You are on page 1of 26

Introduzione al Menone di Platone Il Menone di Platone stato considerato, come ebbe a notare un editore [Guthrie], una sorta di microcosmo

o dell'intera serie dei dialoghi platonici1. I temi che lo caratterizzano, infatti, sembrano saldare la riflessione giovanile contenuta nei primi testi pubblicati [in ordine alfabetico Apologia, Carmide, Critone, Eutidemo, Eutifrone, Gorgia, Ippia Maggiore, Ippia Minore, Ione, Lachete, Liside, Menesseno, Protagora, Repubblica I]2 - probabilmente per lo pi composti anteriormente al primo viaggio in Sicilia [387 a.C.] - a quella matura, posteriore alla fondazione della Accademia [al ritorno dalla esperienza in Magna Grecia], del gruppo Fedone, Simposio, Repubblica, Fedro [secondo una plausibile ricostruzione cronologica cui possiamo problematicamente collegare anche il Cratilo, a ridosso del Fedone, e Parmenide e Teeteto, prossimi al Fedro]. In questo senso uno dei massimi platonisti di questo secolo, Gregory Vlastos, intitol un fondamentale contributo dedicato al dialogo Elenchus and Mathematics: A Turning-Point in Plato's philosophical Development3, individuando quindi nel Menone una svolta del pensiero dell'autore, riproposta tra gli altri anche da Richard Kraut, curatore di una recente, fortunata, raccolta di saggi4:
Il Menone perci comunemente considerato un dialogo di transizione, che si colloca tra il periodo giovanile e quello di mezzo, e contiene elementi di entrambi. qui che possiamo cogliere pi chiaramente la trasformazione di "Socrate" in Platone. Si ritiene sia stato scritto tra il 386 e il 382, quando Platone era tra i quaranta e i quarantacinque anni di et, e Socrate era morto da almeno tredici anni.

Quello che, appunto, molti specialisti hanno da sempre avuto modo di sottolineare la metamorfosi, all'interno del dialogo, del personaggio Socrate: da incarnazione letteraria del Socrate storico, funzionale alla strategia apologetica platonica di rivalutazione del suo peculiare ruolo nella crisi della polis ateniese, a portavoce della posizione filosofica di Platone, originalmente maturata anche nella riflessione sul destino storico del maestro (come ancora documentato dalla apertura della Settima Lettera). Sarebbe addirittura possibile individuare il passo in cui tale trasformazione decisiva si compie, le righe 81 a-d, che contengono la risposta socratica all'argomento eristico proposto da Menone, con la citazione del mito orfico nei versi di Pindaro [fr. 133]. Cos, soprattutto nelle ricostruzioni complessive del pensiero platonico, il dialogo ha finito spesso per essere ridotto per lo pi al suo blocco centrale - suggestione della anamnsis - con qualche apertura a temi collaterali [ousia, orth doxa], nuclei di sviluppo della metafisica delle opere successive, Fedone in testa: si allora perso di vista in larga misura il suo impianto complessivo, con la sua forte valenza politica5 e i molti problemi sollevati6.
) W.KC. Guthrie, A History of Greek Philosophy. IV. Plato: the man and his dialogues, CUP, Cambridge, 1987, p. 241. 2 ) Sulla questione della cronologia relativa dei dialoghi platonici si veda il recente saggio di L. Brandwood, Stylometry and cronology, in The Cambridge Companion to Plato, edited by R. Kraut, CUP, Cambridge, 1992. Molto equilibrata anche la ricostruzione che lo stesso curatore propone nella sua Introduction to the study of Plato. 3 ) American Journal of Philology, 109, 1988. Ripreso in Socrates. Ironist and moral Philosopher, CUP, Cambridge, 1991. Presente anche nella fondamentale raccolta Les paradoxes de la connaissance. Essais sur le Mnon de Platon, recueillis et prsents par M. Canto-Sperber, Editions Odile Jacob, Paris, 1991. 4 ) Op. cit, p. 6. 5 ) Questo aspetto stato particolarmente valorizzato in R. Sternfeld - H. Zyskind, Plato's Meno. A philosophy of man as acquisitive, Carbondale, 1978, che, da una analisi degli elementi drammatici e strutturali del dialogo, riconoscono proprio nei problemi politici dell'ultima parte il nucleo portante dell'opera. 6 ) Per una valorizzazione della dimensione problematica del Menone si pu utilmente consultare la raccolta Les paradoxes de la connaissance cit., usufruendo delle chiare introduzioni alle varie sezioni proposte dalla curatrice.
1

La trama del dialogo e i suoi filamenti

In realt il testo costituito da un ordito originale: i) l'interrogativo di Menone - la virt [aret] insegnabile [didakton] ovvero risultato di esercizio [askton], oppure, ancora, per natura [physei] o in qualche altro modo? - apre bruscamente il confronto, che si sposta sul problema - prioritario, nella impostazione impressa da Socrate, rispetto a quello della insegnabilit - della definizione [che cosa ?] della virt e della connessa individuazione della sua essenza [ousia]; ii) il primo punto di svolta costituito dalla resa di Menone, il quale, incapace, nonostante ripetuti tentativi, di fornire una definizione, prima stigmatizza l'effetto paralizzante della dialettica socratica, quindi chiede a Socrate come possa ricercare [ztein] - nella sua dichiarata ignoranza - ci che in assoluto non conosce; iii) alla provocazione il filosofo replica coinvolgendo le convinzioni di sacerdoti e sacerdotesse sull'anima immortale [athanaton] e sulle sue incarnazioni, cos giustificando con la reminiscenza [anamnsis] la possibilit della conoscenza e dell'insegnamento [mathsis]; introdotta miticamente tale possibilit, la conferma subito dopo nel serrato confronto con un giovane servo del seguito di Menone, condotto a intravedere correttamente - pur senza un preventivo addestramento matematico - la incommensurabilit tra il lato e la diagonale di un quadrato dato; iv) assicurata, con la anamnsis, la possibilit di conoscere l'essenza della virt, Socrate, ancora sollecitato dal proprio interlocutore, ritorna all'interrogativo di partenza, proponendo di affrontarlo e risolverlo con il ricorso al metodo per ipotesi impiegato dai geometri: l'ipotesi specifica che la aret sia scienza [epistm] e, conseguentemente, insegnabile; v) tale ipotesi sembrerebbe verificata con la riduzione della virt a un bene e del bene, in ultima analisi, alla guida della intelligenza [phronsis]. Tuttavia, una oggettiva difficolt sorge dalla apparente constatazione della assenza di maestri di virt: se non ci fossero maestri e discepoli non si potrebbe neppure sostenere la tesi della insegnabilit; vi) l'intervento di Anito - presso il quale Menone era ospite in Atene - si inserisce proprio nella discussione in atto: certamente i sofisti, i soli a dichiararsi tali e a chiedere ricompense in denaro, per l'uomo politico non sono da considerare assolutamente maestri di virt, e sono, piuttosto, liquidati bruscamente come mistificatori. Al contrario, veri maestri sarebbero gli uomini perbene, in pratica tutti i cittadini: ma Socrate pu sottolineare, a uno stizzito Anito, come neppure i grandi politici del passato si siano rivelati in grado di istruire alla virt i propri discendenti; le qualit di direzione di quei politici non erano forse legate a scienza, ma solo a opinione corretta [orth doxa], di fatto del tutto simile negli effetti alla scienza, ma inadeguata [per la propria incapacit di dar conto di s] per suscitare il processo di apprendimento; vii) la virt, non insegnabile, non presente per natura [altrimenti sarebbe riconoscibile], sembra dunque toccare come per sorte divina a coloro, come le personalit politiche evocate, che manifestano di possederla. Un filo portante lega, evidentemente, l'apertura alla conclusione: quello rappresentato dalla aret, termine polisemico di cui gli scambi del dialogo documentano lo spettro, ma che, in ogni caso, nella ultima parte del testo sfruttato decisamente nella sua valenza politica, in altre parole come capacit di amministrare efficacemente [dioikein kals] la citt. Intorno a questo filo Platone viene intrecciando fili secondari ma di rilievo: i) il problema, logico-ontologico, della definizione, del logos che manifesta la ousia; ii) il riscontro delle possibilit gnoseologiche della ricerca nella anamnsis; iii) il connesso tema della immortalit dell'anima;

iv) la pratica del metodo per ipotesi, come strumento discutivo di ricerca; v) la distinzione tra epistm e orth doxa, sul piano pratico e teorico. D'altra parte, sulla scena del dialogo sono proiettate, in modo non casuale come pare, figure di rilievo della scena culturale e politica: i) Gorgia - maestro di Menone - coinvolto non solo inizialmente per giustificare ironicamente la sicurezza del giovane discepolo [che svolger una precisa funzione drammatica], ma anche specificamente sul tema della essenza della virt [suo probabilmente l'approccio riproposto da Menone con la enumerazione di tipologie di prestazione] e della sua insegnabilit [cui, secondo le indicazioni del discepolo, egli contrapponeva pi modestamente l'addestramento tecnico-retorico]; ii) Protagora evocato di passaggio ma, significativamente, nel contrasto con Anito: la sua fortuna economica e la sua fama decennale - se coniugate soprattutto con la pretesa del sofista di proporsi ai contemporanei come maestro di virt - stavano a dimostrare la problematica [per Socrate] consistenza di un movimento che Anito tendeva invece a liquidare troppo frettolosamente; iii) Anito, tipico rappresentante della nuova classe politica democratica, d vita al passaggio drammaticamente pi pregnante, specialmente in prospettiva [il processo e la condanna di Socrate]: nell'economia del dialogo la incarnazione di un atteggiamento scarsamente consapevole dei compiti del politico per la rifondazione della citt, quindi ottusamente pi impegnato a recuperare - superficialmente - modelli del passato politico che a riconoscere l'esigenza di un cambiamento; iv) le stesse personalit politiche citate, Temistocle, Aristide, Pericle, ecc., sono utilizzate da Platone come testimonianza di una prassi politica ispirata [anche se non priva di risvolti discutibili, come rivelato proprio dalle loro vicende personali], ma non fondata su una reale competenza che potesse assicurare, come accade invece nel caso dei tecnici, una trasmissione generazionale; quindi sostanzialmente accidentale [per sorte divina]. La ricchezza del Menone resa dall'incrocio di questi elementi, che ora si tratta di districare almeno per cenni.
La virt

L'apertura del dialogo immetteva bruscamente all'interno di una questione cruciale del dibattito culturale e politico contemporaneo, cartina di tornasole della crisi interna alla polis. Non un caso che l'interrogativo di Menone piuttosto che vertere direttamente sulla virt si concentri invece sulla sua insegnabilit e che tocchi poi a Socrate richiamare l'attenzione sul preliminare della definizione e mettere a nudo la infondata sicumera del proprio interlocutore. Dalla tradizione si ereditava la centralit del riferimento alla aret come requisito per il riconoscimento di un ruolo nella citt, ponendo contestualmente l'istanza della rivendicazione di tale aret per la legittimazione della propria pretesa a quel ruolo. Accade cos nel dialogo che, mentre sulla sua essenza, sul che cosa sia la virt, l'interesse di Menone si rivela relativamente superficiale e le sue convinzioni sostanzialmente scontate, la sua insistenza cade soprattutto sul tema delle modalit della sua acquisizione.
Quale virt?

Il termine aret, che traduciamo normalmente con virt, assume la propria accezione morale piuttosto tardi nella storia della cultura greca, fissandola poi praticamente nel pensiero socratico e platonico. Nella tradizione omerica aret designa l'insieme di prestazioni

eccellenti7 di cui capace l'agathos, il nobile guerriero, buono nella misura in cui in grado di operare performance militari di pregio, manifestando ingegno, valore e determinazione nel conseguimento del successo. In tal senso aret riceve una triplice connotazione: i) dinamica, in forza della sua contestualizzazione agonale e violenta, che trova espressione in situazioni anche diverse da quelle belliche, come nelle assemblee, in cui conta saper prevalere - quasi trasferendo il kratos, la violenza, della spada alla parola [Vegetti]; ii) sociale, in quanto tale prestanza deve essere riconosciuta per assicurare e conservare lo statuto eroico, e, attraverso la fama [kleos], garantire la tim, l'onore, del condottiero; iii) materiale, nel momento in cui la ricchezza era da un lato conseguenza del successo militare (come bottino), dall'altro condizione (come disponibilit) - in tempo di pace - per lo sviluppo delle abilit di comando. La aret omerica quindi termine che veicola qualit tipiche di una societ aristocraticomilitare - di cui possiamo intravedere nei poemi la struttura politica nel principato improntata ai valori dell'individualismo e della estrema competitivit, qualit competitive, appunto, come le definisce Adkins8, acquisite con la nascita, per l'appartenenza a un oikos [casato], ma rinnovate e documentate - per il meritato riconoscimento - nelle gesta quotidiane. La eccellenza identificata dalla aret se non esclude certo emargina le qualit collaborative saophrosyn [saggezza], dikaiosyn [giustizia], kalon [opportunit in un contesto, decenza, decoro] - evidentemente, in un mondo di piccoli regni conflittuali, avvertite meno funzionali alla sopravvivenza della societ stessa. Questo modello eroico di aret rimane riferimento costante nella cultura greca successiva, ma, in un significativo rovesciamento di prospettiva legato al prevalere di nuove forme di aggregazione sociale e politica, all'interno di un contesto valoriale in cui dominanti divengono progressivamente virt collaborative, quelle in grado di garantire la convivenza pacifica, soprattutto nell'ambito delle nascenti poleis. D'altra parte, ancora in un'epoca [VIII secolo a.C.] dominata da forme monarchiche, Esiodo aveva contrapposto, a un mondo governato dalla violenza del polemos [guerra], la giustizia [dik] divina, mostrando come, nei rapporti sociali, i mali derivino dalla prima e i benefici dalla seconda. Confrontando il kosmos [ordine] divino alla akosmia delle relazioni umane, il poeta aveva preso le distanze dal tradizionale codice agonale e dalla sua aret di violenza e sopraffazione, proiettata provocatoriamente in una dimensione bestiale, e delineato un mondo umano in cui avrebbe dovuto prevalere il rispetto del limite, della misura e del nomos, cio della legge uguale per tutti e vincolante per la comunit, la Dik appunto, la giustizia personificata. Nella cultura arcaica post-omerica questo aspetto legato in particolare alla formazione delle citt-stato e delle loro legislazioni scritte: tipico in tal senso il contributo di Solone [VII-VI secolo a.C.], che con la sua eunomia aveva cercato di creare uno spazio politico neutro9, retto dal nomos, nel quale mediare le forze opposte che agivano all'interno della polis. In tale prospettiva naturale che si puntasse a valorizzare nuove virt [giustizia, onest] rispetto alle vecchie aretai competitive: virt adeguate allo spazio razionalizzato della polis e alla solidariet necessaria per la sua sopravvivenza. Da un lato troviamo la nuova figura del sophos, del saggio capace di dare consiglio, di individuare la mediet e evitare il troppo da cui scaturiscono le discordie [secondo il modello sapienziale della sphrosyn (temperanza), gi affermatosi nel polo religioso delfico come riconoscimento del limite, moderazione]; dall'altro diventa fondamentale la giustizia intesa come autolimitazione individuale e adesione a norme comuni per la pace sociale; lo sviluppo delle poleis modifica dunque in senso
7 8

) M. Vegetti, L'etica degli antichi, Laterza, Roma-Bari, 1989, p. 17. ) A.W.H. Adkins, La morale dei Greci da Omero a Aristotele, Laterza, Roma-Bari, 1987, p. 59. 9 ) Vegetti, op. cit., p. 41.

partecipativo e pubblico letica aggressiva tradizionale, rifiutando soprattutto la brama di ricchezza e la violenza dei singoli [come hybris]. La eunomia, la buona legislazione soloniana, rappresentava lo sforzo di composizione tra gli elementi aristocratici che avevano originariamente guidato il processo di formazione delle citt greche e i nuovi ceti economici urbani in ascesa, un tentativo di conciliazione condotto sulla scia dell'esempio esiodeo - investendo il nuovo spazio politico (assicurato dalla subordinazione di tutti a regole comuni e condivise, estranee a ogni appropriazione personale) di valori (in primo luogo la giustizia), eticizzandolo, a dispetto della tradizione di aretai (amorali) che avevano caratterizzato l'uomo omerico. in tale prospettiva interessante registrare la metamorfosi di una espressione destinata a grande fortuna, anche nel nostro dialogo: kalokagathia.10 La prima significazione del termine [che risulta da kalos e agathos] appunto politica, e esprime il pregio della nascita con le presunte qualit che la nobilt di ascendenti portava con s [disposizione d'animo, thymos, come ritroviamo in Teognide (VI-V secolo a.C.), per esempio], costituendo una sorta di baluardo difensivo aristocratico rispetto alla crescente spinta sociale e politica dei ceti mercantili, una linea discriminatoria tra valenti e plebei, tra lite e massa. Eppure nel corso del V secolo l'accezione originaria si stempera in una pi generica valenza sociale: essa designer quelle qualit di carattere che rendono affidabile un individuo nelle relazioni interpersonali, garantendo il rispetto degli impegni nella comunit e l'espletamento di obblighi nei confronti di familiari, vicini, amici e ospiti. Insomma, da residuo di una eccellenza gentilizia sostanzialmente assegnata dal lignaggio, la kalokagathia si mut in coagulo delle prestazioni cooperative funzionali alla trasparenza e alla convivenza sociale. Della nuova situazione politico-sociale impostasi nel corso del V secolo, soprattutto in Atene, esemplare il famoso mito proposto da Platone nel suo Protagora, ma attribuito al sofista di Abdera. Un mito di fondazione, come stato sostenuto11: Prometeo deve intervenire dopo che il fratello Epimeteo ha improvvidamente distribuito i doni naturali tra gli animali, lasciando l'uomo privo di ogni strumento per la sopravvivenza; il suo contributo tecnico, nella convinzione che l'uomo possa diventare potente grazie ai ritrovati del proprio ingegno. Ma senza la saggezza politica [sophia politik], in virt della quale possano nascere comunit e citt, non ci sarebbe stata possibilit di efficace difesa dai pericoli. Cos Zeus a dover a sua volta provvedere ogni individuo degli attributi per una fattiva collaborazione con gli altri, donando a tutti rispetto [aids] e giustizia [dik]. In questo caso, non ci troviamo semplicemente di fronte alla personificazione di Dik, come in Esiodo: le due qualit cooperative sono diffuse socialmente. Siamo ormai in presenza dello sviluppo di unattrezzatura ideologica adeguata alla nuova realt della polis. Sar dunque grazie alla virt politica che la capacit prometeica potr liberarsi nella citt.12 Questo lo sfondo in cui si inserisce, a partire dalla seconda met del V secolo a.C., l'azione pedagogica della sofistica, proponendosi, soprattutto con Protagora, di insegnare la techn politich. Essa presupponeva capacit disponibili a tutti, che richiedevano semplicemente un esercizio costante per produrre un agathos polits, un buon cittadino. A dispetto del disdegno aristocratico, espresso nella prima met del secolo dalla poesia di Pindaro, secondo cui la aret per natura, disposizione innata, fondata sul ghenos e quindi non trasferibile alla moltitudine turbolenta, con Protagora in particolare viene affermandosi l'idea di una cittadinanza attiva che si costituisce, progressivamente, attraverso l'integrazione di diversi contributi: dalla interiorizzazione domestica dei canoni elementari dell'orientamento morale (giusto/ingiusto, santo/empio ecc.), alla educazione civica dei maestri, che illustrano i
) M. Canto-Sperber, Introduction, in Platon, Menon, traduction et prsentation par M. Canto-Sperber, Flammarion, Paris, 1991, p. 39. 11 ) Vegetti, op. cit., p. 38. 12 ) Ibidem, p. 37.
10

comportamenti pregiati nella citt; dalla plastica azione che le leggi e le occasioni di confronto interno alla polis esercitano sui giovani (assicurando coesione alla comunit), alla diagnostica del sofista, che - secondo una immagine che lo stesso Platone ha contribuito a diffondere con il suo Teeteto - interviene per conservare la salute della citt, utilizzando la medicina della parola per indurre nel popolo una opinione conforme a razionalit e ristabilire eventualmente la condizione di normalit. D'altra parte, quasi parallelamente allo sviluppo delle istituzioni e di una ideologia democratiche, si manifestano posizioni apertamente critiche della democrazia, che vanno dal conservatorismo di Aristofane - che colpisce la paideia sofistica (e socratica) come eversiva della tradizione di valori, (in tal senso contrapponendole ancora la funzionalit etica dell'antica poesia) e complementare alla volgarit e corruzione che il dmos aveva trascinato in politica - alla violenta requisitoria della Costituzione degli Ateniesi dello Pseudo-Senofonte, che presenta la democrazia come potere dispotico e aggressivo tenuto dalle classi inferiori contro i migliori (beltistoi), come predominio dell'utilitarismo monetario dei kakoi [cattivi] sui valori morali e estetici degli agathoi [buoni], insomma come kakonomia retta dall'interesse. La discussione nel Menone presuppone la storia, che abbiamo schematicamente riprodotto, oltre, ovviamente allo specifico contributo socratico.
La virt si dice in molti modi?
Sai dirmi, Socrate, se la virt insegnabile [didakton]? O non insegnabile ma risultato di esercizio [askton]? Oppure non risultato n di esercizio n di dottrina [mathton], ma per natura [physei] si produce negli uomini o in qualche altro modo? [70a].

Gli interrogativi di apertura del dialogo rispecchiano uno stadio avanzato del dibattito sulla aret, quale documentato anche negli anonimi Dissoi logoi [Argomentazioni in contrasto], risalenti probabilmente alla fine del V secolo: il capitolo sesto dell'opera presenta cos il proprio tema:
Si sostiene poi un'altra tesi [tis logos] - n vera n rivoluzionaria - secondo cui sapienza [sophi] e virt [areta] non sono oggetto di insegnamento [didakton] n di apprendimento [mathton]13.

Le scelte espressive di Platone possono consentire l'individuazione di plausibili referenti culturali: i) il termine insegnamento certamente veicola la principale pretesa sofistica, la ragion d'essere sociale del gruppo di intellettuali che faceva della didach la propria attivit principale, nella convinzione di una stretta connessione tra virt e competenze [technai]14; ii) il termine esercizio potrebbe, soprattutto in combinazione con natura, rinviare invece al modello aristocratico tradizionale della trasmissione della virt per imitazione e esempio15, ma anche a Protagora, il quale (fr. 10) marcava come la tecnica, la competenza, non fosse nulla senza la pratica, l'esercizio [melet]; iii) il termine natura, a sua volta, per un verso rispecchia nel contesto la fiducia aristocratica nelle qualit innate che garantiscono l'eccellenza e escludono l'insegnamento, per altro potrebbe riferirsi a quelle disposizioni che la educazione sofistica pretendeva di poter valorizzare.

) Sofisti: Protagora, Gorgia, Dissoi Logoi. Una reinterpretazione dei testi, a cura di S. Maso e C. Franco, Zanichelli, Bologna, 1995, p. 197. 14 ) W.K.C. Guthrie, The Sophists, CUP, Cambridge, 1971, p. 255. 15 ) Canto-Sperber, Introduction, cit. p. 47.

13

Il retroterra culturale entro cui si colloca la discussione sulla aret invece percepibile sin dal primo tentativo definitorio di Menone:
se vuoi la virt delluomo, facile dire che la virt delluomo questa: essere competenti [ikanon] nella conduzione degli affari della citt [ta ts poles prattein], e nel condurli fare del bene [eu poiein] agli amici, del male ai nemici, avendo cura di non subire nulla di simile [71e].

Si tratta di una connotazione popolare16, di carattere eminentemente civico, nella quale confluiscono una generica idea democratica di adeguatezza [ikanon equivale a sufficiente, adeguato, all'altezza] rispetto agli impegni sociali e politici, ma anche l'arcaico e aristocratico criterio competitivo degli amici e dei nemici17. Significativo il fatto che in tal modo si definisca la virt dell'uomo, che essa, cio, appaia in cima a una lista di aretai specifiche, esprimenti l'eccellenza peculiare di una classe di individui (donne, vecchi, giovani) all'interno della e funzionale alla comunit della polis. Sulla scia probabilmente del maestro Gorgia, Menone evitava l'astrazione per l'enumerazione, con la quale poteva rendere la poliforme attivazione delle differenziate attitudini. Socrate reagisce a tale impostazione imponendo una prospettiva morale:
Ma dirigere bene [eu dioikein] la citt o la casa o qualsiasi altra cosa, non significa dirigerla con saggezza [sphrosyn] e giustizia [dikaiosyn]? [73a].

Nella rilettura socratica, l'avverbio bene perde la significazione performativa (giovare agli amici) che aveva nella definizione dell'interlocutore, per assumere la valenza, pi complessa, di misura, cui, anche nella tradizione, i termini sphrosyn [temperanza] e dikaiosyn alludevano, in relazione soprattutto alle istanze della autolimitazione e della adesione a norme comuni. In questo caso, quindi, ci che viene valorizzato dalla precisazione del filosofo non tanto l'efficacia della direzione politica, ma la sua conformit a un consiglio secondo ragione, non il dato esteriore dell'utile del gruppo, ma quello interno della condotta razionalmente equilibrata. Ci, tra l'altro, garantisce a Socrate la possibilit di individuare il comune denominatore nell'elenco di prestazioni proposte da Menone: buoni [agathoi] saranno coloro uomini o donne, vecchi o giovani - che si conducono misuratamente [secondo saggezza e giustizia]. La stessa situazione si presenta anche in occasione del secondo tentativo di Menone di definire la virt (come capacit di comandare [archein] gli uomini): al riciclaggio di una accezione arcaica (eroica) nel contesto della citt, Socrate replica - con la sostanziale, inerte acquiescenza dell'interlocutore - curvandone la valenza performativa (e tendenzialmente competitiva) in una direzione squisitamente morale, rilevando l'insufficiente determinatezza del comandare in assenza della specificazione avverbiale giustamente [dikais]. Evidente la diversa accentuazione: mentre la aret evocata da Menone si riduce alla abilit di erogare una prestazione fine a s stessa, la osservazione socratica sposta l'attenzione sulla qualit della prestazione, per cui buona [cio espressione di virt] non sar la prestazione in quanto tale, in quanto manifestazione della capacit o potenza nel comando, bens la prestazione erogata con giustizia e saggezza. Sono dunque questi gli indicatori per identificare la virt, che in questo senso si smaterializza e passa nella sfera della valutazione morale.
Ebbene, mi sembra, Socrate, che la virt sia, come dice il poeta, godere [chairein] delle cose belle [kaloisi] e avere potere [dynasthai]. Anchio affermo che ci virt: desiderare [epithymounta] le cose belle e essere in grado [dynaton] di acquisirle [porizesthai] [77b].

16 17

) Ibidem, p. 217 [si tratta del commento al testo]. ) La stessa tensione in Solone (fr. 13): E fate che io sia dolce con gli amici amaro verso i nemici, rispettato per gli uni, per i secondi temibile a vedersi.

In questo suo terzo (e ultimo) sforzo, Menone, pur ispirandovisi direttamente, piega la lezione del poeta citato [Teognide? Simonide? Pindaro?]: il bello cui allude il verso probabilmente fruito nella sua semantica sociale, di oggetto riconosciuto di pregio dalla comunit, coniugato con l'infinito dynasthai a indicare l'esercizio del potere politico. Si tratta della valorizzazione di un aspetto della concezione eroica della virt, quello che ne esplicita i privilegi. La versione di Menone attenua i toni di possesso e esercizio a favore della aspirazione [epithymia] e della abilit [dynaton]: a Socrate non sfugge tale estenuazione. Per un verso egli ha buon gioco a elidere la prima parte della definizione, marcando l'universale attrattiva del bello-bene-utile18 e quindi la carente determinatezza del desiderio rispetto alla eccellenza della aret. Per altro, riformulata come capacit [dynamis] di procurarsi le cose buone [ta agatha], la virt non ridotta a mera prestazione, ma ricollocata in uno sfondo morale: a decretare la bont dell'esercizio , infatti, ancora una volta, la sua erogazione conforme a misura, rispettosa del limite, qualit che espresse globalmente dai termini saggezza e giustizia. Questo, ovviamente, porta con s un intrico circolare, dal momento che la virt risulta definita da Menone implicando la citazione di sphrosyn e dikaiosyn, quindi di parti della virt stessa. Nella seconda parte del dialogo, dopo l'intermezzo con il servo e le successive riflessioni gnoseologiche e metodologiche, si riapre il confronto sulla virt con l'intervento di Anito: il tema non pi quello della essenza ma quello della sua insegnabilit. Tuttavia nel nostro contesto interessante stabilire a quale dei significati di aret presi in esame ci si riferisca nel frangente drammatico. Socrate, in effetti, introduce il politico nella discussione offrendo una propria interpretazione degli scambi precedenti: la virt al centro del colloquio sarebbe una qualit eminentemente politica, con la quale occuparsi di casa e citt:
[Menone] desidera questa sapienza [sophia] e virt con cui gli uomini amministrano [dioikein] bene [kals] le case e le citt, hanno cura dei loro genitori e sanno ricevere e congedare sia cittadini sia stranieri in modo degno di un uomo per bene [91a].

questa capacit di governo degli uomini e delle cose, sedimento della lunga tradizione che abbiamo sopra schizzato, a riempire la scena nelle battute seguenti. A essa si lega il contributo diretto di Anito, la sua indicazione di cercare tra i cittadini perbene [kaloi kagathoi] i maestri di virt; le caratteristiche richieste per una efficace interazione nelle diverse comunit in cui si struttura l'ambiente della polis sono quelle del rispetto degli impegni reciproci e della disponibilit alla collaborazione. A essa, infine, si richiama Socrate, esemplificando con il modello delle grandi figure di uomini politici del passato.
Virt e intelligenza

Se soprattutto i passaggi iniziali del testo sono serviti a documentare l'ampio ventaglio semantico del termine aret anche all'interno del dialogo platonico, insieme alle sue valenze culturali, la seconda parte fondamentale per mettere a fuoco i contorni positivi della concezione socratico-platonica della virt. A partire dalla ipotesi che essa sia epistm, Platone pu sostenere tra l'altro: i) che tutte le cose cui lanima si applica e che pratica guidata dalla intelligenza [goumens phronses], si concludono in felicit [eudaimonia] [88c]; ii) che la virt sia una delle cose nellanima [en t psych] [88c], una qualit che la rende buona; iii) e principalmente che nelluomo tutte le altre cose dipendono dallanima e le cose dellanima stessa dalla intelligenza [phronsis], se devono essere buone [agatha] [88e - 89a].
18

) Per l'analisi si rimanda al commento del passo.

La operazione che l'autore compie rispetto alla tradizione quella di spostare progressivamente il baricentro della riflessione verso l'interiorit, supponendo scontata la distinzione tra anima [psych] e corpo, ovvero tra cose utili (bellezza, salute, ricchezza ecc.) e cose dell'anima [ta kata tn psychn], quindi di improntarla in senso intellettualistico. All'anima viene riconosciuto un ruolo di indirizzo che qualifica, nell'uso corretto [orth chrsis], come buono-utile quanto di per s indifferente al valore (bellezza ecc.). Alla intelligenza [nous ma anche phronsis] spetta, a sua volta, una funzione guida nell'ambito di quel che attiene all'anima, assicurando, con il proprio indirizzo, la adeguata espressione delle sue attitudini: Platone in questo caso elenca temperanza, giustizia, coraggio [andreia], facilit di apprendere [eumathia], memoria [mnm], generosit [megaloprepeia] [88a], riconducendo, in ultima analisi, ogni valore autentico e ogni esercizio efficace delle facolt alla direzione della phronsis. Due le implicazioni di rilievo: i) la possibilit di ridurre una pluralit di prestazioni eccellenti alla guida unitaria del nous, cos superando la tensione tra molteplicit e unit della virt; ii) la coincidenza di valore e utilit, per cui l'azione o la qualit buona anche efficace, in sintonia con quanto proprio dell'uomo, e conforme al suo interesse, essendo adeguata alla sua natura. In entrambi i casi lo sfondo teorico rappresentato da una precisa convinzione antropologica, quella secondo cui l'uomo la sua anima, che noi possiamo riconoscere, con buona probabilit, socratica, dal momento che espressa nei termini pi decisi proprio nella ricostruzione platonica della difesa di Socrate, all'interno della Apologia, confermata in altri dialoghi cosiddetti socratici [per esempio Alcibiade I, Carmide] e ribadita da Senofonte [Memorabili]. La confutazione delle proposte di Menone e la discussione della ipotesi rendono sufficientemente il senso della svolta socratico-platonica sul tema della virt: nel momento in cui si accetta la essenziale consistenza psichica dell'uomo risultano inaccettabili o secondarie le valutazioni della tradizione, i criteri identificativi della eccellenza veicolata dal termine aret. L'insistenza sulla misura (temperanza, giustizia) prima, quindi la esplicitazione del vaglio assennato della intelligenza documentano la novit morale rivendicata da Socrate (almeno nella testimonianza platonica e senofontea), con la metamorfosi della virt in una forma di conoscenza e consapevolezza: il bene proprio dell'uomo sar contenuto in ci che per natura lo contraddistingue, la sua anima, consistendo: i) nell'esercizio della sua funzione pi alta (intelligenza); ii) nella coerente subordinazione a essa delle altre istanze, cos da produrre quella armonia complessiva con cui Socrate-Platone sembra far coincidere la eudaimonia. Eppure nel corso del dialogo l'ipotesi che la virt sia scienza, con la conseguente sua insegnabilit, entra in crisi di fronte alla constatazione, al fatto che non esistono maestri di virt: la possibilit dell'insegnamento sembrerebbe contraddetta (e quindi la tesi introdotta confutata) dalla assenza di plausibili testimonianze di docenza e apprendimento. La conclusione dell'opera non supera questa impasse, assicurando la caratteristica aporeticit al testo; essa si limita a precisare la ipotesi assunta, prospettando la virt solo come opinione corretta: ci sarebbe sufficiente a giustificare, da un lato, la sua parvenza conoscitiva e dunque la pretesa direttiva che si esprime nelle istanze menzionate (le grandi personalit politiche ateniesi del V secolo), dall'altro per anche la sua sterilit, la sua incapacit di

trasferirsi da individuo a individuo (come una tecnica) attraverso l'insegnamento. L'impressione, tuttavia, che a questo esito si giunga attraverso l'ennesimo slittamento, l'ennesima accentuazione all'interno della scala semantica del termine. Non pare dubbio, infatti, che, soprattutto nello scambio con Anito (non casualmente), Socrate torni a riferirsi - come sopra abbiamo segnalato - al significato politico della virt, come capacit di dirigere gli uomini nella citt. Seppur avviata in precedenza, la riflessione sulla mancanza di maestri si riferisce particolarmente - anche nelle esemplificazioni - a tale abilit. La confutazione, dunque, sembrerebbe coinvolgere polemicamente piuttosto la presunta competenza dei politici che non la concezione socratica della virt. la pretesa di spacciare come frutto di reale competenza l'azione delle grandi (e discusse) personalit del passato ad essere sottoposta a contestazione, non l'esigenza della riduzione della aret a epistm. Cos la conclusione del dialogo pare investire la casualit e infondatezza di quegli esempi, lasciando aperta invece la eventualit di (e la speranza in) un politico in grado di formarne altri, cio di una personalit virtuosa in senso socratico-platonico, competente per una adeguata direzione educativa.
Definizione e essenza
Io stesso, Menone, mi trovo in tale situazione: con i miei concittadini condivido la povert, e mi rimprovero di non sapere assolutamente nulla [to parapan] circa la virt. E non sapendo che cosa sia [ti esti], come potrei conoscerne la qualit [opoion]? [71b].

Nelle prime battute del testo registriamo la impostazione classica (nei dialoghi socratici) della discussione dialettica da parte di Socrate, scandita da due passaggi essenziali: i) il riconoscimento della propria ignoranza rispetto a un oggetto specifico di indagine [in questo caso esasperato con l'uso della forma avverbiale to parapan, ingannevole, come riveler il seguito del confronto]; ii) la interrogazione definitoria rivolta all'interlocutore, che ritiene invece di sapere. Nel caso del Menone la strategia anche pi complessa, dal momento che Socrate deve, in primo luogo, sottrarsi all'onere di una risposta all'interrogativo circa la insegnabilit o meno della virt, puntando sulla distinzione (ontologica) tra ci che un determinato ente in s e le qualit che in forza della sua natura esso manifesta. Questo comporta che, da un punto di vista metodologico e, secondo il filosofo, anche gnoseologico, non si possa affrontare il problema della insegnabilit della virt prima di aver stabilito e conosciuto che cosa essa sia. Avendo espresso la propria assoluta incompetenza a definire la virt (nonostante l'occasionale frequentazione di Gorgia), Socrate ha la opportunit di lasciare il peso della determinazione a Menone (proprio per la sua familiarit con il grande sofista). Per il momento, alla definizione si attribuiscono19 quindi: i) un esplicito carattere proposizionale: essa deve esprimere, per un eventuale interlocutore, ci che una certa cosa: essa rappresenta, dunque, uno strumento di manifestazione ma soprattutto di comunicazione di conoscenza; ii) una funzione scientifica, nella misura in cui essa indica il che cosa , in altre parole informa sulla natura di un certo ente, cos facendolo adeguatamente conoscere [il che non accade attraverso la raccolta di indicazioni accidentali].
19

) Pu essere utile per ricostruire i problemi della prima riflessione platonica sul tema della conoscenza P. Woodruff, Plato's early theory of knowledge, in Essays on the philosophy of Socrates, edited by H.H. Benson, OUP, Oxford, 1992, pp. 86ss.. Una messa a fuoco critica si trova in H.H. Benson, Misunderstanding the "Whatis-F-ness?" question, ibidem, pp. 123 ss. Sintetico il contributo di G. Vlastos, Que pouvait bien entendre Socrate par la question: Qu'est-ce que F?, in Les paradoxes de la connaissance, cit., pp. 193 ss.

Se ora consideriamo gli appunti rivolti da Socrate al primo tentativo definitorio del giovane Menone, possiamo ricavare altre interessanti tracce della concezione platonica della definizione:
Pare abbia avuto una grande fortuna, Menone, se, ricercando ununica virt, ho scoperto un intero sciame di virt presso di te. Ora, Menone, rimanendo a questa immagine degli sciami, se ti interrogassi sulla essenza [ousia] dellape e tu mi rispondessi che ce ne sono molte e di varie specie, che cosa replicheresti se chiedessi: Dici che sono molte e di varie specie, e che differiscono tra loro in quanto api? Oppure non differiscono in questo ma in altro per esempio nella bellezza o nella grandezza o in qualche altra qualit? [72a-b].

Evidentemente dall'interrogativo che cosa x? il filosofo si aspetta: i) la netta discriminazione di ci che x in s e per s, e la conseguente emarginazione degli aspetti accessori; ii) la determinazione dell'esemplare di una classe: x in questo senso rappresenta un universale [l'ape], e la definizione deve manifestarne la ousia [essenza, sostanza] comune a tutte le individuali istanze x [nell'esempio le singole api]; iii) la giustificazione dell'uso linguistico: il termine x pu riferirsi a tutte le istanze della classe in quanto designa le caratteristiche costanti in tutti gli individui, quelle appunto che consentono di identificarli come x, trascurando le variabili accidentali, che connotano invece i singoli. Illuminante allo scopo un ulteriore scambio:
per quanto numerose e di varie specie esse siano, non hanno tutte una stessa forma [eidos], per la quale esse sono virt, e contemplando [apoblepsanta] la quale chi risponde si trova in buona posizione per mostrare a chi interroga che cosa sia la virt? [72c-d].

Platone in questo caso sottolinea come la risposta alla domanda che cosa x? debba impegnare a illustrare [dlsai] ci che esso attraverso la focalizzazione, l'atto contemplativo rivolto all'eidos, alla forma, struttura che identifica la classe x. In particolare: i) l'eidos coincide con l'essenza, con ci che un ente in quanto tale: in questo senso usato come equivalente del precedente ousia; ii) l'eidos la causa, cio la ragion d'essere dell'ente, per mezzo della quale esso quello che ; iii) come rivela il suo etimo [eidos da idein, vedere], la forma ci che la intelligenza discerne come identico e stabile tra la pluralit di istanze di una classe. Forse, rispetto alla originaria pratica socratica di focalizzazione dei termini al fine della omologhia, dell'accordo, i due passi documentano laccentuazione in Platone dellaspetto contemplativo: si accenna, infatti, alla necessit di manifestare, con la definizione, leidos, la struttura intrinseca, la forma in questione, cos da poter discriminare, fissandola con lintelligenza, classi di azioni o cose. Accanto alla preoccupazione di stabilizzare il significato di un termine ancorandolo oggettivamente a una ousia, lautore rimarca la dipendenza ontologica delle cose giuste, belle ecc. da essa: l'eidos non funge semplicemente da criterio di valutazione e discernimento, non ha quindi solo una valenza gnoseologica (perch ci fa conoscere e riconoscere gli enti corrispondenti), ma anche ontologica, dal momento che le cose sono quello che sono in virt

delleidos x, che qualcosa, ha una propria consistenza e stabilit, che a loro modo le cose riflettono. Per rinforzare questa prospettiva, nel proporre una propria esemplificazione definitoria a vantaggio di Menone, Socrate rileva come:
dal momento che riunisci tutte queste cose con un solo nome e neghi che alcuna di esse non sia figura, sebbene reciprocamente contrarie, che cosa ci che comprende il circolare non meno del retto, e che tu chiami figura, sostenendo che il circolare figura quanto il retto? [74d-e].

Ci che a Platone preme trascendere la molteplicit del dato empirico e la pluralit delle determinazioni [nel caso specifico si tratta infatti di figure geometriche] per afferrare ci che fonda e giustifica l'identit linguistica: ci corrisponde a quella unit concettuale in cui si raccoglie la molteplicit e che esprime, a livello logico e linguistico, il saldo nucleo ontologico di riferimento, comune a tutti gli individui di una classe. Nel Menone l'autore non utilizza il termine idea, n sviluppa una teoria del tipo di quella che si pu desumere dal Fedone. Tuttavia, nei passi che abbiamo evocato, ne possibile intravedere la maturazione, in considerazione specialmente dello scarto implicito tra la stabilit e necessit della ousia e gli aspetti variabili e contingenti degli enti, nonch della forte impronta contemplativa introdotta con il nesso eidos-definizione. Significativa in questa prospettiva l'insoddisfazione globalmente espressa da Platone nei confronti di altri modelli esplicativi, quale quello di stampo empedocleo esemplificato - con piena soddisfazione di Menone - da Socrate a proposito del colore. Apparentemente potente, per il fatto di potersi applicare a oggetti diversi, esso pretende di delimitare concettualmente il proprio oggetto concentrandosi sul contesto e le condizioni fisiologiche della sua percezione, lasciandosi cos sfuggire le note intrinseche che possono garantire luniversalit della definizione. Non un caso che la dimensione speculativa sia difesa nel primo esempio definitorio avanzato (relativamente alla figura), dove, pur nella approssimazione, prevale l'aspetto intuitivo, per cui loggetto ricostruito con elementi evidenti nella rappresentazione (il solido, il limite).
Anamnesi e conoscenza

Strettamente connessa al problema iniziale della definizione la svolta centrale del dialogo rappresentata dalla citazione (attraverso Pindaro) del mito orfico della immortalit dell'anima e dalla correlata tesi della identit di apprendimento [mathsis] e reminiscenza [anamnsis]. Interessante la situazione in cui registriamo la accentuazione metafisica del discorso socratico: il tema della anamnesi introdotto dal filosofo in risposta alla contestazione dell'interlocutore.
L'argomento di Menone
Socrate, avevo sentito, prima ancora di incontrarmi con te, che non fai altro che mettere te stesso e gli altri in difficolt [aporein]. Ora, mi sembra, mi affascini, mi sottoponi a incantesimo [pharmatteis], mi streghi, cos che mi trovo pieno di dubbi. E mi pare, se lecito scherzare, che tu sia del tutto simile nella figura e nel resto alla piatta torpedine marina [narch]. Essa, infatti, fa sempre intorpidire [narchan] chi la avvicina e la tocca e mi sembra che tu ora abbia prodotto lo stesso effetto su di me: poich veramente mi sento intorpidito nellanima e nella bocca [tn psychn kai to stoma nark], e non so pi che cosa risponderti. Eppure infinite volte ho tenuto tanti discorsi sulla virt e davanti a molti e molto bene, come mi sembr. Ora non riesco neanche a dire che cosa . Mi pare che tu abbia scelto bene di non imbarcarti e non allontanarti da qui: se facessi cose simili come straniero in un'altra citt, saresti subito arrestato come incantatore [79e80b].

Il passo significativo perch pone in rilievo tra laltro:

i) limbarazzo del sofista, che si manifesta in una vera e propria paralisi, nella resa di fronte alle richieste socratiche: con l'implicito riconoscimento della portata conoscitiva della definizione e lo smarrimento per la propria impotenza; in tal senso i discorsi, pur vantati, si rivelano poco efficaci, denunciando quindi la propria inconsistenza; ii) conseguentemente, dal punto di vista socratico (e platonico), leffetto catartico dellinterrogare socratico: la confutazione (elenchos) esercitata nel confronto dialettico fa s che linterlocutore prenda atto della propria incompetenza o quanto meno della propria specifica incapacit di rispondere. Nella logica del discepolo di Gorgia ci risultato delle capacit narcotizzanti del dialogare socratico (donde l'accostamento tra narch [torpedine] e narchan [intorpidire], ma anche l'uso di pharmattein, che pu significare sia curare con medicine, sia ammaliare, sia avvelenare). Tuttavia il testo sufficiente a rilevare anche: i) la seriet del non-sapere di Socrate: egli sottolinea come lintorpidimento non rappresenti semplicemente uno stato da lui indotto, con le proprie domande, nellinterlocutore, ma la stessa condizione di dubbio in cui Socrate stesso versa; ii) accanto al momento elenchico quello protrettico, esortativo, della dialettica socratica: il riconoscimento della propria ignoranza, con il diradamento della illusione di sapere, premessa per una adeguata ricerca della verit; iii) la disponibilit socratica alla indagine in comune. Ma il passo potrebbe anche segnalare limbarazzo del discepolo (Platone) rispetto alla lezione del maestro, nel momento in cui, dopo la sua condanna e morte (tra le righe si allude al destino di Socrate), egli veniva rivendicandone dignit di pensiero e importanza epocale nella citt. Rispetto ai precedenti interventi, appare, infatti, in questo frangente sintomatico lo spazio riservato alla osservazione polemica di Menone, quasi lautore intendesse indirettamente assumerla o comunque avanzarla per preparare la propria svolta: lapproccio critico di Socrate, indubbiamente efficace nel dissolvere la sicumera sofistica, rischiava di risolversi in effettiva infecondit o di rimanere intrappolato in un pericoloso circolo vizioso, come Platone fa ancora rilevare al giovane interlocutore socratico: traspare lurgenza di una teoria positiva, in grado di risolvere i problemi sollevati nel corso della discussione.
E in che modo, Socrate, cercherai [ztseis] ci che non sai [m oistha] assolutamente [to parapan] che cosa sia [oti estin]? Quale delle cose che non sai ti proporrai di cercare? E se anche ti capiter di imbatterti in essa, come saprai che ci che non conoscevi? - Capisco che cosa vuoi dire, Menone. Guarda un po che argomento eristico introduci [eristikon logon]! Non possibile alluomo cercare n quello che sa, n quello che non sa: infatti non cerca quello che sa, perch lo sa e non ha bisogno quindi di cercarlo, n ci che non sa, perch non sa neppure che cosa cercare. Non ti sembra allora che questo sia un bellargomento? [80d-81a]

La obiezione eristica di Menone20 forse il suo contributo pi interessante, soprattutto perch riflette probabilmente un autentico imbarazzo platonico. Vi si esprime l'aporia di un nonsapere da Socrate costantemente ma contraddittoriamente (almeno nellottica che il discepolo manifesta attraverso Menone) coniugato con limpulso alla indagine. Platone, come abbiamo segnalato, appare disposto, in una qualche misura, ad ammettere la potenziale sterilit dellapproccio del maestro, pi efficace sul piano catartico che non su quello propositivo. Assistiamo forse a un passo decisivo nella crisi del giovanile socratismo platonico, sollecitata
) Per una ricostruzione complessiva si veda ora G. Fine, Inquiry in the Meno, in The Cambridge Companion to Plato, cit., pp. 200 ss.; importante anche A. Nehamas, Meno's paradox and Socrates as a teacher, in Essays on the philosophy of Socrates, cit., pp. 298 ss.
20

dal maturare di opinioni originali, da una esigenza contemplativa cui ci siamo riferiti a proposito della insistenza sulla definizione. La difficolt proposta da Menone vuole marcare la impossibilit della ricerca di ci che in assoluto non si conosce. Infatti, quanto si ignora (assolutamente: ritorna la forma avverbiale to parapan), proprio perch ignorato, non sar neppure cercato. D'altra parte, anche ammesso che si cerchi qualcosa, se non lo si conosce preventivamente, neppure sar possibile riconoscerlo nel caso lo si incontri nel corso della indagine. In questo modo si manifesta il fondo eristico nella versione socratica: ogni ricercare sar vano, dal momento che quando si conosce non si cerca, n possibile farlo quando non si conosce.
Immortalit

Come noto, la reazione socratica alla contestazione radicale di Menone affidata al mito (orfico) delle cicliche incarnazioni di anime immortali: lautore ha laccortezza (come accade pure in altri contesti: il Simposio, per esempio) di non attribuire direttamente al maestro tale dottrina. Socrate si limita a citarla come convinzione religiosa (ben fondata) cui aderire per le sue conseguenze esistenziali e teoretiche: i) la fede nella immortalit comporta, infatti, scelte di vita rigorose, improntate alla santit; ii) la difficolt eristica pu essere risolta, in quanto diventa possibile rappresentare il processo di apprendimento non come un incomprensibile salto dal radicale vuoto di conoscenza alla conoscenza, ma come recupero e attivazione di ci che lanima ha dalleternit contemplato e quindi, dopo lassopimento nellincarnazione, pu ricordare. Conoscenza sar, dunque, in realt, reminiscenza (anamnsis). A differenza del collegato culto dionisiaco, quello orfico presupporrebbe una teologia e una precettistica, costituendosi quindi con i tratti di una religione21, come confermerebbe il passo 81 a-b, invocato in tal senso da Guthrie22, dove Socrate afferma, riferendosi a una dottrina che noi possiamo sostanzialmente riconoscere come orfica:
Le proponevano sacerdoti e sacerdotesse, che si curavano di saper dare ragione del loro ministero. Ma le dicono anche Pindaro e molti altri poeti, quelli che sono divini.

Per quanto riguarda il primo aspetto si possono sinteticamente ricordare: i) la serie di teogonie attribuite al mitico cantore Orfeo, e documentate per lo pi nella letteratura neoplatonica, ma con echi antichi, per esempio in Aristofane (Uccelli); ii) il mito dellorigine dellumanit e la connessa dottrina di una colpa originaria, che investirebbe, con le proprie conseguenze, la vita umana; iii) la collegata fede nella immortalit dellanima. A ci si richiamavano i precetti, intesi allo sradicamento della colpa e alla unione perfetta con il dio. In tal senso essi prevedevano: i) riti [teletai] di purificazione [katharsis] e di comunione (partecipazione cultuale); ii) osservanza di precise norme o tab (alimentari ecc.); iii) ascetismo, come attitudine mentale al disprezzo per il corpo.

21 22

) W.K.C. Guthrie, Orpheus and Greek religion, Princeton University Press, Princeton, 19932, p. 206. ) W.K.C. Guthrie, I greci e i loro dei, Il Mulino, Bologna, 1987, p. 370.

Sullo sfondo, come dicevamo, un mito che ci cos sinteticamente proposto, nel quadro di una presunta teogonia orfica, da un tardo (VI secolo) commentatore platonico (Olimpiodoro):
Presso Orfeo si tramandano quattro regni: il primo il regno di Urano, cui succedette Crono [] dopo Crono regn Zeus [] in seguito, a Zeus succedette Dioniso: dicono che per macchinazione di Hera i Titani che gli stavano intorno lo sbranassero e gustassero le sue carni. E Zeus, adirato, fulmin costoro, e dalla fuliggine dei vapori che si levarono da essi, sedimentata in materia, nacquero gli uomini [] difatti noi siamo una parte di Dioniso []23.

Anche in Proclo (V secolo), nella Teologia platonica e nei Commenti ai dialoghi Platone, documentato lo stesso racconto:
Ma tutte le altre parti create di Dioniso furono frantumate, dice Orfeo, dagli dei separatori, mentre il solo cuore rimase indiviso per la previdenza di Atena [] [] solo il cuore che vede lasciarono e in sette lacerarono tutte le membra del fanciullo,

dice il teologo riguardo ai Titani24.

Pur essendo le attestazioni recenti, il mito deve essere effettivamente antico, perch eco diretta della colpa titanica si riscontra ancora in Platone nelle Leggi [701 a-c] e appunto in Pindaro (V secolo) [fr. 133] (allusioni sono forse riscontrabili anche nei Katharmoi di Empedocle25), mentre la documentazione indiretta con riferimento alle conseguenze di quellomicidio pi vasta, soprattutto in Platone e nel giovane Aristotele. Significativa la citazione platonica della fonte pi antica, Pindaro:
E di coloro da cui Persefone accetter la punizione [poinan] per lantico cordoglio [paliou pentheos], nel nono anno di nuovo ne restituisce le anime [psychas] allo splendore del sole, in alto; da esse sorgono re augusti e uomini massimi, subitanei per forza e sapienza: ed eroi sacri sono chiamati dai mortali nel tempo avvenire26.

Il frammento introduce un nesso esplicito tra antico cordoglio [il termine pentheos - collegato a pasch, soffrire o provare emozioni - esprime afflizione, dolore, ma anche sventura, sciagura] e punizione [poinan, ammenda, espiazione, castigo, vendetta]. probabile, secondo le indicazioni degli specialisti (Rose, soprattutto), che si alluda al lutto di Persefone per lo sbranamento del figlio Dioniso: in tal caso, il ciclo delle reincarnazioni cui il poeta si riferisce nella seconda parte del testo, verrebbe integrato nel mito, come necessario svolgimento della dialettica colpa-pena. Per chiarire ulteriormente il senso, possiamo ricorrere a un altro famoso frammento pindarico [fr. 131b]:
Il corpo [sma] di tutti obbedisce alla morte possente, e poi rimane ancora vivente unimmagine [eidolon] della vita, poich solo questa
23 24

) Colli, La sapienza greca, Volume I, Adelphi, Milano, 19813, p. 287. ) Ibidem, p. 271. 25 ) D.K. fr. 124 [traduzione di F. Trabattoni]: Ahim! O sventurata stirpe mortale, o infelicissima! Da siffatte contese e da tali gemiti voi siete nati []. 26 ) Colli, op. cit., p. 121.

viene dagli dei: essa dorme mentre le membra agiscono, ma in molti sogni mostra ai dormienti ci che furtivamente destinato di piacere e sofferenza27.

Centrale nel brano il termine eidlon (immagine, anche fantasma), qui riferito alla parvenza di vita immortale presente nelluomo, la sua parte divina, dionisiaca, sepolta nel corpo titanico, avvolta con un manto di carni, come recita una scheggia superstite [D.K. fr. 126] del poema Purificazioni di Empedocle28. Alla stessa temperie religiosa pare riconducibile un frammento di Euripide [fr. 638 Nauck], citato da Platone nel Gorgia:
Chi sa se il vivere non sia morire e il morire invece vivere?29.

In questo quadro in fondo pessimistico della condizione umana, dobbiamo ora introdurre i riferimenti, antichi, al destino dei mortali. Pindaro pu esserci guida:
[] sotto terra qualcuno giudica i misfatti in questo reame di Zeus, dichiarando la sentenza con ostile necessit; ma godendo la luce del sole in notti sempre uguali e in giorni uguali, i nobili ricevono una vita meno travagliata, senza turbare la terra col vigore della loro mano, n lacqua marina, per una vuota sussistenza; e invece presso i favoriti degli dei che godettero della fedelt ai giuramenti essi percorrono un tratto di vita senza lacrime, mentre gli altri sopportano una prova cui lo sguardo non regge. E quanti ebbero il coraggio di rimanere per tre volte nelluno e nellaltro mondo, e di ritrarre del tutto lanima da atti ingiusti, percorsero sino in fondo la strada di Zeus verso la torre di Crono: l le brezze oceanine soffiano intorno allisola dei beati [makarn nason] []30.

Qui si accenna a cicli di incarnazione e reincarnazione - durante i quali lanima sarebbe messa alla prova e poi punita o remunerata attraverso un giudizio e conseguenti premi e punizioni -, ma anche alla possibilit di sfuggire alla necessit del traumatico passaggio nella carne, per chi sia passato, senza commettere ingiustizia, attraverso tre cicli di giudizio. Per costoro si apre la prospettiva della beatitudine in una sorta di luogo paradisiaco, designato dalla mitica isola dei beati, e dunque della ricongiunzione piena con il divino.
Anima e anamnesi

Il richiamo platonico alla tradizione religiosa potrebbe essere il segnale di una importante svolta culturale, di un accostamento pi deciso soprattutto agli aspetti speculativi dell'orfismo e del pitagorismo. D'altra parte, la scuola del filosofo31, la Accademia, costituir sempre anche
) Ibidem, p. 127. ) vestendoli <la dea> in un manto di carni sconosciuto. 29 ) Colli, op. cit., p. 139. 30 ) Ibidem, pp. 123-5. 31 ) Per questo si veda Michael L. Morgan, Plato and Greek religion in The Cambridge Companion to Plato, cit.. Egli parla in proposito di a conception of philosophy as a lifelong quest for salvation.
28 27

un centro di discussione e diffusione di idee religiose orfiche, come documentano altri grandi dialoghi e alcuni frammenti di opere perdute di Aristotele (allievo di Platone), composte probabilmente ancora all'epoca del suo soggiorno accademico. La fede nella immortalit dellanima, in particolare, trova espressione non solo nel Menone ma anche nel Fedone (esplicitamente dedicato al tema), nella Repubblica, nel Fedro, fino al tardo Timeo. Non si deve tuttavia pensare a una adesione indiscriminata. In realt Platone intreccer alle credenze dualistiche tipiche dellorfismo (destino della anima-demone, imprigionata per essere emendata - nel corpo) convinzioni cresciute con la lezione pitagorica (la scienza come strumento di purificazione), quella socratica (il nesso anima-intelligenza, la sua essenzialit per luomo) e altre genuinamente platoniche (la relazione metafisica tra anima e idee). In quale accezione si parla di psych nel Menone? Abbiamo gi registrato la centralit del concetto a proposito della virt: non c' dubbio che vi convergesse pesantemente la elaborazione socratica32, tuttavia, proprio a partire dal nostro dialogo, si fanno palesi i nuovi intrecci. Il problema dell'anima si salda indissolubilmente ad altri, quali quello gnoseologico e ontologico. Lanima, infatti, identificata, socraticamente, con la personalit intellettuale delluomo, ci che egli essenzialmente , e da cui sgorgano il suo conoscere, le sue scelte, il suo agire: in altre parole, ci cui si collega il suo destino. Il Fedone (dialogo prossimo, da diversi punti di vista, al Menone) far emergere quattro caratteri fondamentali della psych: i) intelligenza, ii) natura metafisica, iii) immortalit, iv) destino escatologico [legato alla sua immortalit]. In particolare, lanima sar, secondo il filosofo, in grado di conoscere le idee, enti eterni e immutabili, in quanto a esse congenere: il corpo, con i propri organi, pu infatti cogliere le cose sensibili, che appartengono al suo stesso livello ontologico; lanima, dal canto suo, conosce nella misura in cui consta della stessa realt metasensibile degli enti che fondano il sapere, con la loro stabilit ontologica. Nel nostro contesto manca una teoria delle idee, ma gli altri elementi sembrano senz'altro presenti. Cos, tornando alla citazione platonica del mito orfico, essa, di l dalle valenze religiose e esistenziali, allude, da un punto di vista teoretico, a una piena professione di razionalismo. Platone, in altre parole, utilizza la fede nella immortalit dellanima sia per manifestare la propria adesione allo stile di vita che tale convinzione implicava nella tradizione, sia per veicolare pi facilmente la propria fiducia nelle capacit della intelligenza umana. Contro il relativismo sofistico di fatto manifestato da Menone - per il quale risulta impossibile definire la virt dal momento che, a suo modo di vedere, esistono virt specifiche per ogni categoria di persone - e lottusit della cultura tradizionale (incarnata pi avanti nel dialogo da Anito), lautore fa s che Socrate si riferisca a una credenza che poteva giustificare, sul piano del mito, la pretesa della razionalit umana di conoscere la realt, a partire dalla oggettivit delle proprie nozioni. In questo modo Platone legittimava anche la aspirazione a un sapere forte, in ultima analisi indipendente rispetto alla esperienza: un sapere, per la propria matrice interna allanima, a priori. Ci poteva essere interpretato anche alla luce della lezione eleatica come una convergenza di pensiero e essere: le nozioni che lanima trae da s sono

) Sul contributo socratico alla messa a fuoco del concetto di anima si vedano i recenti F. Sarri, Socrate e la nascita del concetto occidentale di anima, Vita e Pensiero, Milano, 1997; G. Reale, Corpo, anima e salute. Il concetto di uomo da Omero a Platone, nonch i due contributi di Jan Patoka da poco tradotti in italiano: Platone e l'Europa, a cura di G. Reale, Vita e Pensiero, Milano, 1997, e Socrate, a cura di G. Girgenti e M. Cajthaml, Rusconi, Milano, 1999.

32

riflesso della contemplazione intellettuale, nel mito collegata alla condizione dellanima, libera di esperire tutte le cose, quelle di qui e quelle dellAde. Tuttavia, Platone anche nel mito distingue tra potenziale disponibilit e attivo impiego: i) ci che lanima ha contemplato, essa lo porta in s come disposizione; ii) la trasparenza di tali disposizioni si attua nella pratica pedagogica, come sollecitazione al recupero di quanto stato momentaneamente dimenticato; iii) tale sollecitazione dovrebbe aver luogo nel dialogo, attraverso linterrogare [come mostreranno le pagine successive]: la reminiscenza stimolata con accostamenti sensibili (esempio: le figure tracciate allusive degli enti matematici) e soprattutto dallincalzare delle domande intorno alla essenza delloggetto indagato; iv) la reminiscenza (conoscenza) un processo: gli enti sono tra loro connessi, e il recupero della nozione delluno consente, con uno sforzo adeguato, di conquistare a coscienza anche quella degli altri. Si tratta, in fondo, di una riformulazione, nel riferimento a conoscenze potenzialmente disponibili allanima, della dialettica socratica, la quale, rinviando a un criterio immanente di verit, poteva sfuggire ai rischi della inconcludenza.
Scienza e opinione corretta

Alla sottolineatura delle implicazioni della fede nella immortalit dell'anima sulla difficolt eristica sollevata da Menone, Platone fa seguire una esemplificazione che ha quasi valore di dimostrazione: un servo del seguito viene sottoposto a interrogatorio da parte di Socrate, e, pur non essendo stato mai istruito in geometria, riesce, guidato dalle domande dell'interlocutore, a formarsi una corretta opinione relativamente al problema della incommensurabilit tra lato e diagonale di un quadrato. Il fatto che non sia stato sottoposto a trasmissione di nozioni e abbia comunque conseguito - con il solo supporto dell'interrogare socratico - un primo risultato positivo nella ricerca, ricavandolo in pratica unicamente dal proprio sforzo, supporta, da un lato, la tesi della conoscenza come anamnsis, dall'altro, circolarmente, la convinzione immortalista33:
E ora queste opinioni [doxai] sono emerse [anakekintai] in lui, come un sogno; se qualcuno lo interrogher [anersetai] spesso su queste stesse cose e in molti modi, stai sicuro che alla fine ne avr scienza non meno esatta [oudenos htton akribs epistsetai] di qualsiasi altro [85c].

La osservazione socratica funzionale al rilievo: i) della efficacia catartica della dialettica, come elenchos, confutazione capace di rimuovere il pregiudizio e l'errore e di contribuire, quindi, nell'orizzonte della nuova metafisica dell'anima, al recupero della verit latente; ii) della continuit tra doxa e epistm: la opinione (che pi avanti sar definita corretta) non che un primo stadio del processo di emersione [sintomatico l'uso del verbo] di quel che l'anima porta in s dall'eterno. Il processo cos globalmente scandito da tre momenti, che sembrano pensati come passaggi fondativi per la dialettica socratica34:

33 34

) Per il dettaglio si rinvia al commento. ) Per questo in particolare N. Gulley, Plato's theory of knowledge, Greenwood Press, Westport - Connecticut, 19862, pp. 13 ss.

i) il primo propriamente negativo, e produce quella disillusione rispetto alle immediate certezze, che stimola la ricerca della verit; ii) il secondo quello della orth doxa, in cui la verit riconosciuta ma non ancora giustificata: se ne constata il che senza conoscerne il perch; iii) il terzo quello epistemico, in cui appunto si d reale fondazione del sapere, attraverso la ricostruzione logico-causale. Platone propone nelle domande al (giovane?) servo e nei successivi interventi di esemplificazione socratici un modello di sistematica interrogazione tesa in prima istanza a trarre dall'interlocutore il riconoscimento di una verit. Ci avviene attraverso la falsificazione delle opinioni immediatamente espresse dal servo di fronte al problema geometrico di partenza. A questo compito critico, applicato a un tema matematico, e sviluppato almeno in parte - mi pare35 - in forma elenchica (attraverso il ricorso alla confutazione), il filosofo affianca quello illustrativo-intuitivo con immagini, tracciate conformemente alle nozioni (lati, quadrati, diagonali) coinvolte. Queste svolgono un ruolo importante in vista del riconoscimento da parte dell'interrogato (quindi nella originaria determinazione dell'opinione corretta), con una interessante implicazione: verit prospettate come innate sono sollecitate attraverso l'esperienza. Nella Repubblica tale approccio esemplificativo-sensibile sar stigmatizzato come uno dei limiti delle discipline matematiche, nonostante la loro intenzionalit intelligibile. Infine, una adeguata riflessione sulla verit riconosciuta, condotta sulla scorta di una consapevole interrogazione, pu assicurare l'effettiva traduzione della opinione nella conoscenza, il passaggio dalla constatazione alla giustificazione della verit. Perch questo avvenga necessario ricomporre il tessuto di relazioni logiche entro cui la verit si colloca. Si tratta di quello sforzo di rinvenimento anamnestico che Platone sostiene insistendo sulla fondamentale consustanzialit della natura [physes apass sunghenous ouss], che autorizza il progressivo dipanarsi del filo logico che collega reciprocamente gli enti. Pi esplicitamente Platone si esprime nell'ultima parte del dialogo, marcando lo scarto tra opinione corretta e scienza:
Le opinioni vere [doxai altheis], per quanto tempo stanno ferme, costituiscono in effetti un bel possesso e producono ogni bene. Tuttavia non vogliono stare ferme [paramenein] troppo tempo, e fuggono [drapeteuousin] dallanima [ek ts psychs] delluomo, cos che non sono di grande valore, fino a quando qualcuno non le leghi con un ragionamento sulla causa [aitias loghism]. Ma questo, caro Menone, reminiscenza [anamnsis], come abbiamo in precedenza convenuto. Quando sono legate, prima diventano scienze [epistmai], poi stabili [monimoi]. Per questo la scienza di maggior pregio dellopinione corretta: la scienza si differenzia dalla opinione corretta [orth doxa] per il suo vincolo [desm] [97e - 98a].

Il testo consente di cogliere alcuni risvolti rilevanti della posizione platonica: i) la contrapposizione tra la stabilit, la permanenza del sapere e lo scorrere dell'opinare [sar riproposta efficacemente nel Cratilo]: la labilit delle opinioni vere rappresentata come risultato della loro accidentalit, del loro mancato inquadramento in un concatenamento concettuale che le fonderebbe come verit. Platone riconosce esplicitamente alla scienza una funzione vincolante in senso logico-ontologico: essa riconduce la opinione corretta alle sue ragioni [aitiai, nel significato di cause, fondamenti], la lega nel suo ragionamento [loghismos];

) Decisamente di questa opinione K.M. Sayre, Plato's late ontology. A riddle resolved, Princeton U.P., Princeton, 1983, p. 190.

35

ii) d'altra parte, almeno nel Menone, la relativa equivalenza pratica di opinione vera e scienza: come stato sottolineato36, nel nostro dialogo esse non individuano classi di proposizioni (oggetti) diverse, ma due diversi atteggiamenti razionali, proposti in sostanziale continuit, a differenza di quanto accadr nei grandi dialoghi della maturit (Repubblica); iii) netta anche la proposta del nesso tra conoscenza e reminiscenza: la continuit appena marcata essenzialmente anamnestica, e la traduzione della orth doxa in epistm avviene come approfondimento del patrimonio innato dell'anima.
Metodo
Sembra dunque necessario esaminare come sia ci che ancora non sappiamo che cosa sia! Se non altro, cedimi un poco del tuo comando e concedimi di esaminare per ipotesi se sia insegnabile o come sia. Dico per ipotesi [ex hypotheses] nel senso in cui i geometri spesso procedono nel loro esame, quando qualcuno domanda loro se, per esempio, a proposito di una superficie, essa possa essere inscritta come un triangolo in un determinato cerchio: uno di loro risponderebbe: "Non so ancora se sia possibile, ma credo che sia utile a tal fine introdurre una ipotesi: se questa superficie tale che, tracciandola lungo una linea data, rimanga lo spazio per una superficie uguale a quella tracciata, mi sembra che si abbia una conseguenza, e se ne abbia unaltra, invece, se impossibile che sopporti queste condizioni. Procedendo per ipotesi potr dirti se sia impossibile o no la sua iscrizione nel cerchio" [86e - 87b].

Tutta la seconda parte del dialogo dominata dall'esercizio di analisi a partire dalla ipotesi che la virt sia scienza, introdotta - sulla base del suggerimento socratico - per poter procedere a stabilirne la eventuale insegnabilit in mancanza di una preventiva conoscenza del suo che cosa, della sua essenza. Il testo documenta sostanzialmente la pratica di analisi della geometria contemporanea: essa consisteva tecnicamente nella ricerca della prova di una proposizione P ricorrendo alle proposizioni che implicano P, a quelle che a loro volta le implicano, fino allarresto di fronte a una proposizione Q gi provata. Q, con le altre proposizioni connesse, rappresentava la condizione sufficiente della verit di P: se P implicava Q, questa era allora anche la sua condizione necessaria. Un altro termine tecnico collegato, da tenere presente sullo sfondo del metodo proposto dal filosofo, quello di diorismos: esso corrispondeva alla determinazione delle condizioni necessarie e sufficienti per la soluzione di un problema o la verit di una proposizione. Per lemma, infine, si intendeva semplicemente la assunzione ipotetica, necessitante di verifica, introdotta in vista della soluzione di un problema. 37 Il rilievo del metodo per Platone connesso alla sua natura di esercizio puramente intellettuale, funzionale alla sforzo di fondazione, giustificazione razionale, di asserti e tesi, quindi in larga misura assimilabile alla prassi discutiva seguita da Socrate, di cui sviluppava sistematicamente - nel senso della rigorosa deduzione - gli aspetti critici in una prospettiva positiva. stato segnalato, infatti, che l'uso platonico delle ipotesi pi vicino alla sua significazione dialettica di assunzione provvisoria allo scopo della disamina critica, che non alla sua valenza tendenzialmente assiomatica nella matematica del tempo38. Di per s, il termine hypothesis deriva da hypotithemai, composto di tithmi, che ha il senso di ammetto, postulo, per indicare il ricorso a una operazione consapevole e arbitraria di assunzione. Il composto hypotithemai suggerisce l'idea del porre sotto, che nel contesto di una argomentazione, finisce con il significare l'adozione di proposizioni fondamentali che fungono da punto di partenza per la deduzione39. In Platone interessante soprattutto il nesso
36

) I.M. Crombie, An examination of Plato's doctrines. Vol. II: Plato on knowledge and reality, Routledge and Kegan Paul, London, 1979, p. 51. 37 ) I. Mueller, Mathematical method and philosophical truth, in The Cambridge Companion to Plato, cit., p. 175. 38 ) Canto-Sperber, op. cit., p. 96. 39 ) Per questo W. Leszl, La dialettica in alcuni autori antichi, Pisa, 1993, p. 176.

tra ipotesi e conseguenze logiche che se ne possono dedurre, nel senso che il ricorso alla postulazione deliberatamente finalizzato al risultato, il postulare in vista di un risultato che dipende da quanto viene assunto. Nel caso del Menone evidente che Platone ricorre al metodo per supplire la conoscenza diretta della essenza della virt. La ipotesi-teorema [secondo il modello matematico40] si presenta come un asserto che esprime la condizione: se la virt scienza, essa insegnabile, di cui da stabilire la ipotesi-lemma: la virt scienza. Ci avviene attraverso l'accertamento dell'esistenza di casi in cui la virt risulti insegnabile. Nella applicazione, quindi, il filosofo necessariamente diverge dall'esercizio puramente intellettuale del matematico, dal momento che la verifica della condizione avviene nel ricorso alla fattualit, ai dati concreti della esperienza, la cui registrazione sembra in grado di confermare o sconfermare l'ipotesi di partenza41. D'altra parte la strategia metodologica messa in atto si sostanzia di un contesto ipotetico pi complesso, come risulta chiaro dall'attacco dell'argomento socratico:
Cos anche noi a proposito della virt. Dal momento che non sappiamo n che cosa sia n come sia, procedendo per ipotesi esaminiamo se essa si possa insegnare o non si possa insegnare. Diciamo cos: se la virt possiede una certa propriet, tra quelle che riguardano lanima, sar o non sar insegnabile? In primo luogo, se diversa dalla scienza, sar o non sar insegnabile, ovvero, come dicevamo poco fa, sar oggetto di ricordo (non faccia per noi alcuna differenza luso di una espressione o dellaltra)? Ma insegnabile? O non a tutti chiaro che nientaltro insegnato alluomo se non la scienza? - Mi sembra. - Se per la virt una scienza, evidente che si pu insegnare. - Come no? - Di questo punto ci siamo, dunque, liberati velocemente: se tale insegnabile, altrimenti no. - Certamente. - Dopodich, come sembra, si deve esaminare se la virt scienza o diversa dalla scienza. - Anche a me pare che questo sia da esaminare di seguito. - Che dunque? Non diciamo forse che la virt un bene? Non rimane per noi questa ipotesi, che essa sia un bene? - Certo. - Allora, se c qualche altro bene separato dalla scienza, la virt potrebbe non essere scienza. Ma se non c alcun bene che la scienza non abbracci, ammettendo che la virt sia una scienza, la nostra supposizione sar corretta. - cos [87b-d].

Qui accanto alla ipotesi teorema e alla ipotesi-lemma possiamo cogliere una terza ipotesi, la virt un bene, che nell'insieme viene utilizzata da Platone come un principio condiviso, un assunto in qualche misura evidente nella opinione corrente, anche per il proprio interlocutore: una accezione molto vicina a quella di ipotesi in ambito matematico. Si tratta per di una ipotesi che logicamente precede l'altra nella sua formulazione: se la virt un bene, essa scienza. Essa non sottoposta a verifica probabilmente proprio perch appoggiata alla opinione corrente, tuttavia principio dell'argomento (nelle ultime righe del brano) che serve a provare che la virt scienza42 Anche in questo il Menone si rivela dialogo di transizione, in cui l'autore si sforza di integrare le tecniche analitiche della coeva prassi matematica all'interno del modello dialettico socratico, finendo per impiegare dialetticamente le ipotesi come spunti per l'esame critico ovvero per assumere, secondo il costume matematico, endoxa [opinioni in fama, comunemente accolte] tendenzialmente come assiomi. Con la conseguenza di una sostanziale identificazione della dialettica con il procedimento discutivo per ipotesi.
Sviluppi

Bench non si possa parlare di una replica esatta, certamente possiamo registrare affinit tra le posizioni del Menone e quelle espresse dall'autore in un famoso passo del Fedone:
[] vuoi che ti esponga, Cebete, la seconda navigazione che intrapresi alla ricerca della causa? Lo voglio immensamente, disse. Dopo di ci, disse, poich mi ero scoraggiato di indagare gli
40 41

) Mueller, op. cit., p. 179. ) Leszl, op. cit., p. 177. 42 ) Ibidem.

enti, mi sembr che dovessi stare attento a non subire ci che subiscono quelli che, nellindagare, contemplano il sole quando si eclissa: alcuni perdono gli occhi, se non ne osservano limmagine nellacqua o in qualcosa di simile. A questo modo pensai anchio e temetti di diventare completamente cieco nellanima osservando le cose con gli occhi e tentando di coglierle con ciascuno dei sensi. Mi parve che dovessi rifugiarmi nei discorsi ed indagare in essi la verit degli enti. In qualche modo, forse, il paragone non appropriato, perch non ammetto affatto che indagare gli enti nei discorsi sia indagarli in immagini pi che nella loro realt. Mi avviai dunque per questa strada e, ponendo come ipotesi in ciascun caso il discorso che giudico pi forte, pongo come cero quanto mi sembra in accordo con esso, sia riguardo alla causa sia riguardo a tutte le altre cose, mentre quelle che non mi sembrano in accordo le pongo come non vere. Ma voglio esporti pi chiaramente ci che intendo dire, perch credo che tu per ora non capisca. No, per Zeus, disse Cebete, non molto. Ci che dico non nuovo, ci che altre volte e anche nel discorso precedente non ho mai cessato di dire. Vado cercando di mostrarti la specie di causa di cui mi sono occupato e arrivo nuovamente alle stesse cose sovente ripetute e comincio da esse, ponendo come ipotesi che esista un bello in s e per s, un grande e cos via. Se me lo concedi e concordi che tali cose esistono, spero di poterti mostrare e di scoprire, partendo da esse, la causa per cui lanima immortale [99d 100b. Traduzione di W. Leszl]. [Socrate, con lesempio del due come partecipazione alla dualit, invita i propri interlocutori a evitare il ricorso a spiegazioni causali che giustifichino il due come risultato di addizioni o divisioni] E diresti addio a tali divisioni, addizioni e altre sottigliezze del genere, lasciandole da dare in risposta a quelli pi sapienti di te. Tu, invece, temendo, come suol dirsi, la tua stessa ombra e inesperienza, attenendoti alla solidit dellipotesi, risponderesti cos. E se qualcuno si appigliasse allipotesi come tale, tu lo lasceresti perdere e non gli risponderesti, finch non avessi esaminato se le conseguenze derivanti da essa ti sembrino in accordo o in disaccordo tra loro. E quando poi tu dovessi render conto dellipotesi stessa, non procederesti forse allo stesso modo, ponendo di nuovo unaltra ipotesi, quella che ti sembri la migliore fra quelle che sono pi elevate, fino ad arrivare a qualcosa di sufficiente, senza fare tuttavia confusione, come gli antilogici, che discutono del principio e insieme delle conseguenze da esso derivanti, se almeno tu volessi scoprire qualche cosa di vero circa gli enti? Perch costoro non hanno nessun discorso e nessun pensiero al riguardo, capaci come sono di piacere solo a se stessi, pur mescolando insieme tutto quanto con la loro sapienza. Ma tu, se davvero sei filosofo, farai, credo, come dico io [101c 102a. Traduzione di W. Leszl].

Complessivamente i due estratti sviluppano quella che Platone, per bocca di Socrate, propone come la propria originale strategia di ricerca, che, analogamente a quanto registrato nel caso del Menone, sullimpianto del precedente dialettico socratico, innesta il contributo metodologico della contemporanea analisi matematica. Vediamo di fissarne complessivamente gli elementi essenziali: i) apertura e chiusura rivelano che la procedura indicata intesa come autenticamente filosofica; ii) in particolare, essa viene presentata come seconda navigazione rispetto al precedente della ricerca naturalista e della sua pretesa di rivolgersi direttamente agli enti fisici: Platone ne sottolinea, quindi, la svolta in senso meta-fisico, ma, nel contesto, anche la debolezza [la espressione seconda navigazione usata, nella letteratura antica e anche in altri dialoghi platonici, nel senso di soluzione di ripiego]; iii) come illustra laccostamento alleclisse, il procedimento consiste nella rinuncia allapproccio sensibile alle cose e nel ripiegamento nei logoi (enunciati, argomenti), cio nella mediazione dei simboli linguistici e delle costruzioni discorsive, il cui oggetto non per pi rappresentato dalle cose sensibili ma dagli enti intelligibili postulati dallautore [idee]; iv) lindagine mediante i logoi vuole forse sottolineare la difficolt di una apprensione diretta delle idee, ma in ogni caso costituisce per luomo lorientamento corretto verso la realt, rispetto alla tradizione naturalista, di cui viene, significativamente, conservato limpianto eziologico: la filosofia conferma cos la propria natura esplicativa, intesa a disvelare i principi della realt;

v) concretamente il metodo di ricerca si fonda sul modello della analisi matematica e comporta la adozione delle ipotesi che nei vari contesti siano considerate pi forti per la esplicazione di un problema. Le assunzioni saranno poi sviluppate orizzontalmente, con il collegamento a ipotesi convergenti e la esclusione di quelle divergenti, e verticalmente [regressivamente] con lappoggio a ulteriori, superiori, ipotesi, in grado di giustificare le precedenti, fino a giungere, al limite, a una ipotesi che non necessiti giustificazione e sia dunque sufficiente. Sul metodo per ipotesi Platone sarebbe poi tornato nei libri centrali della Repubblica, in un contesto pi sistematico dal punto di vista ontologico:
- Insomma, continuai, pensa che ci siano due principi, e che luno domini il genere e il mondo intelligibile, laltro quello visibile [] Hai ben colto queste due specie di realt? Le ho colte. Allora, prendi una linea divisa in due parti disuguali, e dividi ancora ciascuna di esse quella del genere visibile e quella del genere intelligibile in due parti, secondo la stessa proporzione. Se poi consideri le due parti del genere visibile secondo la rispettiva chiarezza e oscurit, avrai una prima sezione che dico delle immagini. E per immagini intendo in primo luogo le ombre, in secondo luogo i riflessi, sia sullacqua che sui corpi lisci e lucidi, e infine tutte le altre del genere. Mi segui? Ti seguo. Nellaltra sezione poni le cose cui si riferiscono le immagini, e cio gli animali che ci circondano, i vegetali e tutti i prodotti delluomo. Ve bene. E non diresti che questa parte si divide in vero e falso, e che le immagini stanno alle cose cui corrispondono come loggetto della opinione sta alloggetto della conoscenza? S, lo direi. Considera allora in che modo si debba dividere la parte dellintelligibile. In che modo? Questo: che la sua prima sezione lanima sia costretta, per indagarla, a servirsi, come di immagini, delle cose cui, nella parte precedente, le immagini corrispondevano, passando, per via di ipotesi, non su verso il principio, ma verso le conclusioni; e che la seconda invece lanima proceda a indagarla risalendo dalle ipotesi a un principio non ipotetico, senza servirsi, come nella prima, di quelle immagini, ma soltanto con le idee e per mezzo delle idee. Questultimo punto, disse, non lho capito bene. E allora cominciamo di nuovo, premettendo alcune considerazioni per facilitarti. Tu sai senzaltro che chi si occupa di geometria, di aritmetica e di altre questioni del genere, d per scontato il pari e il dispari, le figure e i tre tipi di angoli, e altre cose del genere, a seconda della scienza che studia, e le assume come ipotesi, e non ritiene pi necessario discuterle n con s n con gli altri, prendendole come principi evidenti per tutti, e partendo appunto da tali principi, passa a trattare le altre questioni, ricavando di conseguenza in conseguenza la conclusione che si era proposto. Questo lo so, disse. E allora sai anche che si servono di figure visibili e su esse sviluppano delle dimostrazioni, ma non si riferiscono a queste figure, bens alle cose cui esse somigliano: per esempio, discutono del quadrato in s, della diagonale in s, e non del quadrato, della diagonale o della figura che stanno tracciando; di queste figure, si servono come immagini per giungere a cogliere altre realt, che sono in s e per s e che non si possono cogliere che con lintelligenza. vero, disse. Questo genere di realt, che io detto intelligibile, lanima, per indagarlo, costretta a servirsi di ipotesi, non per giungere al principio, perch oltre lipotesi non pu andare, ma usando come immagini di quegli oggetti che nell'altra parte della linea corrispondono alle immagini, ma che, rispetto a quelle immagini, sono considerati come realt. Capisco, ti riferisci alla geometria e alle scienze affini. Sappi allora che laltra sezione dellintelligibile per me quella che la ragione stessa coglie in virt della propria attivit dialettica, considerando le ipotesi non come principi ma per quello che sono, ossia come punti di partenza e di appoggio per giungere a ci che non pi una ipotesi, il principio di tutto; e raggiunto questo, e tenendosi ferma a ci che da esso deriva, discende alle ultime conclusioni, senza ricorrere mai ad alcun elemento sensibile, ma soltanto alle Idee in s e per s, passando dalluna allaltra e concludendosi in unIdea. Capisco, disse, ma non del tutto, perch tu parli, mi pare, di unattivit estremamente complessa: tu vuoi dire, mi pare, che quella conoscenza dellessere in s e dellintelligibile che si ottiene con la scienza dialettica pi chiara di quella che si ottiene con le altre scienze, che si basano su ipotesi; perch anche quelli che cercano di conoscere gli oggetti di queste scienze sono costretti a condurre la loro indagine non con i sensi ma collintelligenza, ma lo fanno non risalendo al principio ma partendo da ipotesi, e perci a te sembra che di tali oggetti essi non possano avere conoscenza piena, anche se sarebbero intelligibili, una volta ricondotti al loro principio. E mi pare che quella di chi si occupa di geometria e di altre scienze del genere tu la chiami ragione non intelletto, e la consideri a met tra lopinione e lintelligenza. Hai capito benissimo, esclamai. E ora, fai

corrispondere a ciascuna delle quattro sezioni una funzione dellanima: a quella pi alta lintellezione, alla seconda la ragione, alla terza la credenza, alla quarta la congettura; e sistema poi il tutto per ordine di chiarezza, tenendo presente che ne hanno tanto pi quanto pi il loro oggetto partecipa alla verit [Repubblica, VI, 509 d 511 e. Traduzione di E. Chiari].

Larticolazione dellimmagine sufficientemente perspicua: i) la linea rappresenta globalmente la realt, sdoppiata in sensibile e intelligibile, e le corrispondenti competenze gnoseologiche (opinione e scienza); ii) le suddivisioni interne alle due sezioni corrispondono, a loro volta, a specifiche aree ontologiche e alle omologhe modalit di relazione percettiva e conoscitiva; iii) questo vale soprattutto nel caso del visibile (horaton): immagini e cose naturali si pongono in una chiara relazione mimetica. Ombre e riflessi si allineano allestremo limite della consistenza, in quanto effetto di una proiezione delle cose [a loro volta imitazioni degli oggetti intelligibili]: tolte le cose, le immagini svanirebbero. In questo senso queste hanno il proprio fondamento in quelle; iv) complessivamente, al livello ontologico costituito da immagini e cose correlata la opinione (doxa), nella forma estenuata della immaginazione (eikasia) e in quella, pi concreta per lattestazione di esistenza degli enti naturali, della credenza (pistis); v) per quanto riguarda il piano dellintelligibile (noton), pi che sulla distinzione ontologica lanalisi platonica sembra vertere sulla contrapposizione metodologica della ricerca; vi) protagonisti sono da un lato lanima, dallaltro i suoi oggetti intelligibili: si potrebbe forse intravedere una loro disposizione gerarchica, con enti matematici subordinati a idee, ma nel contesto essa non risulta esplicita; vii) Platone, invece, procede marcando due distinti approcci allintelligibile, quello della ragione (dianoia) matematica e quello della intelligenza (nosis) dialettica; viii) la prima si serve di assunzioni intelligibili (figure, relazioni ecc.) che viene per esemplificando sul piano sensibile - imponendo cos un nuovo nesso mimetico con il piano delle cose [imitazioni di strutture geometriche]: senza curarsi di fornire una vera fondazione a quelle ipotesi, essa le sviluppa come premesse per risolvere i propri problemi; ix) la seconda, al contrario, procede da ipotesi intelligibili, ma, considerandole tali, si impegna in un esercizio [dialettico, di discussione e verifica] puramente intellettuale [di mera contemplazione da parte dellintelligenza, nosis], secondo un percorso ascensionale, a risolverle in un vero principio, che non richieda ulteriori postulazioni (anhypotheton), da cui ridiscendere per determinare il quadro degli enti intelligibili [le ipotesi fondate, idee]. Si pu osservare come la struttura ontologica delineata manifesti globalmente un assetto verticale, con livelli che svolgono un ruolo di fondazione rispetto a quelli che seguono, essendo in ultima analisi fondati nel principio incondizionato. A essa corrisponde una gerarchia di facolt e disposizioni del corpo e dellanima [immaginazione, credenza, ragione, intelligenza], che ne garantiscono il rispecchiamento gnoseologico e quindi, in campo scientifico, la ricostruzione archeologica culminante nella apprensione noetica (contemplazione) del principio. La fondazione, intesa a un tempo come funzione logica [consente di dar ragione del proprio oggetto] e ontologica [consente di spiegarne la esistenza] di giustificazione della presenza e della natura degli enti, tradotta nella relazione di proiezione-imitazione, evidente sul piano sensibile, pi sfumata e sfuggente su quello intelligibile. proprio in relazione a questo ambito, oggetto specifico della epistm, che Platone offre il contributo pi originale, demarcando nettamente due applicazioni scientifiche, matematica (in senso lato, comprendente discipline come aritmetica, geometria, astronomia, armonica) e dialettica, ampiamente attestate come insegnamenti cardinali allinterno della sua scuola.

Esse sono disposte in un ordine gerarchico che anche pedagogico e propedeutico: le discipline matematiche dischiudono lessere in senso pieno, ma lo fanno, rispetto alle esigenze platoniche di fondazione, in modo ancora incerto, dal momento che i loro procedimenti analitici, di ricerca delle condizioni di risoluzione di un problema o giustificazione di un certo oggetto intelligibile, rimangono ipotetico-deduttivi, ricavando la soluzione da premesse assunte per supposizione, con laggravante nel quadro ontologico tracciato con la immagine della linea di un appoggio esemplificativo nella intuizione sensibile, che non qualifica lesercizio matematico come puramente cognitivo; la capacit dialettica sembra muovere dalle stesse premesse ipotetiche, ma, limitandosi al loro esame, senza proiezioni sensibili, ricerca le loro ulteriori condizioni, per giungere al saldo approdo di una condizione ultimativa, assoluta. Possiamo immaginare che, rispetto al limitato raggio delle postulazioni matematiche (che investono oggetti come numeri e figure geometriche, applicabili anche ai contesti disciplinari della astronomia e della armonica), la dialettica dilatasse il campo intelligibile, coinvolgendone tutte le articolazioni essenziali, dapprima come condizioni necessarie o accessorie, quindi, dopo lintelligenza del principio incondizionato, come enti da questo dipendenti e a esso connessi [un esercizio di discriminazione dei nessi e delle correlazioni tra idee attestato soprattutto nella produzione matura e tarda dellautore]. Certo, rispetto ai modelli metodologici del Menone e del Fedone, nella Repubblica registriamo apparentemente una frattura tra dialettica e analisi, cui sono riconosciuti limiti (per esempio il ricorso esemplificativo all'ambito empirico, il privilegiamento dell'approccio ipotetico-deduttivo) in realt ampiamente sfruttati nel Menone, che, in questo senso, potrebbe davvero rappresentare un dialogo di svolta.
Conclusioni: un dialogo politico?

Le osservazioni sparse che precedono credo siano comunque servite a segnalare il groviglio di temi che il Menone, come molti altri dialoghi platonici, propongono al lettore. Pu risultare quindi sorprendente il fatto che, dopo tanti sforzi e tante suggestioni, l'esito del testo rimanga apparentemente negativo. Infatti, a differenza di altri dialoghi socratici - egualmente aporetici ma molto pi esili -, il nostro vede concentrarsi il primo nucleo della riflessione metafisica e escatologica della maturit, con importanti precisazioni epistemologiche e metodologiche. Eppure il risultato, alla fine, non cambia: il problema della virt rimane sospeso. La sua definizione sfuggita al giovane protagonista, nonostante le pretese iniziali, n stata integrata dal soccorso socratico, pronto a stigmatizzare le insufficienze dell'approccio di Menone e utile nell'indicare - attraverso la esemplificazione con il servo - la via per giungere alla soluzione, ma senza percorrerla fino in fondo. La sua insegnabilit - per provare la quale Platone fa ricorso (in assenza di una soddisfacente determinazione della ousia di aret) al supporto del modello analitico matematico - non corroborata dalla esistenza de facto di maestri e dal successo di coloro cui stata riconosciuta capacit di direzione politica [virt politica] nel trasmetterla ai propri eredi. L'unico elemento positivo parrebbe l'accenno conclusivo alla possibilit di un politico effettivamente in grado di formarne altri, prospettato per, omericamente, come Tiresia tra i morti: egli solo intelligente, mentre gli altri sono ombre erranti. Questo forse il nodo: la crisi politica della citt e Socrate come nuovo politico. Ci darebbe senso alla comparsa di Anito e alla scelta di Menone, giovane comandante destinato a prematura scomparsa durante la spedizione di Ciro il Grande contro Artaserse, nel 401-400 a.C., e anche alle allusioni al destino del filosofo tra le righe dei loro interventi. In effetti, il dialogo, prima come repertorio dei valori correnti di aret, poi come rilievo della fragilit

delle ambizioni politiche della nuova generazione cresciuta alla scuola della sofistica, quindi come denuncia della ottusit di un rappresentante tipo della contemporanea classe dirigente democratica, sembra mettere a nudo il vuoto politico all'origine della crisi. Di contro, Platone delinea almeno tre ambiti di ricerca - l'essenza e la sua definizione, l'anima e il suo destino, il metodo - che nel corso dello stesso dialogo finiscono per produrre l'effetto congiunto di una prima convincente approssimazione generale alla virt. Come abbiamo sopra marcato, quella che registriamo alle righe 88b-89a, con la connessione della aret all'anima e la sua riduzione a epistm. Il fatto che non si possano individuare maestri capaci di insegnarla non pu logicamente annullare del tutto l'indicazione platonica. Tanto pi se consideriamo - come abbiamo gi ricordato - che tale constatazione pare riferirsi ancora solo a un aspetto particolare - quello appunto della virt politica - che Platone sembra sfruttare soprattutto per le sue implicazioni polemiche, trasparenti nel coinvolgimento dei grandi, di cui si rimarca la virtuosa fatalit nella storia ateniese, piuttosto che la virtuosa e consapevole competenza. L'impianto intellettualistico, guadagnato nel corso della discussione non viene comunque radicalmente scosso. La conclusione allora da intendere forse pi nel senso del disconoscimento di una reale eccellenza ai politici e della proposta alternativa del modello socratico integrato dalla lezione escatologico-metafisica presente nella prima parte dell'opera, che non in quello di una riproblematizzazione dell'intero impianto delineato.
Bibliografia essenziale Edizioni consultate

Platonis Opera, a cura di J. Burnet, vol. III, Oxford, 1903 Plato, Meno, introduction, edition and commentary by R.S. Bluck, Cambridge, 1961 Platone, Dialoghi filosofici, a cura di G. Cambiano, vol. I, Utet, Torino, 1970 Platon, Mnon, traduction et presentation par M. Canto-Sperber, Flammarion, Paris, 1991 Platon, Menon, auf der Grundlage Uebersetzung von O. Apelt in Verbindung mit E. Zekl neu bearbeitet und herausgegeben von K. Reich, Meiner, Hamburg, 1993 Platone, Menone, traduzione e introduzione di F. Adorno, Laterza, Roma-Bari, 1997 Platone, Menone, a cura di G. Reale, con un saggio di I. Toth, Rusconi, Milano, 1999
Principali studi utilizzati

I.M. Crombie, An examination of Plato's doctrines. Vol. II: Plato on knowledge and reality, Routledge and Kegan Paul, London, 1979 V. Meattini, Anamnesi e conoscenza in Platone, ETS, Pisa, 1981 K.M. Sayre, Plato's late ontology. A riddle resolved, Princeton U.P., Princeton, 1983 N. Gulley, Plato's theory of knowledge, Greenwood Press, Westport - Connecticut, 19862 W.KC. Guthrie, A History of Greek Philosophy. IV. Plato: the man and his dialogues, CUP, Cambridge, 1987 Les paradoxes de la connaissance. Essais sur le Mnon de Platon, recueillis et prsents par M. Canto-Sperber, Editions Odile Jacob, Paris, 1991 G. Valstos, Socrates. Ironist and moral Philosopher, CUP, Cambridge, 1991 Essays on the philosophy of Socrates, edited by H.H. Benson, OUP, Oxford, 1992 The Cambridge Companion to Plato, edited by R. Kraut, CUP, Cambridge, 1992 W. Leszl, La dialettica in alcuni autori antichi, Pisa, 1993 F. Trabattoni, Platone, Carocci, Roma, 1998 W. Wieland, Platon und die Formen des Wissens, Vandenhoeck & Ruprecht, Gttingen, 19992 DARIO ZUCCHELLO

You might also like