riso, possono
insegnarci molto sulla rigidità dei meccanismi che regolano le nostre
interazioni comunicative.

14 H. Garfinkel, La fiducia. Una risorsa per coordinare l'interazione, Armando,


Roma 2004, pp. 101-102.
15 Ivi, p. 111.
Antonio Vigilante 26

Speaking
La comunicazione è un fenomeno universale, ma il modo concreto in cui si
realizza, le forme che assume, le modalità dello scambio sono strettamente
legati al tipo di società e di cultura in cui avviene. Il modo in cui i figli
parlano ai genitori nel nostro sistema socio-culturale è diverso da quello di
un paese orientale o anche da ciò che avveniva da noi cento anni fa. Alcune
situazioni comunicative sono presenti solo in alcune società. La
conversazione telefonica, ad esempio, esiste solo nelle società
tecnologicamente avanzate, in cui il telefono è entrato nella vita
quotidiana. In queste società si è sviluppato un modello di comunicazione
telefonica, che rende l'atto di parlare al telefono assolutamente
automatico: ognuno sa come si risponde al telefono, quali formule si
usano, come si mette l'interlocutore in attesa, come si chiude una
telefonata (cambiando procedura a seconda dell'interlocutore: la
conclusione di una telefonata di lavoro è diversa dalla conclusione di una
telefonata con il partner). La televisione ha modalità comunicative proprie.
Nel talk show, ad esempio, le persone comunicano in un modo e spesso
con una agitazione che raramente si trovano al di fuori del contesto
televisivo. Nei format televisivi più recenti compaiono persone che
affrontano in televisione i propri problemi familiari o sentimentali. Non
occorre molto acume per accorgersi che si tratta di comunicazioni non
molto spontanee, che si adeguano ad uno standard che non tollera
imprevisti.
Nelle nostre culture i tipi di comunicazione socialmente stabiliti (la
telefonata, la conversazione tra amici, con i genitori, con i colleghi e i
superiori eccetera) si svolgono generalmente nel rispetto reciproco degli
interlocutori e in un clima di cordialità. In altre culture il rispetto dell'altro
è ulteriormente enfatizzato. In Giappone, ad esempio, è importante l'uso
dei pronomi personali. Tu in giapponese si può dire anata, kimi oppure o
mae. La prima forma è quella regolarmente usata, e corrisponde al nostro
Lei, mentre le altre due forme vanno usate solo in circostanze particolari:
kimi può essere usato solo tra ragazzi (non ragazze), mentre o mae può
essere usato solo rivolgendosi ad una persona che sia in qualche modo in
situazione di inferiorità. In ogni altro caso risulta offensivo. Al contrario, vi
sono società in cui sono presenti forme di comunicazione caratterizzate da
una notevole aggressività ed informalità. In quella messicana esiste l'
albur, uno scambio verbale molto vivace, caratterizzato da allusioni e
doppi sensi a carattere sessuale. Forme simili si trovano nelle culture
mediterranee ed africana. Si può dire che alcune culture hanno sviluppato
in modo anche piuttosto raffinato l'arte di prendere in giro il prossimo
27 Muntu / La comunicazione

senza realmente offenderlo, inventando delle situazioni comunicative


leggere e divertenti con le quali liberarsi momentaneamente dalla fatica di
prendersi e prendere l'altro sul serio.
L' etnografia della comunicazione studia le forme assunte dalla
comunicazione nelle diverse etnie e culture. Uno strumento importante per
lo studio della comunicazione in un contesto culturale è il modello
SPEAKING elaborato dal sociolinguista Dell Hymes e che costituisce una
revisione del modello di Jakobson. Questo modello individua le
componenti universali di ogni forma di comunicazione, facendole rientrare
in otto categorie. SPEAKING è un acronimo formato dalle iniziali di
situation, participants, ends, act sequences, key, instrumentalities, norms
e genres. Vediamo queste componenti una per una.
La situazione (situation). Ogni comunicazione avviene in una situazione
ben precisa. Questa situazione non va intesa solo come contesto fisico, ma
anche come contesto psicologico. Uno stesso ambiente fisico può essere
caratterizzato in momenti diversi da un clima psicologico diverso. Il salotto
di casa è un contesto diverso, dal punto di vista psicologico, quando è
l'ambiente in cui si svolge il rituale della presentazione ai genitori del
fidanzato o una discussione che prelude alla separazione dei genitori.
I partecipanti (partecipants). Ogni comunicazione, come sappiamo già dal
modello di Jakobson, ha un emittente ed un destinatario, che
normalmente si alternano i ruoli (il destinatario interviene a sua volta,
diventando mittente). Il modello di Hymes però distingue l'ascoltatore
(hearer) dal destinatario vero e proprio (addressee), perché spesso
succede che colui al quale ci rivolgiamo non sia il vero detinatario del
nostro messaggio. In Italia c'è il detto «parlare alla nuora perché suocera
intenda», e spesso in effetti succede di mandare messaggi obliqui,
soprattutto quando i nostri rapporti con il reale destinatario del nostro
messaggio è qualcuno con cui non abbiamo buoni rapporti, per cui un
messaggio diretto potrebbe provocare una lite. È anche degno di
considerazione il fatto che il destinatario può essere anche assente. Questo
consente di comprendere forme di comunicazione appartenenti alla sfera
del sacro e del magico: la preghiera, la messa, la comunicazione con gli
spiriti.
I fini (ends). Chi comunica lo fa perseguendo uno scopo (goal), che però
può essere spesso molto diverso dal risultato effettivamente raggiunto
(outcome). Il docente che tiene la sua lezione è mosso dallo scopo di
trasmettere agli studenti delle informazioni, ma spesso il risultato effettivo
che ottiene è di annoiarli. Dal canto suo, lo studente che chiede spiegazioni
su ciò che non ha capito persegue lo scopo di comprendere meglio
l'argomento della lezione, ma può raggiungere il risultato di irritare il
docente. Il linguista George Yule ha operato una ulteriore distinzione tra
Antonio Vigilante 28

fini transazionali e fini interazionali. Quando cerchiamo di trasmettere


informazioni perseguiamo un fine transazionale, quando cerchiamo di fare
amicizia o al contrario di litigare perseguiamo un fine interazionale. Questa
distinzione richiama quella tra aspetto di contenuto ed aspetto di relazione
di una comunicazione, che già conosciamo.
Le sequenze d'azione (act sequences). Ogni comunicazione attraversa varie
sequenze, che rappresentano la sua strutturazione nel tempo. Una
conversazione telefonica comincia con la formula del «pronto» da parte di
chi risponde, prosegue con la presentazione da parte di chi chiama, quindi
con la spiegazione del motivo della chiamata seguita da comunicazioni e
digressioni varie; si conclude con le formule di saluto.
La chiave (key) è assolutamente fondamentale per la comprensione di un
messaggio. Una identica affermazione può avere due significati del tutto
opposti, può essere un'offesa se detta con un tono duro e con
un'espressione accigliata, mentre può suscitare il sorriso se detta in un
contesto leggero e con tono scherzoso. La chiave è dunque il senso della
comunicazione, per comprendere il quale è importante fare attenzione ai
segnali non verbali, quali il tono, la postura, l'espressione del viso.
Gli strumenti (instrumentals). Per comunicare in genere adoperiamo la
lingua ed i gesti. Entrambi sono canali (channels) di comunicazione.
Anche l'uso del canale linguistico, però, può variare. Sul lavoro e nelle
situazioni formali si adopera usualmente la lingua nazionale, mentre in
famiglia o tra amici può succedere di far ricorso al dialetto. Oltre ai canali
esistono dunque diverse forme di parlata (forms of speech).
Le norme (norms). Ogni forma di comunicazione è regolata da norme, che
possono essere esplicite o tacite. In Parlamento i deputati hanno un tempo
limitato per illustrare le loro interrogazioni ad un Ministro, superato il
quale vengono invitati a concludere. Nelle famiglie di un tempo i figli si
rivolgevano ai genitori dando loro del voi, ed era considerata una grave
mancanza di rispetto da parte dei figli prendere la parola senza essere stati
invitati a farlo. Ancora oggi esistono regole più o meno restrittive che
riguardano la comunicazione tra genitori e figli. Anche nelle conversazioni
più informali – quelle più libere – si segue almeno la norma tacita di non
interrompere l'altro o di non sovrapporsi, ed ogni violazione suscita
irritazione (nel caso del litigio le cose vanno diversamente, perché la
sovrapposizione diviene la norma; ciò conferma il carattere ostile della
sovrapposizione verbale).
I generi (genres). In letteratura esistono i generi letterari: la satira, la
commedia, la tragedia, l'epica eccetera. La stessa cosa accade in ogni
comunicazione. Il rimprovero del padre al figlio rientra in un genere
diverso dal racconto di una barzelletta o di un aneddoto divertente. I
generi naturalmente variano socialmente e culturalmente. In certi
29 Muntu / La comunicazione

ambienti è assolutamente inammissibile il racconto di barzellette sconce,


come in altri sono poco praticati il genere della lezione o della conferenza.

La comunicazione non verbale


Abbiamo accennato più volte alla comunicazione non verbale, vale a dire al
linguaggio del corpo legato alla gestualità, alla postura, al tono della voce,
alle espressioni del viso. Non si tratta di una forma di comunicazione
secondaria e in qualche modo accessoria. In realtà, dalla comunicazione
non verbale traiamo una quantità di informazioni ed indicazioni
addirittura superiore a quelle della comunicazione verbale; parliamo, cioè,
principalmente attraverso il corpo, e questa è una cosa positiva, perché la
comunicazione non verbale è tendenzialmente più sincera, anche se, come
vedremo, non esclude la possibilità della simulazione.
Una prima importante forma di comunicazione non verbale è la posizione
stessa del corpo di colui che comunica, che viene studiata dalla
prossemica. La posizione dei corpi delle persone che comunicano non è
mai casuale: dipende da una parte dalla relazione che esiste tra loro e
dall'altra da regole culturali condivise. Esiste una specie di zona protetta
intorno ad ognuno di noi – il cosiddetto uovo prossemico - che nessuno
può invadere se non viene autorizzato da noi. Chi ci parla può quindi
avvicinarsi fino ad un certo punto; se va oltre, proviamo una sensazione di
fastidio, a meno che non si tratti di qualcuno con cui abbiamo una
familiarità notevole. Poiché questa zona protetta è più estesa davanti a noi
che lateralmente, avvertiamo meno il fastidio se qualcuno ci si avvicina di
lato. Esiste una zona intima (che si estende quanto il nostro avambraccio)
in cui consentiamo di accedere solo alle persone con le quali abbiamo
maggiore familiarità, mentre generalmente la nostra conversazione
avviene a distanza di un braccio con l'interlocutore (zona personale).
Quando due zone personali entrano in contatto senza compenetrarsi, sì che
la distanza tra le due persone sia pari a due braccia tese, si parla di zona
sociale, mentre ad una distanza maggiore si parla di zona pubblica,
propria delle comunicazioni pubbliche senza vero contatto personale
(conferenze, comizi ecc.).
La distanza tra le persone che parlano varia secondo il contesto culturale.
Nell'Italia meridionale è normale che degli uomini passeggino a braccetto,
mentre nei paesi nordici ciò sarebbe considerato indice di omosessualità.
In tutti i paesi mediterranei la distanza interpersonale è piuttosto limitata,
mentre nei paesi arabi è frequente il contatto fisico.
Importante fonte di informazioni è anche la postura del corpo. Mentre
qualcuno ci parla, possiamo tenere il busto curvato in avanti oppure dritto.
Antonio Vigilante 30

Nel primo caso è evidente che siamo interessati a quello che ascoltiamo,
mentre nel secondo caso mostriamo una certa freddezza. Una postura
eretta con le braccia conserte, in genere, esprime indifferenza, se non
ostilità. È piuttosto facile avvertire l'imbarazzo di un ospite dal modo in cui
è seduto, se non si appoggia allo schienale della sedia e tutto il suo corpo
sembra pronto ad alzarsi e andar via. Un ospite rilassato invece si
abbandona letteralmente sulla sedia o sulla poltrona, lasciando andare le
braccia e incrociando i piedi.
Notevole è anche l'importanza del volto. Siamo convinti che il volto non
menta, e per questo esigiamo che chi vuol dirci qualcosa di importante per
noi lo faccia guardandoci in faccia. Una persona che tenga spesso il volto
abbassato ci sembra timido, incapace di sostenere lo sguardo altrui, ma in
qualche modo ci irrita anche, perché ci impedisce di leggergli in viso le
emozioni che prova; così come ci irritano quelle persone che hanno un viso
poco espressivo, che tacciamo di freddezza ed insensibilità.
Entro certi limiti, le espressioni del viso sono universali. Ovunque gli
uomini e le donne ridono e sorridono, piangono, esprimono tristezza,
rabbia, piacere. Universali sono anche l' apertura e la chiusura del viso. Il
viso aperto è caratterizzato dall'innalzamento delle sopracciglia e
dall'apertura della bocca ed esprime sorpresa e felicità mentre quello
chiuso, in cui gli occhi e le labbra sono serrati, indica disgusto e fastidio
per qualche situazione spiacevole. Esistono però anche variabili culturali
nell'espressione delle emozioni attraverso la mimica facciale. Benché il riso
sia universale, la sua frequenza varia nei diversi popoli: in alcuni, come
quelli mediterranei, è frequente il riso aperto, rumoroso, mentre in altri è
più diffuso il riso soffocato. Esistono inoltre mimiche che appartengono
solo ad alcuni popoli. Una molto singolare è stata studiata da Eibl-
Eiblesfeldt presso gli Eipo della Nuova Guinea, che quando provano una
emozione fortemente piacevole si coprono il capo con entrambe le mani,
come se si trovassero in pericolo. La mimica è stata interpretata piuttosto
facilmente da Eibl-Eibesfeldt: quando una cosa suscita il loro entusiasmo,
gli Eipo dicono che «fa paura»; di conseguenza esprimono l'emozione con
la reazione che si potrebbe avere di fronte a qualcosa di realmente
pericoloso. (È il caso di notare che il riferimento alla paura di fronte a
situazioni emozionanti si trova anche da noi nel linguaggio giovanile,
anche se non accompagnata da una mimica corrispondente. «Fa paura»,
«è da paura» sono espressioni correnti per indicare qualcosa di
sorprendente.)
La convinzione che le espressioni del volto siano sempre sincere non è del
tutto esatta. È possibile mentire e simulare anche con la mimica facciale,
benché sia estremamente più facile mentire con le parole. Entro certi
limiti, la menzogna espressa attraverso la mimica facciale è parte
31 Muntu / La comunicazione

integrante della vita sociale. In moltissime situazioni succede di dover


mostrare sentimenti positivi anche se si provano sensazioni sgradevoli:
capita così di adottare un sorriso di circostanza, che difficilmente appare
come un sorriso naturale e spontaneo, ma che è comunque preferibile ad
un'espressione tesa o triste. Il personaggi televisivi sono dei maestri in
questa simulazione, dovendo esprimere una costante felicità che rassicura
il telespettatore e gli trasmette buon umore.
Fortunatamente, è anche possibile scoprire la falsità di un'espressione del
viso. Lo psicologo Paul Ekman indica alcuni indizi per smascherare chi sta
mentendo. Un primo indizio è la asimmetria del volto. Normalmente la
mimica facciale è più intensa nella parte sinistra del volto, dal momento
che l'emisfero destro del cervello (quello che controlla i muscoli della parte
sinistra del corpo) è maggiormente coinvolto nell'elaborazione delle
emozioni. Quando invece la mimica è più marcata nella parte destra del
volto, è probabile che si tratti di simulazione. Un secondo indizio è la
durata. La mimica facciale è estremamente mutevole: una espressione che
dura più di qualche secondo appare forzata, e quindi falsa. Infine, bisogna
considerare la sincronizzazione della mimica facciale con i movimenti del
corpo e con l'espressione verbale. Se l'espressione di una emozione avviene
contemporaneamente attraverso le parole, il movimento corporeo e la
mimica facciale, quest'ultima è autentica; se invece compare in ritardo, è
con ogni probabilità da ritenersi simulata16. In base alle sue osservazioni
sull'espressione visiva delle emozioni Paul Ekman ha messo a punto con
Vincent Friesen il FACS (Facial Action Coding System), una macchina che
analizza la mimica facciale considerando il più piccolo movimento
muscolare e confrontandolo con i dati immagazzinati in un complesso
database, al fine di scoprire se chi parla è sincero o mente. Si tratta di uma
macchina della verità estremamente sofisticata che sta incontrando un
crescente successo.
Infine, comunichiamo con le mani. Esistono linguaggi interamente basati
sui gesti delle mani - come le lingue di segni usate dai sordomuti, a lungo
considerate lingue minori, e di cui il linguista americano William Stokoe ha
mostrato invece la completezza -, che quindi fanno un uso simbolico dei
gesti. Un uso simile non è però riservato ai sordomuti. Ognuno di noi usa,
insieme al linguaggio verbale, una quantità di gesti con un significato
particolare: l'indice ripetutamente battuto sulla tempia vuol dire «questo è
matto», l'indice ed il medio congiunti vogliono dire che va tutto bene (Ok),
il dito medio sollevato con il pugno chiuso è un insulto piuttosto diffuso tra
i giovani, e così via. Questo uso simbolico dei gesti varia da cultura a
cultura, e può essere sorprendente notare come per indicare una cosa

16 P. Ekman, I volti della menzogna, Giunti Barbera, Firenze 1989.


Antonio Vigilante 32

semplice – come ad esempio il bisogno di bere – i popoli usino gesti


assolutamente diversi.
Non tutti i gesti che facciamo sono espressamente simbolici. Il più delle
volte gesticoliamo durante il discorso, senza nemmeno badare al
movimento delle nostre mani. Sono questi i gesti illustratori, che cioè
servono ad illustrare, sottolineare, rafforzare quello che stiamo dicendo. Se
un uso moderato di questi gesti può servire effettivamente a rendere più
efficace il discorso ed a sottolineare le fasi salienti (ad esempio facendo
precipitare il palmo della mano destra, di taglio, sulla mano sinistra aperta,
per enfatizzare una frase; oppure usando la cosiddetta presa di precisione
– in cui sembra che la mano afferri qualcosa – per rendere più convincente
un passaggio complesso), un uso eccessivo risulta il più delle volte
fastidioso ed è stigmatizzato, quasi rilevasse una incapacità di esprimersi
attraverso le parole. Per questo motivo alcune culture scoraggiano l'uso
della gestualità, che in Europa è più diffuso nei paesi del sud (nella stessa
Italia vi sono differenze notevoli tra il nord ed il sud).
Vi sono alcuni gesti, molto significativi, che possono anche risultare
spiacevolmente in contrasto con quello che stiamo dicendo. Si tratta dei
gesti di automanipolazione, con i quali trasmettiamo involontariamente
delle informazioni riguardanti la relazione (anche se spesso l'interlocutore
non è in grado di interpretare quei segnali). Questi gesti possono
esprimere interesse o rifiuto. Sono segni di interesse diversi gesti che
riguardano le bocca come mordicchiarsi le labbra o una penna oppure lo
spostamento di oggetti verso se stessi, mentre l'accarezzarsi i capelli o la
stimolazione del padiglione auricolare svelano un interesse anche affettivo
o sessuale. Sono gesti di rifiuto lo sfregamento del naso, l'atto di
spolverarsi l'abito e l'allontanamento degli oggetti. La tensione è invece
espressa dal gesto di grattarsi, il più delle volte nella zona del naso.
33 Muntu / La comunicazione

Il presente percorso fa parte di Muntu, un progetto per la divulgazione


delle scienze sociali presente in internet all'indirizzo http://www.muntu.tk
Questo testo può essere liberamente riprodotto e distribuito, a condizione
che ciò avvenga senza fine di lucro, senza alcuna alterazione del contenuto
ed indicando l'autore e la provenienza.

Data di rilascio: 21 agosto 2005


Revisione: agosto 2006

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