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la comunicazione
Antonio Vigilante 2
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© 2005-2006 Antonio Vigilante
3 Muntu / La comunicazione
La comunicazione
Il silenzio comunica
Consideriamo ora una situazione comunicativa piuttosto lontana da quella,
molto quotidiana, che abbiamo immaginato nel paragrafo precedente.
«Nei tempi antichi, durante una riunione sulla Montagna Spirituale, il
Buddha raccolse un fiore e lo mostrò alla folla. Rimasero tutti in silenzio,
tranne il santo Kashyapa, che sorrise. Il Buddha disse: 'Ho il tesoro
dell'occhio della verità, l'ineffabile mente del nirvana, il più sottile degli
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Primo assioma
Secondo assioma
3 Ivi, p.46.
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Terzo assioma
Quarto assioma
4 Ivi, p.51.
Antonio Vigilante 12
Quinto assioma
8 Ivi, p.60.
9 Per completezza, è bene specificare che l’Analisi Transazionale distingue
ulteriormente il Genitore in Genitore diretto e Genitore indiretto (il primo si ha quando ci
comportiamo imitando i nostri genitori e identificandoci con loro, il secondo quando ne
seguiamo gli insegnamenti) ed il Bambino in Bambino adattato e Bambino naturale (il
primo è il bambino che conforma il suo comportamento alle richieste dei genitori, il
secondo è il bambino libero).
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La comunicazione malata
La parola comunicazione ha una etimologia che rimanda al rendere
comune ciò che si possiede. Se da una parte dunque comunicazione indica
una realtà cui non si può sfuggire – non si può non comunicare, abbiamo
visto – dall’altra il senso della parola è realizzato fino in fondo solo in una
realtà di compartecipazione e solidarietà, in cui più soggetti condividono
conoscenza, sentimenti, progetti. Una tale realtà è possibile solo ove vi sia
la volontà, da parte dei soggetti, di rendere realmente comune ciò che si
possiede; occorre inoltre che si sia in grado di farlo, quando se ne abbia la
volontà. La mancanza di questi due aspetti (la volontà di comunicare e la
capacità di farlo in modo efficace) genera una comunicazione in cui manca
l’aspetto essenziale del rendere comune, sostituito da diffidenza,
incomprensione, ostilità. In questo caso si può parlare di comunicazione
malata.
Le patologie della comunicazione sono state studiate dalla Scuola di Palo
Alto in stretta relazione con gli assiomi della comunicazione: per ognuno
dei quattro assiomi esiste una forma particolare di patologia della
comunicazione. Il primo assioma afferma, come sappiamo, che non si può
non comunicare. Anche il silenzio comunica. A volte comunica anche
troppo, per cui si preferisce evitarlo, e scegliere una forma di
comunicazione verbale, anche se inadeguata.
Un uomo ha passato la sera con una donna. A notte fonda torna a casa,
dove la moglie lo attende agitata. Appena entra, gli chiede: «Tu mi
tradisci?». L’uomo ha tre possibilità. Può non rispondere alla domanda,
ma in questo modo alimenterebbe i sospetti della moglie, ed è come se
avesse risposto di sì. Può dirle la verità, comunicando in modo pieno
(rendendo comune, cioè, una verità per lei dolorosa). Oppure può scegliere
di eludere la domanda rispondendo in maniera evasiva o criptica. Ad
esempio può rispondere così: «Che cosa vuol dire tradire?». Oppure: «A
questo mondo tutti quanti tradiamo». L’uomo ha accettato di rispondere
alla domanda, ma senza accettare l’impegno di rendere comune ciò che si
possiede, che appartiene alla comunicazione. In questi casi, che sono
piuttosto frequenti, si ricorre a frasi generiche, oppure ad un linguaggio
che può essere interpretato in molti modi (quello che gli autori della Scuola
di Palo Alto chiamano schizofrenese), o ancora ci si può contraddire
sfacciatamente, si possono interpretare le affermazioni dell’interlocutore in
modo palesemente distorto: in altri termini, si cerca con ogni mezzo di
squalificare la comunicazione.
Una seconda patologia molto frequente, in relazione con il secondo
assioma della pragmatica della comunicazione, è la disconferma. Il
secondo assioma riconosce nella comunicazione un aspetto di contenuto ed
un aspetto di relazione. Quest’ultimo riguarda la nostra identità.
Comunicando, io propongo all’altro – al livello della relazione - una certa
immagine di me stesso. L’altro ha tre possibilità: la conferma, il rifiuto e la
disconferma.
Madre e figlia sono un negozio di abbigliamento. La figlia ha tredici anni
ed in famiglia è ancora considerata una bambina, mentre lei comincia a
percepirsi come una «adulta». Nel negozio la figlia vede un abito un po’
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11 P. Watzlawick, Istruzioni per rendersi infelici (1983), Feltrinelli, Milano 1991, p. 29.
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Palcoscenico e retroscena
A meno che non ci troviamo in un paese di cui non conosciamo la lingua,
non è difficile per noi chiedere un'informazione ad uno sconosciuto.
Rispondere ad un saluto è per noi un atto quasi automatico: sappiamo
quali sono le espressioni verbali e non verbali da impiegare con quella
determinata persona; sappiamo che possiamo salutare un amico con un
familiare «ciao», mentre per una persona con cui abbiamo relazioni più
formali è preferibile un «arrivederci». Quando siamo in treno, sappiamo di
non poter attaccare discorso con chi ci sta di fronte senza qualche fondato
pretesto, se non vogliamo apparire poco educati.
Tutte queste cose, che ci sembrano assolutamente naturali, comportano in
realtà un complesso sistema di regolazione dei nostri rapporti
interpersonali. Per quanto possa sembrarci spontanea, una semplice
conversazione segue in realtà una serie di regole ben precise, il cui mancato
rispetto provoca conseguenze vistose. Agli inizi del Novecento il sociologo
Gabriel Tarde auspicava la creazione di una vera e propria «conversazione
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12G. Tarde, L'opinion et la foule (1901), Les Presses Universitaires de France, Paris
1989, prefazione.
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Breaching experiments
Abbiamo detto che nell'interazione con gli altri siamo guidati da una
fiducia assolutamente naturale sulla possibilità di prevedere le loro
reazioni. Ma che succede quando l'altro non rispetta le nostre aspettative?
Quale è la reazione di un uomo che all'improvviso si trova in una
situazione comunicativa assolutamente imprevedibile, non rituale? È
quello che si è chiesto Harold Garfinkel, fondatore dell' etnometodologia,
una scuola sociologica che intende studiare i metodi usati dalla gente per
dare significato alle loro azioni quotidiane, in modo che esse appaiano
naturali, scontate, non problematiche. Per rispondere, ha escogitato quelli
che forse sono gli esperiementi più singolari della storia della sociologia: i
breaching experiments (esperimenti di rottura). In questi esperimenti, lo
sperimentatore viola sistematicamente le aspettative caratteristiche delle
interazioni quotidiane, allo scopo di metterne in rilievo l'importanza e di
misurare le conseguenze della loro violazione.
Durante la comunicazione, i soggetti giungono a
comprendersi perché operano istintivamente
alcune semplificazioni. Ogni comunicante, infatti,
presuppone che il proprio punto di vista e quello
dell'altro corrispondano (idealizzazione della
interscambiabilità dei punti di vista) e che le
differenze personali siano insignificanti, in modo
da poter parlare dando per scontato che l'altro
comprenda anche ciò che non viene spiegato
espressamente (idealizzazione della congruenza
del sistema di attribuzione di rilevanza).
Quest'ultima certezza viene distrutta, nei Harold Garfinkel
breaching experiments, facendo domande con le
quali si chiedono spiegazioni su ciò che dovrebbe essere scontato. Ecco un
esempio di esperimento (So sta per Soggetto, Sp per Sperimentatore):
Speaking
La comunicazione è un fenomeno universale, ma il modo concreto in cui si
realizza, le forme che assume, le modalità dello scambio sono strettamente
legati al tipo di società e di cultura in cui avviene. Il modo in cui i figli
parlano ai genitori nel nostro sistema socio-culturale è diverso da quello di
un paese orientale o anche da ciò che avveniva da noi cento anni fa. Alcune
situazioni comunicative sono presenti solo in alcune società. La
conversazione telefonica, ad esempio, esiste solo nelle società
tecnologicamente avanzate, in cui il telefono è entrato nella vita
quotidiana. In queste società si è sviluppato un modello di comunicazione
telefonica, che rende l'atto di parlare al telefono assolutamente
automatico: ognuno sa come si risponde al telefono, quali formule si
usano, come si mette l'interlocutore in attesa, come si chiude una
telefonata (cambiando procedura a seconda dell'interlocutore: la
conclusione di una telefonata di lavoro è diversa dalla conclusione di una
telefonata con il partner). La televisione ha modalità comunicative proprie.
Nel talk show, ad esempio, le persone comunicano in un modo e spesso
con una agitazione che raramente si trovano al di fuori del contesto
televisivo. Nei format televisivi più recenti compaiono persone che
affrontano in televisione i propri problemi familiari o sentimentali. Non
occorre molto acume per accorgersi che si tratta di comunicazioni non
molto spontanee, che si adeguano ad uno standard che non tollera
imprevisti.
Nelle nostre culture i tipi di comunicazione socialmente stabiliti (la
telefonata, la conversazione tra amici, con i genitori, con i colleghi e i
superiori eccetera) si svolgono generalmente nel rispetto reciproco degli
interlocutori e in un clima di cordialità. In altre culture il rispetto dell'altro
è ulteriormente enfatizzato. In Giappone, ad esempio, è importante l'uso
dei pronomi personali. Tu in giapponese si può dire anata, kimi oppure o
mae. La prima forma è quella regolarmente usata, e corrisponde al nostro
Lei, mentre le altre due forme vanno usate solo in circostanze particolari:
kimi può essere usato solo tra ragazzi (non ragazze), mentre o mae può
essere usato solo rivolgendosi ad una persona che sia in qualche modo in
situazione di inferiorità. In ogni altro caso risulta offensivo. Al contrario, vi
sono società in cui sono presenti forme di comunicazione caratterizzate da
una notevole aggressività ed informalità. In quella messicana esiste l'
albur, uno scambio verbale molto vivace, caratterizzato da allusioni e
doppi sensi a carattere sessuale. Forme simili si trovano nelle culture
mediterranee ed africana. Si può dire che alcune culture hanno sviluppato
in modo anche piuttosto raffinato l'arte di prendere in giro il prossimo
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Nel primo caso è evidente che siamo interessati a quello che ascoltiamo,
mentre nel secondo caso mostriamo una certa freddezza. Una postura
eretta con le braccia conserte, in genere, esprime indifferenza, se non
ostilità. È piuttosto facile avvertire l'imbarazzo di un ospite dal modo in cui
è seduto, se non si appoggia allo schienale della sedia e tutto il suo corpo
sembra pronto ad alzarsi e andar via. Un ospite rilassato invece si
abbandona letteralmente sulla sedia o sulla poltrona, lasciando andare le
braccia e incrociando i piedi.
Notevole è anche l'importanza del volto. Siamo convinti che il volto non
menta, e per questo esigiamo che chi vuol dirci qualcosa di importante per
noi lo faccia guardandoci in faccia. Una persona che tenga spesso il volto
abbassato ci sembra timido, incapace di sostenere lo sguardo altrui, ma in
qualche modo ci irrita anche, perché ci impedisce di leggergli in viso le
emozioni che prova; così come ci irritano quelle persone che hanno un viso
poco espressivo, che tacciamo di freddezza ed insensibilità.
Entro certi limiti, le espressioni del viso sono universali. Ovunque gli
uomini e le donne ridono e sorridono, piangono, esprimono tristezza,
rabbia, piacere. Universali sono anche l' apertura e la chiusura del viso. Il
viso aperto è caratterizzato dall'innalzamento delle sopracciglia e
dall'apertura della bocca ed esprime sorpresa e felicità mentre quello
chiuso, in cui gli occhi e le labbra sono serrati, indica disgusto e fastidio
per qualche situazione spiacevole. Esistono però anche variabili culturali
nell'espressione delle emozioni attraverso la mimica facciale. Benché il riso
sia universale, la sua frequenza varia nei diversi popoli: in alcuni, come
quelli mediterranei, è frequente il riso aperto, rumoroso, mentre in altri è
più diffuso il riso soffocato. Esistono inoltre mimiche che appartengono
solo ad alcuni popoli. Una molto singolare è stata studiata da Eibl-
Eiblesfeldt presso gli Eipo della Nuova Guinea, che quando provano una
emozione fortemente piacevole si coprono il capo con entrambe le mani,
come se si trovassero in pericolo. La mimica è stata interpretata piuttosto
facilmente da Eibl-Eibesfeldt: quando una cosa suscita il loro entusiasmo,
gli Eipo dicono che «fa paura»; di conseguenza esprimono l'emozione con
la reazione che si potrebbe avere di fronte a qualcosa di realmente
pericoloso. (È il caso di notare che il riferimento alla paura di fronte a
situazioni emozionanti si trova anche da noi nel linguaggio giovanile,
anche se non accompagnata da una mimica corrispondente. «Fa paura»,
«è da paura» sono espressioni correnti per indicare qualcosa di
sorprendente.)
La convinzione che le espressioni del volto siano sempre sincere non è del
tutto esatta. È possibile mentire e simulare anche con la mimica facciale,
benché sia estremamente più facile mentire con le parole. Entro certi
limiti, la menzogna espressa attraverso la mimica facciale è parte
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