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ANTROPOLOGIA
CULTURALE
PIERO VERENI
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MATERIALI DIDATTICI
SECODA DISPESA
Indice della dispensa
1. L’immaginazione e il potere: luoghi e attori della produzione mediatica
2. Pastori e pinocchi, balordi e ballerini. il mutamento dell’immagine degli albanesi nei mezzi di
comunicazione italiani
3. La soapizzazione dell’anima
4. Appunti su Don Kulick, Margaret Willson, “Rambo’s Wife Saves the Day”
5. Appunti su Elizabeth Hahn, “The Tongan Tradition of Going to the Movies”
6. La forza delle immagini. Appunti su due casi mediatici.
L’immaginazione e il potere: luoghi e attori della produzione
mediatica
Locale e globale
Una riflessione sistematica sul ruolo dei mezzi di comunicazione di massa nella
formazione delle identità collettive non può prescindere da alcune considerazioni di carattere
generale sul contesto più vasto entro cui si costituiscono gli specifici rapporti tra sistema delle
appartenenze collettive e sistema mediatico. In questo capitolo ci soffermeremo quindi a
delineare un quadro teorico complessivo dell’attuale sistema di produzione e fruizione della
comunicazione mediata da mezzi elettronici. A tale fine, sarà inevitabile un confronto anche
solo sommario con le principali teorie della modernità e della postmodernità, per cercare di
elaborare una descrizione plausibile della situazione attuale del rapporto tra media e identità.
Questa riflessione ruoterà inevitabilmente attorno ad alcune parole chiave, tra cui anticipiamo
le coppie locale/globale, modernità/postmodernità e omogeneizzazione/eterogeneizzazione.
È stata notata da tempo l’opposizione tra la crescente uniformità culturale a livello
planetario (la cosiddetta macdonaldizzazione) e la restrizione sempre più evidente dei confini
identitari sentiti come naturali (il cosiddetto revival etnico). Alcuni autori come il sociologo
americano George Ritzer1 e l’economista e filosofo francese Serge Latouche2 si sono
concentrati sui modi in cui gli stili di vita occidentali (spesso considerati coincidenti con
quelli americani) si sono imposti su vaste aree del pianeta imponendo una patina (più o meno
spessa a seconda delle prospettive scientifiche e politiche di volta in volta sostenute) di
uniformità economica, politica e culturale3. Di converso, altri autori come il sociologo
1
GEORGE RITZER, The McDonaldization of Society: An Investigation into the Changing Character of
Contemporary Social Life, Newbury Park, Ca., Pine Forge Press, 1993, XV-221 p. Traduzione italiana di Nicola
Raino, Il mondo alla McDonald’s, Bologna, il Mulino, 1997, 334 p.
2
SERGE LATOUCHE, L’Occidentalisation du monde. Essai sur la signification, la portée et les limites de
l’uniformisation planétaire, Paris, la Découverte, 1989, 143 p. Traduzione italiana di Alfredo Salsano,
L’occidentalizzazione del mondo. Saggio sul significato, la portata e i limiti dell’uniformazione planetaria,
Torino, Bollati Boringhieri, 1992, 159 p. Lo stesso autore ha ripreso e ampliato la sua teoria del peso della
tecnologia occidentale nel processo globale di uniformazione con diversi saggi successivi, tra cui ricordiamo La
mégamachine. Raison technoscientifique, raison économique et mythe du progrès. Essais à la mémoire de
Jacques Ellul, Paris, la Découverte, 1995, 243 p. Traduzione italiana di Alfredo Salsano, La megamacchina.
Ragione tecnoscientifica, ragione economica e mito del progresso. Saggi in memoria di Jacques Ellul, Torino,
Bollati Boringhieri, 1995, 215 p.
3
Gli studi sulla globalizzazione intesa in questo senso uniformante hanno trovato uno dei loro stimoli nel
pionieristico lavoro di IMMANUEL WALLERSTEIN, The Modern World-System. Capitalist Agriculture and the
britannico Anthony D. Smith4 e gli antropologi Arjun Appadurai5 e Ulf Hannerz6 anno
insistito sui processi in corso di progressiva frammentazione dei grandi “blocchi” che
costituivano il pianeta dopo la fine della seconda guerra mondiale7. Da alcuni decenni, quindi,
il mondo sembra attraversato da un duplice e contraddittorio movimento: da un lato la
condivisione sempre più forte e diffusa di modelli culturali e pratiche tecnologiche; dall’altro
l’esclusione sempre più rigida dal proprio orizzonte identitario di ciò che non si conferma al
miope modello della propria appartenenza locale. Questi due fenomeni, apparentemente
antitetici, sembrano invece essere dipendenti, e in grado di crescere simultaneamente: quanto
più il mondo si uniforma (stessi jeans, stessi hamburger, stessa musica, stessa CNN) tanto più
l’unità media di riferimento identitario (il Noi che diamo per scontato) si rimpicciolisce
intensificando la sua forza politica (noi Italiani, Padani, Veneti...). Per i cittadini dell’Unione
Europea questo fenomeno è sempre più visibile: da un lato uniformiamo le nostre monete, le
nostre lingue e i nostri gusti (culinari, estetici, sessuali) e dall’altro rivendichiamo un
particolarismo sempre più spinto (rivisitiamo dialetti moribondi e riscopriamo Palii e sagre
che non si celebravano da secoli o che non si erano mai celebrati). La questione teorica che si
pone all’analista è proprio la natura di questa dipendenza.
Un tentativo di affrontare un simile incrocio problematico consiste nel presentarlo proprio
come antitesi tra globalizzazione, da un lato, e resistenze identitarie dall’altro. In sintesi:
l’affermazione delle identità locali – o comunque esplicitamente esclusive – e il rigetto del
cosmopolitismo sarebbero dovuti al rifiuto dei processi di uniformazione messi in atto dalla
Origins of the European World-Economy in the Sixteenth Century, New York, Academic Press, 1976, XVI-244 p.
Traduzione italiana di Giuseppina Panzieri e Davide Panzieri Il sistema mondiale dell’economia moderna. 1.
L’agricoltura capitalistica e le origini dell’economia-mondo europea nel 16° secolo. Seconda edizione rivista e
corretta, Bologna, Il mulino, 1986, 535 p.
4
ANTHONY D. SMITH, The Ethnic Revival, Cambridge-New York, Cambridge University Press, 1981, XXIV-
240 p. Traduzione italiana di Anna Paini, Il revival etnico, Bologna, Il mulino, 1984, 364 p.
5
ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere. Dimensioni culturali della globalizzazione. Traduzione di Piero
Vereni, Roma, Meltemi, 2001, 272 p. Edizione originale Modernity at Large. Cultural Dimension of
GLobalization, Minneapolis, University of Minnesota Press, 1996, 229 p.
6
ULF HANNERZ, La complessità culturale. L’organizzazione sociale del significato. Edizione italiana a cura
di Arnaldo Bagnasco. Traduzione di Savina Neirotti, Bologna, Il mulino, 1998, X-388 p. Edizione originale
Cultural complexity. Studies in the Social Organization of Meaning, New York, Oxford, Columbia University
Press, 1992, IX-347 p.
7
Sul rapporto tra singolarità globale e molteplicità locali si possono trovare riflessioni antropologiche
estremamente interessanti nei saggi di CLIFFORD GEERTZ tradotti da Andrea Michler e Marco Santoro e
pubblicati con il titolo Mondo globale, mondi locali. Cultura e politica alla fine del ventesimo secolo, Bologna,
1999, Il mulino, 127 p. La questione della natura poliedrica e non necessariamente orientata dai valori americani
della globalizzazione è indagata con numerosi esempi nella raccolta curata dai politologi statunitensi PETER L.
BERGER e SAMUEL P. HUNTINGTON, Many Globalizations. Cultural Diversity in the Contemporary World,
Oxford-New York, Oxford University Press, 2002, X-374 p. Nonostante non sia più recentissimo, uno dei lavori
più citati sulla teoria della globalizzazione rimane quello del sociologo americano ROLAND ROBERTSON,
3
globalizzazione. Una delle formulazioni più articolate di questo approccio interpretativo è
senza dubbio quella del sociologo catalano Manuel Castells8. Nel suo ponderoso lavoro di
riflessione sull’“era dell’informazione” Castells elabora una complessa teoria per cui le
emergenti identità della nostra epoca “si oppongono alla globalizzazione e al cosmopolitismo
in difesa delle specificità culturali e del diritto delle persone a esercitare il controllo sulla
propria vita e sul proprio ambiente”9. Anche se l’analisi di Castells è estremamente raffinata e
complessa nell’individuare i nessi causali tra globalizzazione e costruzione delle identità – per
cui, ad esempio, l’identità progettuale dei soggetti sociali non trova più terreno di coltura nella
diradata società civile, ed è invece costretta a svilupparsi all’interno di formazioni comunitarie
di tipo reattivo ed esclusivo – il senso generale che se ne trae è quello di una qualche
meccanicità, per cui l’eterogeneizzazione in forma di revival identitario può includere
fenomeni tra loro estremamente diversi.
Il modello identitario delle appartenenze altro non sarebbe, dunque, che la “naturale
reazione” alla spinta omogeneizzante della macdonaldizzazione, come se una certa quota di
differenza culturale fosse comunque da dare per scontata, essenziale, incorporata nell’ordine
precostituito del cosmo culturale. Ritengo particolarmente deludente questa spiegazione che,
come tutte le forme di naturalismo, si limita a spostare i termini del problema al di là del
discutibile: la gente, stanca di essere massificata dai mobili Ikea e dalla musica pop delle
playlist radiofoniche, persegue la sua tendenza fissipara, la sua esigenza a differenziarsi.
Alcune volte questa teoria dell’identità come reazione all’uniformazione globale si presenta in
Globalization. Social Theory and Global Culture, London, Sage, 1992, X-211 p. Traduzione italiana di Aurora
De Leonibus, Globalizzazione. Teoria sociale e cultura globale, Trieste, Asterios, 1999, 285 p.
8
Questo prolifico autore ha pubblicato alla fine del Ventesimo secolo un’opera in tre parti dedicata alla
riflessione sistematica sull’“era dell’informazione”: MANUEL CASTELLS, The rise of the network society,
Malden, MA, Blackwell Publishers, 1996, XVII-556 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, La nascita della
società in rete, Milano, Egea-Università Bocconi, XXXVI-601 p. MANUEL CASTELLS, The power of identity.
Second edition, Malden, MA, Blackwell Publishers, 2004, XXII-537 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, Il
potere delle identità, Seconda edizione, Milano, Egea-Università Bocconi, 2004, xvi-538 p. End of millennium,
Malden, MA, Blackwell Publishers, 1998, XIV-418 p. Traduzione italiana di Gianni Pannofino, Volgere del
millennio, Milano, Egea-Università Bocconi, XI-470 p.
9
MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota precedente [il passo è tratto
dalle pp. 1-2 della traduzione italiana; il corsivo è mio].
4
forme più semplicistiche (e ancor più naturalizzanti) che sostengono che al fondo del nuovo
asfittico particolarismo che ci circonda si troverebbe l’esigenza (ovviamente “naturale”) degli
esseri umani a individuare la propria comunità sulla base di legami emotivi che non possono
essere forniti dalle fredde collettività stereotipate della globalizzazione11. Insomma:
celebrando l’antico rito, o mangiando il piatto tradizionale composto secondo l’antica ricetta,
l’individuo “sentirebbe” un legame con l’identità e la comunità associate a quel rituale o a
quel cibo che nessun “evento mediatico” e nessun hamburger potrà mia fargli provare. Le
comunità autosegregate (per dimensioni o per volontà) che rivendicano oggi una voce politica
coprirebbero dunque il buco emozionale inevitabilmente lasciato scoperto dalle istanze
globalizzanti. Questa teoria, per quanto avvincente a prima vista, mi pare soffra di un difetto
analitico (che ha poi ricadute teoriche e politiche notevoli), dato che trascura duecento anni di
sostanziosi successi di quei movimenti politici e ideologici che riassumiamo coi termini
convenzionali di nazionalismo e socialismo. Se cioè fosse vero che abbiamo naturalmente
bisogno di una dimensione ristretta, locale in senso sempre più claustrofobico, per poter
soddisfare le nostre esigenze di identità, appartenenza e comunità, come si spiega che negli
ultimi due secoli il mondo è stato segnato da due forze (il nazionalismo e l’internazionalismo)
che smuovevano gli animi e gli intestini sulla base di principi assolutamente antitetici a questo
localismo? Una comunità immaginata, ci ricorda Benedict Anderson, è immaginata
…poiché non succederà mai che tutti i suoi membri si conoscano personalmente; il
contenuto del loro legame, dato il loro numero e l’estensione territoriale della nazione
stessa, è necessariamente immaginato, non prodotto da relazioni concrete, a differenza di
quanto si suppone accadere in un modello astratto di società tradizionale, in cui le
relazioni faccia-a-faccia risultano prevalenti.12
Tuttavia, per quanto (o proprio perché) immaginata, rimane una comunità, cioè risponde a
quelle esigenze emotive che la teoria del revival come reazione sembra negare quando manchi
l’interazione su piccola scala (lo stesso ordine di considerazioni vale anche per
10
MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota 8 [pp. 10-11].
11
Questa posizione è sostenuta con particolare veemenza da ANTHONY D. SMITH in molti dei suoi lavori, in
particolare in 6ations and 6ationalism in a Global Era, Cambridge, Polity Press, 1995, IX-211 p. Traduzione
italiana di Alessandro Sfrecola, 6azioni e nazionalismo nell’era globale, Trieste, Asterios, 2000, 186 p. A dirla
tutta, la critica al naturalismo delle identità che sto brevemente delineando in questo paragrafo è rivolta più a
Anthony D. Smith (e al modo in cui la sua teoria è stata ripresa proprio dai mass media) che non a Manuel
Castells, il cui impianto teorico è di ben altro spessore.
12
BENEDICT ANDERSON, Imagined Communities. Reflections on the Origins of 6ationalism. Revised and
Extended Edtion, London, Verso, 1991, XV-224 p. Traduzione italiana di Marco Vignale, Comunità immaginate.
Origini e diffusione dei nazionalismi. Prefazione e cura di Marco D’Eramo, Roma, Manifestolibri 1996, 223 p.
[p. 25].
5
l’internazionalismo socialista). Provando ad ancorarci alla logica, possiamo dire che se
avessero ragione i sostenitori della natura meccanica della creazione delle identità, allora non
potrebbero esistere comunità immaginate13. Ma dato che sappiamo che le comunità
immaginate esistono e sono esistite, se ne deduce necessariamente che hanno torto quelli che
dicono che la gente torna alle tradizioni e alle parrocchie perché ha bisogno di soddisfare le
proprie esigenze di condivisione emotiva nell’unico spazio realmente possibile, la comunità
esclusiva.
Il problema quindi non è com’è possibile che esistano comunità immaginate (Benedict
Anderson ci ha esposto i meccanismi di base del loro funzionamento, e Michael Herzfeld14 ci
ha definitivamente spiegato come non vi sia un vero conflitto tra discorso nazionale
uniformante e pratiche locali individuanti), ma come mai il nuovo processo di
omogeneizzazione globale non riesca a soddisfare a pieno le esigenze comunitarie. Perché
quindi, fatta l’Italia si sia riusciti (più o meno) a fare gli italiani, mentre fatta l’Unione
Europea o fatta l’ONU assistiamo all’esplosione di rivendicazioni sempre più accese di identità
locali ed esclusive? Se poi si pensasse che l’Italia costituisce un caso assai peculiare di
costruzione identitaria, vale la pena di volgersi a un altro esempio che è stato per decenni
sinonimo di buona riuscita del processo di costruzione della nazione, cioè la Francia. Anche
se oggi sappiamo quanto sia stato lento, coercitivo e anche violento il passaggio della
multiforme e multilingue Francia medievale alla compatta nazione moderna15, è fuor di
dubbio che la Francia ha incarnato forse l’apogeo del modello del moderno stato nazionale,
l’epitome della coincidenza tra popolo, nazione e Stato. Se così stavano le cose, com’è che
13
A scanso di equivoci, e anticipando quanto verrà elaborato già nel finale di questo capitolo – ma sarà
ripreso nel corso di tutto il saggio – faccio notare che nella concezione originaria di Benedict Anderson
“immaginato” non si contrappone di certo a “reale”, come sembra credere, ad esempio, Manuel Castells alla
pagina 33 del suo Il potere delle identità, op. cit. alla nota 8, quando afferma: “L’antitesi tra comunità «reali» e
«immaginate» è di scarsa utilità analitica”. “Immaginato” si oppone invece a “oggettivo”, determinabile cioè
secondo criteri esterni a quelli dei soggetti coinvolti. Cercando di evitare complicazioni terminologiche,
possiamo dire che per Anderson la comunità è “immaginata” perché è un prodotto semiotico (un segno) che
acquisisce senso per gli attori sociali che lo costituiscono. Sono i criteri che determinano il confine
dell’appartenenza ad essere “immaginati”, cioè “creati” dai soggetti membri della comunità. L’originalità della
prospettiva di Anderson consiste nell’aver spostato definitivamente l’attenzione analitica degli studiosi del
nazionalismo dai dati oggettivi ai fatti sociali, senza per questo tramutare le nazioni in comunità “irreali”. Al
contrario, secondo il principio vichiano (verum ipsum factum), le nazioni sono comunità immaginate perché sono
fatte dagli uomini, e quindi conoscibili solo nella misura in cui ci si impegni a ricostruire il percorso di quel fare,
che è tutt’altro che irreale.
14
MICHAEL HERZFELD, Intimità culturale. Antropologia e nazionalismo. Traduzione di Emanuela
Nicolcencov, Napoli, L’ancora del Mediterraneo, 2003, 237 p. Edizione originale Cultural Intimacy. Social
Poetics in the 6ation-State, New York, London, Routledge, 1997, XIII-226 p.
15
EUGEN WEBER, Peasants into Frenchmen. The Modernisation of Rural France 1870-1914, Stanford,
Calif., Stanford University Press, 1976, XV-615 p. Traduzione italiana di Alfonso Prandi, Da contadini a
francesi. La modernizzazione della Francia rurale, 1870-1914, Bologna, Il mulino, 1989, 909 p.
6
negli ultimi vent’anni la Francia è sempre meno la terra dei francesi (uniformi per lingua,
cultura, passione culinaria e orgoglio) e sempre più la terra multiculturale e multilinguistica
dei bretoni, dei corsi, dei provenzali, dei baschi, degli alsaziani (per non parlare delle legioni
di francesi di origine africana) che ormai contestano sistematicamente il modello
dell’uniformità sparando bordate sull’unità linguistica, religiosa, culturale e (orrore!) culinaria
del Paese16?
Se il mondo sociale fosse un sistema razionale che si sviluppa armonicamente, i passaggi
avrebbero dovuto essere nitidi: la frammentazione localistica precedente la Rivoluzione
Francese (enclaves, exclaves, usi locali spesso diversissimi a distanza di pochi chilometri) è
stata uniformata dal processo di nazionalizzazione nel corso di tutto il Diciannovesimo secolo
e nella prima metà del Ventesimo. Il mondo poco a poco ma in modo apparentemente
inevitabile si è suddiviso in aree culturalmente sempre più compatte, trasformando in nazioni
moderne quelle che erano mere espressioni geografiche. Disponiamo oramai di indagini
accurate di tipo storico17 e antropologico18 che ci raccontano delle precondizioni strutturali di
questo immane mutamento che ha attraversato il genere umano, ma quel che conta è che
conosciamo ormai con sufficiente chiarezza anche i meccanismi emotivi implicati da questa
costruzione nazionale19. Il passo successivo, se appunto il mondo fosse un sistema razionale,
avrebbe dovuto essere la creazione di comunità immaginate di tipo transnazionale: mutate le
condizioni economiche e tecnologiche, i sistemi Stato-nazione perdono il loro dominio
assoluto sullo scenario della politica, per essere affiancati da sistemi-mondo sempre più
20 21 22 23
complessi: Unione Europea, Nazioni Unite, GATT , NAFTA , NATO , WTO . Questi sistemi
16
Su come la globalizzazione abbia modificato la natura dell’identità nazionale francese si veda PHILIP H.
GORDON, SOPHIE MEUNIER, “Globalization and French Cultural Identity”, French Politics, Culture and Society,
XIX (1), 2001, pp. 22-41, tema ripreso ed espanso nel volume degli stessi autori The French Challenge.
Adapting to Globalization, Brookings Institution Press, Washington DC, 2001, XI-152 p. Sul caso bretone si veda
MARYON MCDONALD, We are not French! Language, Culture, and Identity in Brittany, London, New York,
Routledge, 1989, XIII-384 p. Per quanto riguarda l’identità basca (su entrambi i lati del confine franco-spagnolo,
ma con un centro di attenzione sulle province meridionali) si veda JACQUELINE URLA, “Cultural Politics in an
Age of Statistics. Numbers, Nations, and the Making of Basque Identity”, America Ethnologist, XX (4), pp. 818-
843.
AGGIUNGERE ALTRI CASI
17
Hobsbawm 1990
18
Gellner 1983
19
Anderson 1991, Herzfeld 1997, Nairn Two faces of Nationalism
20
General Agreement on Tariffs and Trade (Accordo Generale sulle Tariffe e sul Commercio). Si tratta di
un’agenzia delle Nazioni Unite creata con un trattato multilaterale (firmato in una prima stesura nel 1948 e
ratificato con diverse variazioni nel 1994) e finalizzata a promuovere il commercio mondiale attraverso la
riduzione delle tariffe doganali e dei dazi.
21
North American Free Trade Agreement (Accordo Nord Americano per il Libero Commercio), siglato tra
Stati Uniti, Canada e Messico, ed entrato in vigore il 1° gennaio 1994.
22
North Atlantic Treaty Organisation.
7
sovranazionali avrebbero tutte le caratteristiche potenziali per porsi come basi strutturali alla
formazione di nuove comunità immaginate: come gli Stati nazionali al loro sorgere, sono
funzionali al sistema economico, si fondano su ideologie condivise dalle élites che li
governano, e hanno apparentemente a disposizione i mezzi tecnologici e mediatici per
veicolare un senso comunitario negli angoli più remoti dei loro rispettivi domini, possono cioè
trasformare in un sentimento (o agganciare a un sentimento) la spinta uniformante dettata da
ragioni economiche. Eppure non funziona, e se pochi decenni orsono i nostri nonni (alcuni di
loro, almeno) potevano veramente pensare di andare a morire per la Patria – un’entità astratta
quant’altre mai, su cui però si era riusciti a innestare un fortissimo senso (immaginato,
appunto) di comunità – oggi fa al massimo sorridere (quando non suscita una decisa
repulsione) l’idea di combattere per gli “ideali” dell’Unione Europea, tant’è vero che il
documento di più elevato spessore ideale mai promulgato dall’Unione Europea (e cioè la sua
Carta Costituzionale) è stato sonoramente bocciato quando sottoposto a referendum popolare
in Francia e in Olanda, e il dibattito in corso dopo l’11 settembre riguarda proprio la quota di
violenza che l’Europa sembra pronta ad accettare per definirsi come tale. L’opinione pubblica
europea non sembra generalmente in grado di tollerare il “sacrificio” di alcuno dei suoi
membri, dimostrando dunque una concezione tutt’altro che “sacra” dell’entità in nome della
quale quell’eventuale sacrificio verrebbe richiesto.
Eppure, sappiamo ormai con certezza che gli eurocrati di Bruxelles si sono posti
esplicitamente il compito di produrre un’identità europea, sfruttando gli ordinari apparati
istituzionali disponibili ai singoli stati nazionali: “persuasione” verso la stampa, per indurla a
presentare in buona luce l’immagine dell’UE; tentativi di riscrivere la storia dei singoli Stati
membri per armonizzarla alla situazione politica attuale; produzione di simboli viventi
dell’istituzione europea come, ad esempio, l’istituzione di un Premio “Donna Europea”24. Con
altrettanta certezza sappiamo che la pedissequa applicazione al caso dell’Unione Europea
delle strategie retoriche e simboliche che avevano efficacemente contribuito alla formazione
dei moderni stati nazionali non ha avuto effetto, o comunque ne ha avuto in misura
largamente inferiore alle aspettative. D’altro canto, proprio il tentativo di applicare all’Unione
Europea le stesse strategie uniformanti tipiche degli Stati nazionali è una buona indicazione
del fatto che l’intento di molti organismi apparente post-, trans- o sovra-nazionali è stato
quello di recuperare su un altro piano il potere perduto degli Stati nazionali:
23
World Trade Organization (Organizzazione Mondiale del Commercio).
24
CRIS SHORE, “Inventing Homo Europaeus”, Ethnologia Europaea, XXIX (2) Winter, 1999, pp. 53-66.
8
...ciò che si ricercava [con l’integrazione europea] non era la sovranazionalità, ma la
ricostruzione del potere dello stato-nazione a un livello più alto, ossia un livello in cui
fosse possibile esercitare un certo grado di controllo sui flussi globali di ricchezza,
informazione e potere [...] Per questa ragione, invece di entrare nell’era della
sovranazionalità e del governo globale, assistiamo all’emergere di un superstato-nazione,
cioè di uno stato che esprime, nel quadro di una geometria variabile, gli interessi
aggregati dei propri membri.25
La domanda che quindi dobbiamo porci è come mai le pratiche di produzione dell’identità
che sembravano così efficaci se perpetrate da istituzioni legate allo Stato nazionale perdono
efficacia quando vengono replicate da entità “superstatali”, per riprendere la terminologia di
Castells. Non è ovviamente sostenibile l’argomentazione secondo cui queste entità sarebbero
artefatte, imposte da motivazioni di ordine economico, sostanzialmente artificiali, e quindi “la
gente” farebbe fatica a identificarsi emotivamente con esse: le nazioni del Diciannovesimo
secolo non erano meno artificiali, ideologiche e (soprattutto) necessarie al funzionamento del
sistema economico di allora di quanto non lo siano oggi i nuovi soggetti della politica
internazionale. La ragione dell’emergere di identità comunitarie che prescindono dallo Stato
nazionale e del fallimento emotivo delle entità politiche transnazionali va cercata altrove, e in
questo altrove si può trovare anche una spiegazione credo sufficientemente chiara (ma in
grado di prescindere da un meccanico legame di azione/reazione) del rapporto tra
globalizzazione economica e ripresa delle identità.
Con una metafora che anticipa quanto diremo anche nei prossimi capitoli, dovremmo cioè
riuscire a capire perché possiamo guardare la CNN e Teletuscolo con lo stesso interesse, se non
sempre con il medesimo coinvolgimento emotivo, senza spiegare la passione per Teletuscolo
come una reazione alle trasmissioni della CNN. Anticipando l’argomentazione presentata nelle
pagine che seguono, possiamo sintetizzare dicendo che il (nuovo) legame che cinge di un’aura
globale il fenomeno delle identità emergenti deve essere individuato nello scioglimento del
(vecchio) legame tra potere centralizzato, corpi e immaginazione. Mentre prima un potere
centrale (quasi inevitabilmente incarnato dallo Stato) gestiva il monopolio sulle forme
impresse ai corpi e all’immaginazione, garantendosi così quell’omogeneizzazione nazionale
necessaria alla sua sopravvivenza, ora lo Stato ha perso quel monopolio, e quindi le persone e
25
MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota 8 [pp. 352-353].
9
le immaginazioni si costruiscono e si spostano secondo motivazioni confliggenti, divergenti e
comunque non riconducibili a grandi configurazioni, da cui il sapore locale della loro epifania
politica.
Questo lavoro non si prefigge il compito di formulare ipotesi o profezie sulle sorti dello
Stato nazionale. A noi basti dire che, qualunque possa essere il suo futuro, di certo il presente
degli Stati nazionali è segnato dalla fine del privilegio nella gestione monopolistica
dell’immaginario dei suoi cittadini.
Diversi autori hanno posto in evidenza in questi anni il progressivo indebolimento del
potere generale dello Stato, in particolare per quanto riguarda il suo controllo dei mezzi di
comunicazione di massa26. Alcuni studiosi si sono soffermati a descrivere i pervicaci tentativi
dei governi di influenzare il mercato e modificare le infrastrutture delle telecomunicazioni per
adeguarle alle proprie esigenze politiche27. Altri, al contrario, hanno insistito sul ruolo dei
mezzi di comunicazione di massa nel frantumare entità statali28. Comunque sia, quel che è
certo è che, oggi, il rapporto tra governi degli Stati nazionali e mezzi di comunicazione di
massa che attraversano il territorio sottoposto alla loro sovranità nazionale si è complicato, e
soprattutto non può più essere dato per scontato.
Non stiamo certo parlando della fine dello Stato nazionale o del passaggio inevitabile a
nuove forme di governo globale, dato che le pulsioni (più o meno utopiche) che sembravano
orientare parte della teoria fino alla fine del Ventesimo secolo sono bruscamente rientrate nei
ranghi dopo l’11 settembre 2001. Ma se lo Stato nazionale è ancora vivo e politicamente
attivo, la novità irreversibile è data dal fatto che oggi deve contrattare il suo potere non solo
con altre entità statali, ma con istituzioni e attori politici di dimensioni e “formati” eterogenei.
L’ingresso nell’agone politico di soggetti superstatali, infrastatali e interstatali − oltre a
produrre una serie di mutazioni strutturali nel sistema produttivo e politico − ha reso l’ambito
dei mezzi di comunicazione di massa un campo di contesa ben maggiore che in passato. La
sostanziale marginalità economica dei settori dell’informazione e dell’intrattenimento li aveva
relegati in buona parte entro l’alveo delle singole comunità nazionali (e quindi statali), fatto
26
Sulla perdita del potere dello Stato a seguito della globalizzazione e in particolare sul declino del controllo
governativo sui media si vedano rispettivamente il paragrafo “La globalizzazione e lo stato” [pp. 326-346] e il
sottoparagrafo “Reti di comunicazione globale, audience locali, fattori di regolazione incerti” [pp. 339-344] in
MANUEL CASTELLS The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota 8, e la relativa bibliografia.
27
Si vedano a questo riguardo i numerosi esempi citati in MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty. The
Global Information Revolution and Its Challenge to State Power, Cambridge, MA, London, The MIT Press, 2002,
ix-317 p. Particolarmente succoso il paragrafo “Interactions and Influences” [pp. 5-12].
28
JOSHUA KALDOR-ROBINSON, “The Virtual and the Imaginary: The Role of Diasphoric New Media in the
Construction of a National Identity during the Break-up of Yugoslavia”, Oxford Development Studies, XXX (2),
June 2002, pp. 177-187.
10
salvo il dominio dei grandi centri (economici e ideologici) di produzione collocati negli Stati
Uniti. Ma nelle condizioni attuali gli attori e gli ambiti di intervento si sono estremamente
complicati. Da un punto di vista delle potenzialità strutturali, (e sempre fatta salva l’eccezione
di Hollywood) possiamo dire che per diversi decenni la produzione massmediatica è stata
prevalentemente e preferibilmente nazionale sia per organizzazione sia per destinazione: il
sistema nazionale dei mass media provvedeva a soddisfare tutte e sole le esigenze del proprio
territorio. Secondo questo modello, la divisione del sistema politico internazionale e la
divisione del sistema mediatico tendevano alla quasi perfetta coincidenza: un sistema
mediatico per ogni stato nazionale, uno stato nazionale per ogni sistema mediatico, secondo lo
schema della figura 129.
Figura 1. La coincidenza tra sistemi statuali e sistemi mediatici prima dell’avvento delle
nuove tecnologie
La situazione attuale prevede invece una molteplicità di soggetti attivi e una molteplicità di
destinazioni del sistema mediatico prodotto: non solo gli Stati sono affiancati da altre
istituzioni, ma tutti i soggetti produttivi destinano il loro prodotto mediatico su diversi target,
a loro volta statali, superstali e infrastatali. Da un lato quindi gli Stati si sforzano di proteggere
il loro spazio nazionale dall’ingerenza mediatica di altri soggetti ma nel medesimo tempo −
come gli altri soggetti in gioco − cercano di espandere il loro spazio mediatico al di là dei
confini nazionali. Rispetto alla linearità della figura 1, la nuova situazione determina un
quadro estremamente complesso, che proviamo a schematizzare in forma ipersemplificata
nella figura 2.
29
Come già accennato, questo quadro di produzione mediatica nazionale (che riguardava soprattutto carta
stampata, radiofonia e poi televisione) tralascia sostanzialmente l’industria cinematografica, la prima industria
mediatica a rivolgersi a una platea effettivamente globale pur se i suoi prodotti agli inizi erano quasi
esclusivamente americani: “Già nel 1914, l’85 per cento del pubblico cinematografico mondiale guardava film
americani. Nel 1925 le pellicole prodotte negli Stati Uniti raccoglievano oltre il 90 per cento degli incassi
cinematografici nel Regno Unito, in Canada, Australia, Nuova Zelanda e Argentina, e oltre il 70 per cento degli
incassi in Francia, Brasile e Scandinavia”, EDWARD S. HERMAN e ROBERT W. MCCHESNEY “The Rise of the
Global Media”, in EDWARD S. HERMAN e ROBERT W. MCCHESNEY, a cura di, The Global Media: the 6ew
Missionaries of Corporate Capitalism, London, Washington, DC, Cassell, 1997, VIII-262 p. [pp. 1-19. Il passo è
tratto da p. 3].
11
= soggetto statali
Dal punto di vista della produzione e distribuzione della comunicazione legata a mezzi
elettronici, le differenze rispetto alla situazione precedente schematizzata nella figura 1 sono
sostanzialmente due: la proliferazione di soggetti tra loro difformi e un generale scollamento
tra il luogo giuridico occupato da questi diversi soggetti e i diversi spazi mediatici da essi
prodotti30.
Per evidenziare quanto più possibile la concretezza di questi due aspetti, può essere utile
ricostruire brevemente la storia di MED-TV, un caso per molti versi esemplare, che ci guiderà
alle implicazioni direttamente antropologiche e identitarie di questa nuova disposizione
infrastrutturale.
Collocata giuridicamente sul suolo britannico, MED-TV forniva a partire dal 1994 un
servizio di programmi principalmente in lingua curda (e solo in misura nettamente inferiore in
turco, inglese e arabo), rivolto quindi ai molti parlanti delle diverse varianti di questa lingua,
che notoriamente non trovano, per la loro specificità culturale, una corrispondenza politica in
un’entità statale, dato che il Kurdistan come area geografica e linguistica si colloca a cavallo
di quattro Stati (Turchia, Iraq, Iran e Siria). Il segnale di Med-Tv utilizzava transporders di
proprietà dell’Eurovisione31 collocati su satelliti Eutelsat32. L’Eurovisione consorzia i
30
Per luogo intendo un campo delimitato da regole precise, in cui l’intervento è regolato e controllato. Lo
spazio è invece l’opposto, un campo tendenzialmente privo di regolamentazione e in cui i diversi soggetti sono
liberi di intervenire. Naturalmente, luogo e spazio sono estremi ideali, e per ogni epoca storica e per ogni
contesto è possibile stabilire quale delle due concezioni sia dominante. Per quanto riguarda il sistema delle
comunicazioni, sembra evidente che il passaggio in corso sia da una concezione di luogo a una di spazio, e che
questo passaggio trovi favorevoli soprattutto gli organismi non statali, e particolarmente ostili gli Stati nazionali
costituiti. Su questa opposizione, cfr. MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota 27, pp. 23-25.
31
Union Européenne de Radio-Télévision/European Broadcasting Union fu fondata nel 1950 con sede a
Bruxelles e oggi raggruppa 74 membri attivi e 44 associati. La rete permanente di Eurovisione, che ha il suo
12
principali broadcaster di servizio pubblico in Europa, Nord Africa e Medio Oriente, e dato che
il servizio pubblico radiotelevisivo per ogni singolo Stato è gestito da agenzie che rispondono
direttamente o indirettamente agli Stati corrispondenti, la diffusione del segnale di MED-TV
dipendeva, in buona misura, dalla disponibilità dei gestori dei singoli transponders ad
accettare di veicolarne il segnale nelle porzioni loro assegnate.
Fin dall’inizio, le posizioni politiche espresse in alcuni dei programmi di MED-TV, molto
vicine a quelle del PKK33, suscitarono il profondo risentimento del Governo turco, che vedeva
il proprio spazio nazionale invaso da messaggi politici ritenuti inaccettabili. In un primo
momento, la Turchia fece di tutto per impedire il downlink34 del segnale satellitare, favorita in
questo da un dettaglio apparentemente trascurabile. In origine, infatti, il segnale di MED-TV
veniva trasmesso da un satellite Hotbird collocato su un’orbita leggermente diversa da quella
utilizzata dai satelliti che trasportavano i segnali Eutelsat più comuni (cioè più visti) in
Turchia. Ciò significava che gli utenti che volevano vedere MED-TV dovevano orientare la
loro antenna satellitare in posizione sensibilmente diversa da quella degli utenti dei più
comuni satelliti Hotbird, rendendosi così identificabili a una semplice ispezione visiva da
parte delle forze dell’ordine. Per proteggere i propri spettatori dal rischio di subire le
rimostranze delle autorità turche, la proprietà di MED-TV si vide costretta a spostare il suo
segnale sul satellite comune, forzando quindi il Governo turco a mutare strategia. Non
potendo individuare le antenne paraboliche e quindi bloccare il downlink, l’attenzione si
concentrò sull’uplink, e a questo punto entrarono in gioco i rapporti bilaterali tra la Turchia e i
diversi Stati membri di Eurovisione e Eutelsat35. Sebbene la documentazione ufficiale sia
carente, si conoscono diversi casi in cui MED-TV è stata esclusa dai trasponders sui satelliti
Eutelsat in seguito a pressioni esercitate dal Ministero degli Esteri turco presso i diversi
quartier generale a Ginevra, impiega fino a 50 canali digitali su un satellite Eutelsat per scambiare programmi
soprattutto di natura informativa e di sport. Cfr. <http://www.ebu.ch>.
32
Eutelsat fu istituita nel 1977 come organizzazione intergovernativa per sviluppare e gestire una rete
satellitare destinata all’Europa. Il primo satellite della serie Hotbird venne messo in orbita nel 1983, seguito
progressivamente da altri 24 lanci di satellite che fanno oggi di Eutelsat uno dei leader mondiali nella tecnologia
satellitare geostazionaria. Nell’aprile 2005 i maggiori azionisti di Eutelsat S.A. hanno unito i loro investimenti in
un nuovo gruppo (Eutelsat Communications) che, a fine 2005, deteneva il 95,2 per cento di Eutelsat S.A. Cfr.
<http://www.eutelsat.com>.
33
Partito Comunista Curdo (Partiya Karkerên Kurdistan, noto anche con le sigle KADEK, Kongra-Gel e KCK),
fondato da Abdullah Öcalan negli anni Settanta e da lui retto fino alla sua cattura da parte delle autorità turche
nel 1999.
34
Nelle comunicazioni, il downlink è il collegamento da un satellite a una stazione ricevente al suolo. Di
converso, l’uplink è la trasmissione di un segnale da un terminale terrestre a un satellite o a un altro tipo di
piattaforma aerea.
35
Cfr. MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota 27, pp. 80.
13
gestori nazionali che garantiscono di fatto l’accesso all’uplink36. Ma questa soluzione
(individuare canali di relazione con i singoli Stati, e premere perché ritirassero la disponibilità
ad ospitare MED-TV sui transponders di loro competenza) era comunque una risposta di tipo
tattico, cui mancava un piano strategico. L’ostacolo da superare per impedire in via definitiva
le trasmissioni di MED-TV era costituito dalla licenza britannica che il servizio in lingua curda
poteva vantare, licenza rilasciata dalla Independent Television Commission37 che garantiva il
rispetto di una serie di standard di obiettività e imparzialità considerati essenziali. Il passo
successivo – fatale per le sorti di MED-TV – fu attirare l’attenzione del licenziatario sui
contenuti trasmessi, per metterne in luce la partigianeria. Dopo una serie di multe impartite
nel 1998, il 23 aprile dell’anno successivo l’Independent Television Commission ritirò
definitivamente la licenza a MED-TV, che di lì a poco chiuse le trasmissioni. Un nuovo canale
in lingua curda (Medya Tv) iniziò ben presto a trasmettere dal Belgio utilizzando il personale
di MED-TV e un uplink francese. La direzione di Medya Tv avanzò nel luglio 2002 domanda
formale al Conseil supérieur de l’audiovisuel francese per ottenere l’accordo di servizio. Visto
il silenzio del Conseil, Medya Tv si appellò al Consiglio di Stato, che respinse la domanda
l’11 febbraio 2004, costringendo Medya Tv a chiudere38. Come già accaduto, il 1° marzo un
nuovo canale venne aperto, questa volta con il nome Roj Tv e sede in Danimarca. Le autorità
danesi, nonostante le rimostranze del governo turco, hanno concesso a Roj Tv la licenza a
trasmettere.
Questo apologo (amaro per alcuni, gioioso per altri) include alcuni nuclei portanti attorno a
cui cerchiamo di riflettere in questo capitolo. La volontà di dare voce a una comunità etnica
priva di una sua espressione statuale si è espressa in questo caso attraverso la ricerca di una
visibilità mediatica. Il fatto che la maggior parte delle trasmissioni di MED-TV fossero
emanate nelle diverse varianti del curdo ci dice inoltre che quella visibilità era – oltre che
rivolta all’esterno – indirizzata principalmente ai suoi membri (potenziali o effettivi), in
un’opera di rinforzo e sostegno dell’identità collettiva. Güney Acipayamli, una giovane
studiosa di mass media, riporta i risultati delle interviste da lei raccolte presso alcune famiglie
curde di Istanbul sull’impatto del canale televisivo:
36
MONROE E. PRICE, Media and Sovereignty, op. cit. alla nota 27, p. 81.
37
Questo organismo britannico di controllo ha cessato di esistere il 18 dicembre 2003, quando le sue
mansioni sono state assunte nel quadro più vasto delle attività dell’Ofcom (Office of Communications), che ha
ereditato i compiti di altri quattro organismi, e cioè: il Broadcasting Standards Commission (BSC), Oftel, la
Radio Authority e la Radiocommunications Agency.
38
La sentenza n. 249175 del Conseil d’Etat è leggibile per intero sul sito della Revue de l’Actualité Juridique
Française all’indirizzo <http://www.rajf.org/article.php3?id_article=2418>.
14
Alcuni di loro hanno detto che semplicemente non riuscivano a credere che una cosa del
genere stesse veramente accadendo loro, e che era ora che i curdi avessero una televisione
che parlasse loro nella loro lingua madre. Un uomo mi disse che la prima volta che ha
visto Med-Tv ha pianto per due ore, e che non riusciva a frenare le lacrime.39
39
GÜNEY ACIPAYAMLI, Identity and Satellite in a Non-State Nation. The Migrant Kurds of Istanbul and
Medya-TV, relazione presentata presso la School of Journalism and Mass Communication, The University of
North Carolina at Chapel Hill, s.d., reperibile all’indirizzo web <http://cf.unc.edu/our/surfprojects/-
acipayamli03.pdf>.
40
Torneremo in dettaglio su questo tema quando discuteremo la natura e la funzione degli indigenous media
nel prossimo capitolo, alle pp. XX-XX.
41
Dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, il curdo – che già era tollerato nell’uso quotidiano – è
diventato la seconda lingua ufficiale dell’Iraq e la prima nella parte settentrionale del paese. In Siria l’uso del
curdo è ancora bandito dalla legge, in Turchia è parzialmente consentito dal 2002 e dal marzo 2006 – proprio per
replicare all’attacco delle trasmissioni satellitari – sono state concesse alcune licenze per canali televisivi che
trasmettono anche in curdo, pur se con severe limitazioni di tempo e di temi (non è possibile trasmettere
programmi per bambini né trasmissioni in cui si insegna il curdo; i programmi devono essere sottotitolati in
curdo e ogni canale dispone di un tempo limitato di emissione, al massimo 45´ al giorno, per un totale comunque
non superiore alle quattro ore settimanali). In Iran, infine, il curdo è tollerato in alcune radio e giornali locali,
anche se non è ufficialmente riconosciuto ed è vietato nelle scuole. Sulla soppressione del curdo si veda in
generale AMIR HASSANPOUR, “The Politics of A-political Linguistics: Linguists and Linguicide” in ROBERT
PHILLIPSON, a cura di, Rights to Language, Equity, Power, and Education, Celebrating the 60th Birthday of Tove
Skutnabb-Kangas, Mahwah, NJ, Lawrence Erlbaum Associates, 2000, 310 p. [pp 33-39]; per il caso siriano
HUMAN RIGHTS ASSOCIATION IN SYRIA, The Effect of Denial of 6ationality on the Syrian Kurds. A Report by the
Human Rights Association in Syria, dattiloscritto, novembre 2003, 20 p., reperibile in rete all’indirizzo
<http://www.mengos.net/events/04newsevents/ngonewsletters/syria-hras/Kurd%20%20Report.doc>; per il curdo
in Turchia si veda invece HUMAN RIGHTS WATCH, “IX. Restrictions on the Use of the Kurdish Language” in
Turkey: Violations of Free Expression in Turkey, New York, Human Rights Watch, 1999, 122 p., reperibile in
rete all’indirizzo <http://www.hrw.org/reports/1999/turkey/turkey993-08.htm#P941_209664>. In quest’ultimo è
riportato anche il nono comma dell’articolo 42 della Costituzione turca che così recitava: “Al di fuori del turco,
nessun’altra lingua sarà studiata o insegnata ai cittadini turchi in alcuna istituzione di natura linguistica,
educativa o scolastica”.
42
A questo proposito, va segnalato che i programmi trasmessi da MED-TV e dai suoi successori sono
fortemente orientati a favore della politica del PKK e dei suoi leader, in particolare Abdullah Öcalan. Ciò
significa che sebbene si rivolga teoricamente al bacino di tutti i curdofoni, la programmazione di questo canale
televisivo è seguita quasi esclusivamente nelle aree turche, dove il PKK è nato e ha una solida base popolare.
Paradossalmente, Medya-Tv ha contribuito in questo senso a intensificare la frattura politica tra i curdi residenti
in Turchia e fedeli al PKK e curdi iracheni, fedeli invece al Partito Democratico Curdo (Partiya Demokrata
15
Marshall McLuhan “il mezzo è il messaggio”43 recupera gran parte del suo valore. La
semplice possibilità di utilizzare un canale satellitare per trasmettere programmi in curdo
garantisce a quanti vi si identificano un prestigio altrimenti irraggiungibile,
indipendentemente dal contenuto specifico delle trasmissioni, divenendo ipso facto un
messaggio politico per un Governo come quello turco, intenzionato a mantenere il curdo nel
rango delle “parlate locali”.
Questa volontà (chiaramente orientata in senso politico) di espressione culturale ha trovato
collocazione nella comunità curda della diaspora, e infatti il servizio in lingua curda aveva
come basi produttive Londra e Bruxelles. Un gruppo politico disperso di un’entità lingustico-
culturale priva di uno Stato si è attivato per generare un’immagine coerente di sé e della
propria comunità di origine. Questa immagine è stata tenacemente contestata da uno Stato (la
Turchia) che vedeva in pericolo non tanto la sua sovranità territoriale, quanto il diritto di
gestire la produzione identitaria dei suoi cittadini. All’uso della forza, lo Stato ha presto
dovuto affiancare una raffinata diplomazia che ha incluso da un lato una serie di accordi
bilaterali (perlopiù informali) con altri Stati, e dall’altro l’appello esplicito alle norme che
stabiliscono il diritto di appartenenza a un organismo britannico di regolamentazione.
La storia dei successori di MED-TV è altrettanto significativa. Non tanto per il fatto che gli
Stati nazionali coinvolti diventino sempre più numerosi (Belgio e Francia prima, ora
Danimarca) ma per il motivo ulteriore che, date le attuali condizioni tecnologiche, Roj Tv
sembra in grado di sopravvivere anche senza il satellite. Da qualche tempo, infatti, Roj Tv
invia il suo segnale anche in streaming direttamente via Internet. Con una connessione a
banda larga è quindi possibile vedere in diretta tutti i programmi di Roj Tv all’indirizzo
<http://www.roj.tv/>. In prospettiva, il canale può progettare un suo totale trasferimento sulla
rete evitando quindi la necessità di negoziare un accordo di servizio con gli organismi di
controllo delle trasmissioni, normalmente di titolarità statale. Gli basterà trovare un provider
internet e, in linea di principio, non avrà più bisogno di trovare un accordo con alcuno stato.
Un canonico conflitto di interessi e diritti tra minoranza e maggioranza – che si potrebbe
pensare come una questione di politica interna – è stato quindi riscritto sub specie mediatica
Kurdistanê, dalle cui fila proviene l’attuale presidente del Governo Autonomo Curdo in Iraq) e all’Unione
Patriottica del Kurdistan (Yekîtiya Nîştimaniya Kurdistan, cui appartiene invece l’attuale Presidente iracheno,
Jalal Talabani). Sul ruolo di Medya-Tv nell’incrementare la distanza tra le comunità curde sue due lati del
confine turco-iracheno durante le fasi più calde della seconda guerra irachena si veda NICOLAS BIRCH, “Turkish
Kurds, Watching Satellite Tv, Warily Eye Kirkuk”, articolo pubblicato in data 10 aprile 2003 sul sito di
Eurasianet e reperibile all’indirizzo <http://www.eurasianet.org/departments/insight/articles/eav041003.shtml#>.
43
MARSHALL MCLUHAN, Understanding Media: The Extensions of Man, New York, New American library,
1964, 318 p. Traduzione italiana di Ettore Capriolo Gli strumenti del comunicare, Milano, Garzanti, 1977, 372 p.
16
in modo da spostare radicalmente il luogo della contesa e gli attori in gioco. La minoranza
interna ha trovato uno specchio e un innesco alla propria identità culturale e politica nella
comunità degli espatriati. Quest’ultima – invece di trattare o scontrarsi con lo Stato o gli Stati
che controllano territorialmente lo spazio occupato dalla minoranza – ha negoziato uno spazio
mediatico con organizzazioni non statali e con gli Stati di insediamento, che a loro volta
utilizzavano un cartello internazionale per rendere operativo quello spazio mediatico. Come la
minoranza non ha trattato direttamente con la “sua” maggioranza, così la maggioranza non ha
esercitato una pressione diretta sulla “sua” minoranza – o lo ha fatto solo fin quando le
condizioni tecnologiche l’hanno consentito, fino a quando cioè l’orientamento delle parabole
ha permesso di identificare “oggettivamente” la minoranza – ma ha intrattenuto una serie di
trattative bilaterali con altri Stati e con organizzazioni non statali per oscurare lo spazio
mediatico conquistato dalla comunità della diaspora.
Quale che sia il nostro giudizio sulla specifica vicenda di MED-TV e dei suoi successori, la
lezione che ne dobbiamo trarre per le nostre riflessioni sul rapporto tra sistema delle
comunicazioni di massa e identità collettive è sostanzialmente che nella misura in cui il
sistema mediatico si libera del monopolio statale, gli Stati nazionali non sono più in grado di
gestire autonomamente la questione dell’identità culturale e politica dei cittadini legalmente
sottoposti alla propria giurisdizione. Anche in questo caso lo Stato maggiormente esposto (la
Turchia) non avrebbe potuto raggiungere neanche temporaneamente i suoi obiettivi (che
rimangono formalmente di politica interna) se non si fosse posto come nodo di una rete
complessa costituita da altri Stati e altre entità politiche e amministrative non statali.
Tradotto nella pratica politica dello Stato nazionale classico, questo tipo di dinamica risulta
incomprensibile. Nel modello canonico mazziniano (un popolo per ogni Stato, uno Stato per
ogni popolo) la questione della fedeltà politica e della specificità culturale dei cittadini di uno
Stato sovrano è demandata interamente alla politica interna, qualificando immediatamente
come ingerenza qualunque caso di ingresso di soggetti terzi nella disputa tra gli apparati
ideologici di uno Stato e la coscienza etnica e civica dei suoi cittadini. La questione delle
minoranze, sempre considerata nel quadro dello Stato nazionale classico, ha per lungo tempo
ritenuto legittima l’intrusione di un terzo soggetto solo nel caso in cui questo potesse
accampare pretese giustificate sulla predisposizione nazionale della minoranza, quando cioè
potesse a ragione presentarsi come “vera madre patria” della minoranza sottoposta alla
giurisdizione di un altro Stato. La tradizione risorgimentale e irredentista che ha frantumato in
Europa i grandi imperi Austro-Ungarico e Ottomano nel corso dell’Ottocento e fino alla fine
della prima guerra mondiale – in associazione con la dottrina Wilson dell’autodeterminazione
17
dei popoli44 – ha creato una tradizione di sovranità nazionale in cui questa associazione
esclusiva in termini di identità collettiva tra entità statale e comunità nazionale ha finito per
essere data per scontata. Si è cioè considerato – e in gran parte tutt’ora si considera – del tutto
“normale” (quando non addirittura “naturale”) che i cittadini di uno Stato condividano
un’ampia porzione di valori e tratti culturali, che siano insomma sostanzialmente omogenei
quanto a lingua e cultura, pur se quell’omogeneità è il frutto lentamente maturato di un
poderoso processo di “costruzione della nazione” in cui i mezzi di comunicazione di massa
(stampa prima, radio e televisione poi) hanno avuto un ruolo centrale.
Il punto è che oggi una serie di fattori strutturali – tra cui spiccano per rilevanza le nuove
disponibilità di produzione e distribuzione dei messaggi veicolati dai mezzi elettronici di
comunicazione di massa – rendono obsoleto quell’automatismo. Se, insomma, secondo il
modello classico, era normale pensare che l’identità dei cittadini turchi fosse una questione
che coinvolgeva in esclusiva il Governo turco o al massimo eventuali Governi limitrofi
interessati direttamente (come potenziali “madrepatrie”) dalla questione delle minoranze, oggi
– a livello analitico oltre che politico – dobbiamo fare i conti con il fatto che la “questione
curda” in Turchia passa anche attraverso l’accordo tra la Turchia e – per esempio – la
Slovacchia, se questa, com’è accaduto, ha il potere di impedire il passaggio del segnale di un
canale televisivo sui transponders da lei gestiti.
È questa novità che dobbiamo essere in grado di teorizzare e per la quale dobbiamo produrre
nuovi modelli, senza dunque cedere alla tentazione di credere che nulla sia cambiato (come se
gli Stati avessero mantenuto intatti i loro privilegi) o che sia cambiato tutto al punto di
generare una sorta di caos delle identità in cui non è possibile individuare alcuna regolarità.
Un primo passo per produrre un quadro teorico coerente è ripensare in modo sistematico
due concetti (modernità ed emigrazione) che hanno accompagnato negli ultimi due secoli
quello di appartenenza, e verificare in che modo le mutazioni interne di questi concetti entrino
44
Il 14 gennaio 1918 l’allora Presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson pronunciò di fronte a una
sessione congiunta del Congresso un discorso – da allora noto come il discorso “dei quattordici punti” – che
mirava a orientare la politica americana nei riguardi dell’Europa. Sebbene fosse una dichiarazione di intenti
molto pragmatica per quel che l’America si aspettava dalla fine della guerra, rimase famosa per lo spirito
idealista che pareva animarla. Il discorso sembrava dare per scontato vi fosse un modo oggettivo di associare le
singole “nazioni” (viste come entità nitidamente distinte) a porzioni dello spazio cui andava garantita
un’altrettanto nitida “integrità territoriale”. Imbevuta forse inconsapevolmente di nazionalismo ottocentesco, la
dottrina Wilson segnò la fine dei grandi imperi e aprì la strada alla decolonizzazione, ma contribuì in modo
determinante a legittimare l’idea politica che gli esseri umani fossero distinti in modo univoco in diverse nazioni
e che queste nazioni occupassero porzioni rigidamente separate del territorio. Questo naturalismo politico aprì di
fatto la strada alle tensioni che avrebbero portato alla pratiche di violenta repressione delle minoranze e
omogeneizzazione culturale interna praticata dagli Stati nazionali e all’esplodere di attriti tra Stati che furono
l’anticamera della seconda guerra mondiale.
18
in rapporto con le modifiche già indicate nel sistema dei mezzi di comunicazione di massa,
così da causare una trasformazione radicale nel sistema delle appartenenze. Per anticipare la
tesi che intendo argomentare nelle pagine seguenti, si tratta di vedere come:
(a) una concezione della modernità sempre meno evoluzionista e sempre più legata alla
specificità del contesto culturale in cui si realizza e
(b) la metamorfosi della migrazione in diaspora dentro e attraverso il mutamento
tecnologico dei mezzi di comunicazione
(c) abbiano alterato gli equilibri di forza faticosamente raggiunti dagli Stati nazionali nella
gestione dell’immaginazione nazionale e nella produzione di identità collettive.
In un rapido e denso saggio45 il filosofo britannico Charles Taylor presenta quelle che lui
considera le due versioni principali della teoria della modernizzazione. Secondo la prima, che
definisce aculturale e che è sostanzialmente un modo di guardare ai mutamenti sociali
trascurando la loro dimensione morale, la modernizzazione caratterizza una fase specifica
dell’evoluzione di tutte le società umane. Indipendentemente dal punto di partenza, tutte le
culture umane devono fare i conti con il progresso, la tecnologia, la crescita
dell’individualismo e la secolarizzazione. Proprio perché non considera le culture come
costellazioni di giudizi morali e di valori – oltre che di specifiche pratiche e tecniche – questa
concezione della modernizzazione può pretendere di essere libera da giudizi di valore, e di
restituire le sorti dell’umanità al suo inevitabile destino, che è riassumibile nel passaggio dalla
barbarie (universale) alla civilizzazione (altrettanto universale).
A questa concezione Taylor ne contrappone un’altra, che chiama invece culturale.
Secondo questa teoria alternativa, la modernizzazione delle culture non avviene mai in un
contesto privo di giudizi di valore ma si realizza come opzione fondamentalmente morale, e
quindi secondo percorsi alternativi e spesso divergenti. Detto altrimenti, non c’è una
modernizzazione, ma molte forme del passaggio da una costellazione culturale a un’altra.
Scritto nel 1996, il saggio di Taylor concede alla teoria aculturale della modernità il
predominio pressoché assoluto nella teoria e nella pratica politica. Anche i degenerazionisti,
infatti, pur considerando la modernizzazione sostanzialmente un male, non si discostano da
una concezione rigidamente evoluzionista (pur se nella sua variante negativa,
45
CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, The Responsive Community, VI (3), Summer 1996, pp.
16-25.
19
degenerazionista appunto) e unilineare della sua traiettoria. Quello che nella concezione
positiva della modernità è il superamento di una strutturazione culturale, nella concezione
negativa viene visto come una perdita, ma il passaggio e la sua inevitabilità rimangono
invariati:
Da un punto di vista, l’umanità si è liberata di una lunga serie di miti falsi e dannosi. Da
un altro, ha perso contatto con realtà spirituali essenziali. In entrambi i casi, il mutamento
è concepito come una perdita di credenza.46
Secondo Charles Taylor, il dominio della concezione aculturale della modernità dipende da
una serie di fattori, non ultimo il fatto che in questo modo si rende ideologicamente
inevitabile (e quindi indiscutibile) il percorso occidentale della modernizzazione. La
prospettiva aculturale è quindi in un certo senso rassicurante rispetto alla traiettoria del nostro
percorso socio-culturale, ma questa sicurezza si sconta come seria incapacità di comprendere
il rapporto tra la modernità e le altre culture:
Nello stesso anno di “Two Types of Modernity”, l’antropologo indiano Arjun Appadurai
pubblicava una raccolta di saggi in cui in diversi passi riprende implicitamente l’antitesi di
Charles Taylor tra teoria culturale e aculturale della modernità, ma ponendosi l’esplicito
obiettivo di portare sostegno alla versione culturale della modernizzazione, per cui la “novità”
cui assistiamo non può essere negata ma deve essere declinata nei contesti specifici in cui
viene a realizzarsi48. Per ogni fenomeno culturale, dice Appadurai prendendo spunto dalle
46
CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, loc. cit. alla nota precedente, p. 20.
47
CHARLES TAYLOR, “Two Theories of Modernity”, loc. cit. alla nota 45, p. 24.
48
ARJUN APPADURAI, Modernità in polvere, op. cit. alla nota 5. Tutto il libro tratta, da diverse prospettive,
proprio il tema della fine del mito uniformante della modernizzazione e la sua ricostituzione in forme locali, e
quindi sarebbe vano segnalare al lettore passi specifici. Per la sua particolare pregnanza per il quadro della
ricerca che affrontiamo in queste pagine, credo però valga la pena di riportare almeno questo passo, tratto da p.
25 della traduzione italiana: “La macroretorica della modernizzazione sviluppista (crescita economica, alta
tecnologia, industria agricola, scolarizzazione, militarizzazione) è ancora presente in molti paesi, ma è spesso
interrotta, messa in questione e addomesticata dalle micronarrative di film, televisione, musica e altre forme
espressive che consentono alla modernizzazione di essere riscritta più come una versione dialettale della
globalizzazione che come il cedimento a politiche nazionali e internazionali su larga scala”. Del resto, il titolo
originale Modernity at Large gioca proprio su un’ambiguità glocal, dato che in inglese at large significa sia “in
generale” (enfatizzando quindi la dimensione globale della modernità) sia “alla macchia”, come di un prigioniero
evaso (con una chiara enfasi della dimensione localizzante e idiolettale di quella modernità).
20
riflessioni di Michel Foucault su alcuni concetti nietzschiani49, possiamo ricostruirne la storia
come movimento di diffusione dal luogo di origine (come processo cioè legato alla
globalizzazione) ma con altrettanta cura dobbiamo indagarne la genealogia, il movimento
parimenti storico attraverso cui quel fenomeno si indigenizza (producendo paradossalmente
ulteriore identità locale, come abbiamo visto). La storia, quindi, è il collegamento di modelli
di mutamento in contesti sempre più vasti o, se si vuole, il percorso di determinati flussi nel
loro dipanarsi a livello globale, per cui è possibile fare la storia del nazionalismo se si
individua la sua origine e poi se ne segue il lento propagarsi sul pianeta come dottrina politica.
La genealogia, invece, significa lo studio delle condizioni storiche locali che consentono la
sedimentazione sul territorio di nuove forme culturali, per cui è possibile collegare
l’indigenizzazione del nazionalismo in India ai grandi imperi moghul o alla tradizione della
divisione sociale in caste, e vedere come la storia di un concetto politico debba fare i conti, a
livello locale, con la genealogia entro cui cerca di innestarsi50.
Questa duplice attenzione analitica (ai fenomeni messi in moto dalla globalizzazione
economica e culturale del pianeta e al loro radicarsi in contesti estremamente locali secondo
forme indigene che li rendono del tutto peculiari proprio nel momento in cui si insediano
come fenomeni globali) cerca ovviamente di tener conto della dimensione culturale di ogni
forma di modernizzazione e quindi supera in maniera intenzionale il modello aculturale
classicamente evoluzionista. Soprattutto, questo approccio permette di scardinare la necessità
che sembra correlare alcune variabili nella teoria aculturale della modernizzazione come, ad
esempio, il rapporto tra modello politico, livello di sviluppo economico e tecnologico e
secolarizzazione. Se infatti nella teoria classica della modernizzazione queste tre variabili
sono strettamente correlate (per cui a una crescita tecnologica dovrebbe corrispondere una
progressiva secolarizzazione e un rapido passaggio verso forme di democrazia liberale), oggi
abbiamo piena consapevolezza che vi può essere crescita economica senza corrispondente
passaggio a regimi liberali o democratici (come nel caso cinese) oppure una sostanziale
espansione tecnologica senza segni evidenti di secolarizzazione (come in Iran). In modo
sempre più nitido a partire dalla crisi dell’11 settembre 2001, abbiamo dunque acquisito
consapevolezza non solo analitica ma anche politica che possiamo inscrivere persino forme
apparentemente regressive come il fondamentalismo religioso entro il quadro generale della
49
MICHEL FOUCAULT, “Nietzsche, Généalogie, Histoire”, in AA.VV. Hommage à Jean Hyppolite, Paris,
Presses Universitaires de France, 1971, II-232 p. [pp. 145-172].
50
APPADURAI, Modernità in polvere, op. cit. alla nota 5. I riferimenti all’opposizione storia/genealogia sono
alle pp. 91-92 e 102-103.
21
modernizzazione51, che quindi si frantuma in diversi percorsi locali che lottano per il
predominio.
Perduta la strada maestra dell’evoluzione sociale, la modernizzazione può quindi
significare anche l’acquisizione di competenze tecnologiche per la realizzazione di obiettivi
apparentemente premoderni: la ripresa su nastro magnetico dello sgozzamento dei prigionieri
durante la seconda guerra in Iraq è un esempio particolarmente efferato di questa commistione
apparentemente contraddittoria di mezzi “moderni” (di comunicazione di massa) e di fini
“barbarici”, ma nel prossimo capitolo vedremo invece applicazioni del tutto pacifiche di
questo stesso principio. Il primo punto che dobbiamo tenere presente nel nostro tentativo di
realizzare un quadro teorico che ci consenta di comprendere come i mezzi di comunicazione
di massa producano oggi forme identitarie è che non vi è un percorso necessario che conduca
dal tradizionale al moderno, se con quest’ultimo termine intendiamo il sistema di valori che
caratterizza il mondo occidentale. La circolazione dei messaggi garantita dalla
globalizzazione, dunque, non certifica una progressiva omogeneizzazione culturale del
pianeta, dato che i percorsi storici di quei messaggi possono essere molto lontani dalle loro
strategie genealogiche di sedimentazione locale.
Ma, assieme a questo punto, ce n’è un altro che va tenuto presente con chiarezza, ed è – in
estrema sintesi – il passaggio dalle migrazioni alle diaspore. Abbiamo già accennato
nell’introduzione al rapido movimento della popolazione sul pianeta grazie alla diffusione di
mezzi di trasporto sempre più veloci e sempre più economici. L’innovazione tecnologica dei
trasporti, associata alla rapidità con cui si spostano i messaggi attorno al pianeta, ha provocato
un radicale mutamento del modo in cui le comunità si pensano e agiscono come tali. Così, in
un saggio dedicato proprio al concetto di diaspora, l’antropologo americano James Clifford
condensa la situazione attuale:
...le forme diasporiche della nostalgia, della memoria, e della (dis)identificazione sono
condivise da un ampio spettro di minoranze e popolazioni migranti. E popoli dispersi, un
tempo separati dalle terre d’origine da vasti oceani e da barriere politiche, si trovano
sempre più in relazioni di frontiera con la vecchia patria grazie a un viavai reso possibile
51
Cfr. ad esempio la brillante analisi del fondamentalismo musulmano di JOHN GRAY, Al Qaeda and what it
means to be modern, London, Faber and Faber, 2003, 145 p. Traduzione italiana di Lorenzo Greco, Al Qaeda e il
significato della modernità, postfazione di Sebastiano Maffettone, Roma, Fazi, 2004, 155 p.
22
dalle moderne tecnologie dei trasporti, delle comunicazioni e della migrazione del lavoro.
Aerei, telefoni, videocassette, videoregistratori e mobilità dei mercati del lavoro, riducono
le distanze e agevolano il traffico, legale e illegale, fra i luoghi del mondo.52
Gli uomini hanno sempre viaggiato cercando altrove migliori condizioni di vita, ma nel
farlo dovevano essere disposti a lasciare dietro di sé buona parte dei loro affetti e delle loro
conoscenze. A partire dalla seconda metà dell’Ottocento, questo spostamento ha coinvolto
milioni di persone in fasi diverse, fino a giungere agli attuali movimenti di popolazioni dal
Sud verso il Nord del mondo. Ma se fino agli anni Cinquanta del Ventesimo secolo
l’opposizione basilare era quella tra stanziali e migranti (con i secondi ferocemente tesi per
propria volontà o per la pressione dello Stato ospite a diventare quanto più rapidamente
possibile parte dei primi) la tecnologia associata ai trasporti e alla comunicazione ha mutato lo
scenario, producendo almeno tre categorie distinte di raggruppamenti identitari in base al loro
specifico rapporto con il territorio:
1. Migranti. Continuano ad esistere i migranti. Persone che si spostano, per speranza o per
disperazione, da un posto a un altro e intendono integrarsi nel luogo di arrivo. Si sforzano di
imparare rapidamente la lingua del paese in cui sono ospiti o almeno pretendono che la
parlino i loro figli, per far sì che la loro condizione di forestieri venga rapidamente meno, e si
trasformi in piena cittadinanza. I migranti non intrattengono rapporti stabili o continuativi con
il posto da cui provengono, e quindi ne costruiscono al massimo un’immagine idealizzata,
rapidamente oleografica e sempre più distante dalla realtà. Spesso accettano addirittura una
sorta di amnesia che consenta un più rapido inserimento nella comunità di arrivo.
L’emigrazione italiana dell’Ottocento (in Francia prima, nelle Americhe poi) era in massima
parte concepita e organizzata come produzione di migranti, ben disposti a cedere quote
rilevanti della loro identità italiana (spesso solo regionale o locale) in cambio di una
prestigiosa e nuova identità “moderna” (francese o variamente americana).
2. Diasporici. Ma la condizione di migranti, necessaria e senza alternative praticabili (se
non l’emarginazione sociale) per quanti partivano fino agli anni Cinquanta, presto si è mutata
in una scelta, dato che la possibilità di mantenere contatti costanti con il luogo di provenienza
ha reso via via plausibile l’alternativa di sentirsi parte di una comunità diasporica. Oggi è, in
molti casi, materialmente possibile spostarsi all’altro capo del pianeta per sempre senza
52
JAMES CLIFFORD, “Diaspore”, in Strade. Viaggio e traduzione alla fine del XX secolo, traduzione di
Michele Sampaolo e Giuliana Lomazzi, Torino, Bollati Boringhieri, 1999, 475 p. [pp. 299-342; il passo citato è
da p. 302]. Edizione originale Routes. Travel and Translation in the Late Twentieth Century, Cambridge, MA, -
London, Harvard University Press, 1997, 408 p.
23
abbandonare non solo la lingua di socializzazione, ma anche le abitudini alimentari, i gusti
musicali, il panorama politico e i giornali o i programmi televisivi preferiti. Ci si può radicare
cioè in un territorio senza perdere il contatto reale (non solo il legame affettivo) con la propria
patria d’origine. Ovviamente, questa disponibilità non è equamente distribuita sul pianeta
(immagino sia difficile sentirsi membro della diaspora greca, poniamo, in Nuova Guinea) ma i
grandi flussi migratori e le mete principali sembrano rendere strutturale questa condizione.
Com’è immaginabile, sono gli Stati nazionali ad essere scossi nella loro natura costitutiva
dalle diaspore, dato che queste minano il requisito primigenio dello Stato nazionale moderno,
e cioè l’uniformazione dei propri membri a un modello regolare di tratti culturali e valori
morali condivisi. La pretesa di una comunità diasporica di mantenere non solo i contatti, ma
anche la propria fedeltà, associati a un paese diverso da quello in cui si risiede viene giudicata
spesso come una vera minaccia all’integrità nazionale, o almeno come una pratica ambigua e
fonte di sospetto.
Quale che sia la volontà assimilatrice degli Stati nazionali, le condizioni strutturali
dell’identità (i modi e le forme della sua produzione e riproduzione) rendono ormai
disponibile una condizione diasporica che oggi si rende fruibile anche alle generazioni nate
dai migranti. Cittadini “sfocati” rispetto al centro normativo dello Stato cui appartengono e in
cui sono nati, possono a volte ricostituire un legame effettivo con la terra di provenienza dei
loro genitori, o dei loro antenati. In un movimento paradossale che vanifica la retorica
53
JAMES CLIFFORD, “Diaspore”, loc. cit. alla nota precedente, p. 307.
24
stabilizzante della metafora delle radici, questi nuovi soggetti diasporici inseguono nel tempo
e nello spazio una radicalità sostanzialmente nuova per loro e per la loro comunità.
Le diaspore attivate nella globalizzazione producono inevitabilmente una pressione politica
sugli Stati. Non tanto e non solo sugli Stati di destinazione, quanto sull’ideologia stessa che
sta a fondamento dello Stato attuale. Le politiche assimilazioniste, viste con favore fino agli
anni Sessanta del secolo scorso, hanno lasciato il campo a progetti sociali in cui le parole
chiave sono integrazione (non assimilazione), e multiculturalismo54 o intercultura55, non più
cultura nazionale. Legittimando il nomadismo dei sistemi culturali, la diaspora delegittima la
vocazione sedentaria degli Stati nazionali classici, costringendoli a un duplice lavoro empirico
(da un lato mediare tra le diverse culture diasporiche che li attraversano; dall’altro inseguire la
diaspora della propria comunità nazionale originaria) e a un complesso lavoro teorico di
giustificazione della propria esistenza. Se infatti lo Stato nazionale non è più (o non più in
modo esclusivo) l’alveo politico di una comunità nazionale uniforme per cultura e valori,
quali sono le basi morali della sua legittimità come soggetto politico? Ma non è solo contro
l’ideologia dello Stato nazionale che prendono forma le comunità diasporiche, e non sono
solamente le comunità diasporiche a minare la legittimità dello Stato nazionale.
3. Indigeni. Proprio i flussi planetari di merci, messaggi e popoli hanno attivato una nuova
consapevolezza della territorialità, che si traduce in politiche di salvaguardia, di recupero e di
rinforzo del legame “originario” con il suolo. Il movimento zapatista che il 1° gennaio 1994
prese il controllo di San Cristobal de la Casas e di altri centri dello Stato messicano del
Chapas era composto principalmente di indios tzeltal, tzozil e chol che, sostenuti anche dalle
gerarchie cattoliche (con loro era Samuel Ruiz, vescovo di San Cristobal) si sollevarono
contro il Governo centrale reclamando giustizia sociale. Un elemento interessante del
movimento zapatista è la sua capacità di superare le tradizionali divisioni etniche in nome di
una battaglia condotta sulla comune provenienza: “Ciò che abbiamo in comune è la terra che
ci ha dato la vita e la lotta”56.
54
JURGEN HABERMAS, CHARLES TAYLOR, Multiculturalismo: lotte per il riconoscimento. Traduzione di
Leonardo Ceppa e Gianni Rigamonti, Milano, Feltrinelli, 1998, 117 p. Contiene, in trauzione italiana: JURGEN
HABERMAS Kampf um Anerkennung im demokratischen Rechtsstaat; CHARLES TAYLOR The politics of
recognition. Sul multiculturalismo si veda anche
55
Sul recente passaggio dal multiculturalismo all’intercultura si veda FRANCESCO POMPEO, Il mondo e poco.
Un tragitto antropologico nell’interculturalità, Roma, Meltemi, 2002, 191 p.
56
Cit. in MANUEL CASTELLS, The power of identity. Second edition, op. cit. alla nota 8, p. 87. Castells
analizza diffusamente il movimento zapatista alle pp. 81-93.
25
Questo esempio, ormai estremamente famoso ma cui potremmo facilmente aggiungerne
altri57, ci dice ancora una volta che non è contro la globalizzazione economica e culturale che
prendono forma e si caricano di valenze politiche le identità locali, ma proprio dentro la
diffusione planetaria dell’uniformazione del mercato e dei costumi consentita
dall’esportazione dei messaggi e delle ideologie tramite i mezzi di comunicazione elettronica
che trovano nuova linfa le identità locali. Se non ci fossero i migranti e i diasporici, gli
indigeni, con il loro primigenio legame alla terra, non avrebbero ragione politica di essere tali.
La “riscoperta” dell’autoctonia e della primogenitura aggredisce la legittimazione
“territoriale” dello Stato almeno quanto le diaspore ne incrinano la legittimazione “etnica”. Se
cioè la diaspora planetaria dimostra la permeabilità dei confini stabiliti tra gli Stati sovrani –
la loro natura sempre più simbolica di asserimento della differenza e sempre meno funzionale
di gestione attiva della stessa – così ogni rivendicazione di indigenità interna, venendosi a
configurare come una richiesta di designazione di uno spazio politico speciale all’interno dei
confini nazionali – cioè ponendo un nuovo confine identitario – nega valore anche solo
formale ai confini statali. Ogni movimento indigenista, nativista, autoctono o comunque
connotato in termini di superiorità morale rispetto alle diaspore e alle migrazioni, proprio
delimitando un suo spazio “naturale” (quasi mai coincidente con lo spazio nazionale in cui è
incluso) riduce a mero artificio lo spazio nazionale dello Stato che lo contiene. Se cioè trova
una sua legittimità politica e culturale l’idea che il criterio fondativo di una comunità non sia
un accordo siglato attorno a una progettualità comune, ma uno spazio condiviso ab origine e
attraversato in seguito da altri più o meno tollerati, lo Stato nazionale di fronte a identità di
questo tipo deve necessariamente scegliere tra due possibili risposte. O decide di fare proprio
il modello indigenista, assumendo consapevolmente la postura di Stato etnico e quindi
puntando alla definitiva “purificazione” del proprio territorio nazionale da qualunque
contaminazione con gruppi definiti non autoctoni (accollandosi l’inevitabile strascico di orrori
e dolori che questa posizione inevitabilmente porta con sé) oppure cerca di contenere quel
modello in un sistema generalizzato di riconoscimenti giuridici per le diverse comunità
indigene eventualmente esistenti sul suo territorio. La risposta effettiva è spesso una malsicura
mediazione tra questi due estremi, come testimoniano, soprattutto in Europa occidentale, i
tentativi ambivalenti di escludere o inglobare nei sistemi di governo i gruppi politici che
mobilitano la propria base e strutturano il loro programma sul richiamo a un’identità
autoctona o indigena.
57
AGGIUNGERE BIBLIOGRAFIA SU INDIGENOUS PEOPLES.
26
E se nei contesti extraeuropei molto spesso la contrapposizione è tra indigeni e cittadini di
origine eurocoloniale (inserendosi quindi in sperequazioni di potere precedenti e
profondamente radicate, per cui, per così dire, l’indigenismo nasce in questi contesti
costitutivamente fragile e subalterno e deve lottare anche solo per acquisire una quota
politicamente spendibile di orgoglio identitario) in Europa la sedentarietà primigenia
dell’appartenenza si aggancia facilmente a gruppi storicamente egemonici sul piano
economico oltre che su quello culturale, producendo un’ulteriore emarginazione degli
emarginati.
Questa tripartizione teorica dello spazio identitario (migranti, diasporici, indigeni) non si
presenta, dal punto di vista delle singole comunità e ancor meno per quanto riguarda i singoli
soggetti, come un’alternativa, tutt’altro. Lo stesso individuo può rivendicare allo stesso tempo
la duplice natura di indigeno e diasporico, e anzi molto spesso la legittimazione dei diritti
richiesti in quanto popolo di una diaspora (la richiesta formale, ad esempio, di poter utilizzare
la propria lingua madre nel sistema educativo almeno fino a un certo grado di istruzione,
come avviene in Australia) deriva proprio dalla presunta natura indigena dell’identità di
provenienza. I macedoni di Grecia emigrati in Australia (di passaporto greco e di lingua
macedone, del gruppo delle lingue slavomeridionali), ad esempio, possono chiedere che i loro
figli in Australia vengano educati in macedone in quanto lingua autoctona nella regione della
Grecia da cui provengono: i loro diritti diasporici derivano quindi dalla loro autoctonia o
“indigenità” in Macedonia58.
Del resto, la compresenza di tratti ambivalenti è inscritta nella natura opportunistica di
qualunque strategia identitaria, e se da un lato gli Stati si sforzano di conservare i privilegi
della loro “comunità originaria” quando questa coincide con le classi economicamente e
politicamente dominanti (com’è in generale il caso in Europa e in Asia), dall’altro gli stessi
organismi statali si battono per il riconoscimento dei diritti dei “loro” compatrioti lontani,
anche quando questi si sentono più migranti che diasporici.
Gilroy
IL SAGGIO È ICOMPLETO. MACA IL FIALE ACORA I FASE DI
STESURA
58
Sulla costruzione dell’identità diasporica dei macedoni in rapporto all’identità indigena, e sul ruolo giocato
in questa costruzione dalla comunicazione sempre più fitta tra “i partiti” e “i rimasti” cfr. LORING M. DANFORTH,
The Macedonian Conflict. Ethnic 6ationalism in a Transnational World, Princeton NJ, Princeton University
Press, 1995, XVI-273 p.
27
Pastori e pinocchi
2006]
Introduzione
Tra il giugno 1995 e il febbraio 1997, mentre svolgevo la ricerca sul campo in Macedonia
occidentale greca per il mio dottorato, mi sono recato diverse volte in Albania in visita a Gilles de
Rapper, un collega francese che conduceva la sua ricerca nell’area di confine tra Albania e Grecia.
Durante uno di questi viaggi, a Voskopoj ebbi modo di chiacchierare con Dhori Fallo, un professore
di matematica in pensione che parlava un elegante italiano imparato durante la prigionia in Italia
negli anni Quaranta. Tenendo in braccio il nipotino di pochi mesi, Dhori mi raccontò che aveva due
figli, uno sposato che lavorava clandestinamente in Grecia (il nipotino era figlio suo), e l’altro in
Italia dal 1991, arrivato con una di quelle carrette del mare stipate di uomini che tutti ricordiamo
quell’estate. Il discorso che il padre tenne al figlio prima di vederlo partire fu di questo tenore: “Vai
in Italia, cercati un lavoro lì e dimenticati di essere albanese. Sposati se puoi con una donna italiana
e cresci dei figli italiani. Adesso non è tempo di essere albanesi, non abbiamo una dignità da
difendere, ma solo miseria umana e morale da sconfiggere. Tra qualche anno, quando e se l’Albania
ritroverà un suo onore, potrai dire ai tuoi figli che sono albanesi, ma non adesso, adesso dimenticati
28
Pastori e pinocchi
anche tu che provieni da questo Paese”. Ricordo la forte impressione che mi suscitò questo
imperioso comando di un padre a scordare la patria, la terra dei padri. All’epoca, gli albanesi non
godevano in Europa di buona fama: noti alle cronache solo per i casi criminali, sembravano in
generale aver fatto tesoro del consiglio di Dhori, rendendosi, perlomeno in Italia (il paese con la più
alta percentuale di emigrati, assieme alla Grecia) praticamente invisibili, anche per via delle
caratteristiche somatiche “mimetiche”.
Appena rientrato in Italia, nel febbraio 1997, ebbi modo di verificare rapidamente il modo in
cui gli albanesi erano visti e giudicati dato che la crisi finanziaria che stava devastando il Paese
balcanico da gennaio iniziò presto ad attrarre l’attenzione dei mezzi di comunicazione italiani,
soprattutto quando produsse sollevazioni, incidenti e rapidi tentativi di fuga dal paese.
Ne emerse un’immagine complessa ma sostanzialmente negativa degli albanesi, delle loro
motivazioni e delle loro strategie culturali, la cui analisi costituisce la parte centrale e più
consistente di questo lavoro.
Nelle pagine finali, invece, presento un rapido caso di studio in corso per avanzare alcune
riflessioni sul ruolo che un altro mezzo di comunicazione di massa ha avuto nella rappresentazione
dell’identità albanese, e cioè la televisione d’intrattenimento nei primi anni del nuovo millennio.
Lungi dal voler essere una disamina sistematica sul ruolo dei mass media nella formazione
delle identità collettive, queste pagine sono piuttosto un primo resoconto di una ricerca tuttora in
corso, che cerca di riflettere sul ruolo dinamico dei mass media, strumenti di comunicazione sempre
bidirezionali, che molto dicono non solo sulla natura dell’oggetto rappresentato, ma anche sulle
forme culturali del soggetto che attua l’operazione di rappresentazione.
Pastori e pinocchi
Il 1997 è un anno di svolta per l’economia albanese. A partire dalla metà di gennaio le numerose
finanziarie sorte come funghi nel biennio precedente, attraendo i risparmi delle famiglie e le rimesse
degli emigrati con prospettive di rendita elevatissime, stavano collassando a ritmi incontrollabili. Il
sistema piramidale della raccolta del denaro (per cui ogni cliente, per poter iniziare ad avere una
rendita dal proprio investimento, doveva trascinare con sé una dozzina di nuovi utenti) era giunto a
saturazione e il denaro, drenato nelle mani di pochissimi, si era letteralmente volatilizzato. La crisi
colpì la quasi totalità della popolazione residente in Albania e l’inerzia del governo di Sali Berisha
nell’affrontare per tempo la situazione provocò da febbraio un periodo di sommosse, sollevazioni
popolari e scontri anche violenti, periodo oggi è ricordato come la “guerra civile”, anche se non è
mai stato chiaro quali fossero (e se ci fossero) le parti contrapposte.
29
Pastori e pinocchi
Su mandato del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, fu attivata in Albania tra il 15 aprile
e il 12 agosto 1997 la “missione Alba”, condotta dalla Forza Multinazionale di Protezione per
aiutare la popolazione albanese e sostenere attivamente il ritorno della stabilità politica. Per la prima
volta, una missione internazionale era a guida italiana, come italiana era la maggior parte delle
truppe coinvolte sul territorio. Si trattò quindi di un’importante occasione per fare vedere, sullo
scacchiere della politica internazionale, quale potesse essere il ruolo militare dell’Italia dopo la fine
della seconda guerra mondiale.
L’intera vicenda ebbe un’intensa copertura mediatica globale, cui ovviamente partecipò anche
l’Italia. Nelle prossime pagine ricostruisco il modo in cui i “corsivi” di quattro quotidiani italiani
hanno raccontato la crisi dell’economia albanese tra febbraio e marzo 1997. Ho scelto il corsivo
soprattutto per la sua implicita natura di testo “autoriale”, volendo quindi porre un parallelo tra la
scrittura giornalistica e la scrittura della saggistica antropologica. I quotidiani selezionati sono stati:
La Repubblica, il Corriere della Sera, Il Giornale e Il Gazzettino, con l’intento di fornire un quadro
genericamente esaustivo del panorama disponibile all’epoca, pur se costretto a tralasciare altri
grandi quotidiani “d’opinione”.
Per buona parte di febbraio i giornali italiani non sembrano prestare molta attenzione a quel che
accade in Albania, anche se i crolli finanziari si susseguono a catena e non mancano le
manifestazioni di protesta. Ci sono pochissimi articoli, solo nelle pagine interne, e quasi nulla che
somigli a un corsivo. Posso citare due colonne non firmate su la Repubblica dell’11/2, anche
perché, primo tra tutti, questo pezzo mette a fuoco il tema che ossessionerà gli italiani di lì a
qualche settimana: “E quando, come ormai pare certo, cadranno anche le company fino a ieri
ritenute più solide da un punto di vista economico […] non resterà agli albanesi altro che tornare a
imbarcarsi sui traghetti, scafi e gommoni alla volta delle coste pugliesi”.
Quando l’interesse cresce, predomina un’immagine degli albanesi come “popolo folclorico”:
“…noi andammo all’attacco di quello che, allora, veniva definito ‘il nobile popolo schipetaro’.
C’era un re che si chiamava Zogu e che aveva sposato una contessina ungherese di nome Geraldine:
un bel soggetto per un musical […] Vittorio Emanuele III diventò sovrano anche di quelle serene
popolazioni dedite alla pastorizia e che hanno dato al mondo Madre Teresa di Calcutta e Anna Oxa
da Bari”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3. Biagi ribadirà quest’icona tra l’agreste e il comico pochi
giorni dopo: “Quando stoltamente andammo ad occupare quel povero Paese […] trovammo un
mondo arretrato e primitivo, una reggia da operetta e attorno brava gente che custodiva greggi o
buttava reti”, Corriere della Sera, 18/3. Normale, viste le premesse, che quelli truffati siano
descritti come “…gente che aveva creduto a un sogno: la moltiplicazione della ricchezza attraverso
30
Pastori e pinocchi
Precoce è la preoccupazione che la crisi albanese possa dilagare, anche se non sono chiari i
motivi o le forme di questo potenziale contagio, paventato con un non sequitur che risente
evidentemente di un radicato stereotipo della “polveriera” che così bene si accompagna al quadro
“balcanico” (Todorova 1997): in Albania succedono sommosse, quindi c’è il rischio che si
incendino i Paesi vicini.
“L’Albania non è un’eccezione, ma solo l’anello più debole di quella catena che collega la
Serbia, la Croazia, la Bulgaria, la Romania. Paesi diversi… legati da un comune destino:
l’incapacità di gestire la transizione dal comunismo al mercato”, Corriere della Sera, Cingolani,
2/3.
“Ora il passato albanese sembra volersi prendere una rivincita che nelle nuove condizioni
minaccia di infiammare il Kosovo, la Macedonia, e di lì tutti i Balcani”, Corriere della Sera
Venturini, 4/3. Un esperto paventa il rischio del contagio a tutto l’est ex-comunista: “Dunque: oggi
in Albania, domani in Romania, in Bulgaria e, forse, in Russia?” Gazzettino, Ostellino, 4/3 e
qualcuno prevede ripercussioni su tutta l’Europa, senza distinzioni: “…una crisi che destabilizza
ancor più l’area balcanica e che minaccia ripercussioni gravi per tutta l’Europa” Gazzettino, Tito,
14/3.
31
Pastori e pinocchi
“Gli Stati Uniti […] sanno che dopo l’Albania può esplodere il Kosovo […] Poi c’è la
Macedonia, piena di soldati americani mandati a circoscrivere l’incendio dei Balcani. La Grecia,
intanto, si allarma per le sorti della propria minoranza nel sud dell’Albania”, Corriere della Sera,
Cingolani, 6/3.
“Un’altra Somalia, un altro Libano? No, perché l’Albania è qui, è in Europa e per massima
disdetta è anche nei Balcani, nella nostra secolare e già tanto insanguinata ‘polveriera’”, Corriere
della Sera, Venturini, 15/3.
Un altro esperto dell’area sostiene una variante di questa teoria, per cui non si tratterebbe, per
l’Albania, del caso particolare di una regola generale, ma del contagio subito dal Paese delle Aquile,
della balcanizzazione di uno Stato fino ad allora immune: “Il nuovo regime di Tirana ha infatti
realizzato dopo il ´91 una metamorfosi del tutto balcanica del paese […] Si è quindi sostenuta una
‘balcanizzazione’ del paese invece di contrastarla”, la Repubblica, Cavallari, 6/3.
Una versione peculiare di questa teoria del “contagio balcanico” è quella proposta da Robi
Ronza, che prende le mosse dai rischi di un intervento concertato europeo: “Coinvolgere l’Europa
vuol dire coinvolgere la Grecia, che da sempre rivendica come cosa sua proprio quella regione
dell’Albania meridionale attorno a Valona che è attualmente in piena rivolta contro il governo di
Tirana; una regione dove tra l’altro è insediata una minoranza di lingua greca, la cui cultura è priva
di qualunque tutela e riconoscimento ufficiali. Ci sarebbe oggi in effetti da verificare in quale
misura la rivolta in corso, così violenta e nel medesimo tempo così delimitata dal punto di vista
territoriale, non trovi il suo punto di forza nella minoranza greca, e nell’appoggio che le può
provenire dalla madrepatria, la Grecia”, il Giornale, Ronza, 9/3. A parte il fatto che il cosiddetto
“Epiro settentrionale” – e cioè i distretti di Saranda, Argirocastro, Tepeleni, Coriza e Përmet, dove
vive la minoranza grecofona d’Albania – è ben distante da Valona, città del tutto albanese per
cultura e lingua, la Grecia, in realtà, non “rivendica da sempre come sua” alcuna terra d’Albania. Se
è vero che diversi politici greci (di destra) hanno sfruttato la questione dei territori dell’Albania
meridionale abitati anche da popolazione di lingua greca, è anche vero che nessun governo greco
dalla fine della Seconda Guerra Mondiale ha mai avanzato alcuna rivendicazione ufficiale presso
alcun organismo internazionale.
In questi territori (più a sud e più a est di Valona) vive comunque una minoranza di lingua greca
e religione ortodossa, riconosciuta ufficialmente dallo Stato albanese (c’è semmai contrasto tra
governo e rappresentanti della minoranza sulla consistenza numerica della medesima), con il diritto
di scuole in greco e tre quotidiani in lingua e alfabeto greci. Proprio nell’agosto precedente la crisi
albanese si erano aperte tre nuove scuole elementari in greco, a Saranda, Argirocastro e a Delvina,
frutto dell’accordo del marzo 1996 tra i due governi, di Tirana e Atene (Human Rights Watch
32
Pastori e pinocchi
1997). Restano questioni aperte per la minoranza greca in Albania, ma lo stesso organismo che
all’epoca monitorava in Albania il rispetto degli accordi di Helsinki ammetteva che “la minoranza
greca è una parte integrante della società albanese”. Questo tipo di giornalismo – che trasforma
senza argomenti la Grecia in uno Stato pericolosamente irredentista e l’Albania in un oppressore dei
diritti delle minoranze – risente, oltre che dei suoi oggettivi limiti, della vocazione a “balcanizzare i
Balcani”, ad attribuire cioè pregiudizialmente a tutta l’area genericamente “a sud est” istinti
primordiali, siano essi di difesa del proprio gruppo o di oppressione di quelli altrui.
33
Pastori e pinocchi
che impose un’egemonia dei clan meridionali (era nato ad Argirocastro). Ramiz Alia, suo
successore, fu appoggiato dal Nord, che vedeva giunto il momento di recuperare il potere perduto”,
Corriere della Sera, Cingolani, 8/4.
Una delle forme più compiute in cui compare questa teoria è in un articolo di Sandro Viola:
“L’Albania si rivela in fin dei conti identica – almeno per un aspetto – ad ogni altro paese su cui sia
scesa la sventura del comunismo. L’aspetto cioè del congelamento, dell’eclisse solo apparente e
temporanea, durante il periodo comunista, dei suoi mali più antichi. Come in Polonia e in Ungheria
sono riemersi negli anni scorsi gli umori antisemiti, come in Jugoslavia sono esplose le avversioni
etnico-religiose che avevano sempre diviso i popoli della Federazione, così in Albania sono tornati
a galla il disordine, l’irrequietezza dei clan, la pratica del brigantaggio che erano sempre stati i
fattori della sua arretratezza. […] Quattro decenni e più di comunismo hanno lasciato sotto il
ghiacciaio del sistema totalitario, sotto la repressione dello stato di polizia, le cose come stavano.
Nulla ha potuto evolversi, maturare”, la Repubblica, Viola, 16/3.
Banditi e invasori
Quando, il 13 del mese, le manifestazioni si intensificano, gli scontri diventano più gravi e anche
il governo di Tirana ammette che non si tratta più di “pochi facinorosi”, allora sui giornali italiani si
alza il tiro. “L’Albania si è dissolta”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. “In un paio di settimane
la protesta dei truffati ha cambiato natura, prima è diventata rivolta politica, poi insurrezione, infine
catastrofe umanitaria, politica, diplomatica”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. A questo punto il
ministro degli Interni “potenziava le frontiere e chiudeva la porta a nuove possibili ondate di
profughi”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Del resto, “L’Albania non c’è più”, Corriere della
Sera, Biagi, 18/3. “A Tirana è semplicemente crollato lo Stato”, il Giornale, Ricossa, 19/3. E che
sia crollato solo lo Stato è troppo poco per alcuni commentatori: “Ma l’insurrezione è sfuggita agli
apprendisti stregoni e si sono scatenate forze ancestrali”, Corriere della Sera, Cingolani, 14/3.
Il climax assume toni da film horror: “In Albania tutto ciò che fa di una massa di gente un
“paese” ossia l’ordine, la legalità, la convivenza, l’amor di patria, la fiducia nell’avvenire, la
tradizione, l’economia, la cultura, la religione, sembra svanita [sic] nell’aria per effetto di una magia
potente da Signore del Male”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Il corsivista, che dovrebbe fornire dati
essenziali alla comprensione o proporre una griglia interpretativa per dati già noti, sembra
rinunciare al suo ruolo, cedendo alle lusinghe della spiegazione “magica”: “L’Albania, a me
sembra, è diventato un caso clinico della storia e della politica. Ma stiamo attenti, noi italiani…
Potremmo essere noi stessi, in un futuro non lontano, contagiati da una qualche forma di sindrome
albanese”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3. Gli albanesi sono dunque in preda al Male, o a una malattia
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Pastori e pinocchi
contagiosa. Questa analisi “irrazionalista” della crisi albanese non è rara e qualche giorno dopo
affiora prepotente in un nuovo commento: “…ma il grande nemico, lo spirito del male, è spesso
invincibile perché poggia sull’inganno, sulla frode, sul tradimento vergognoso dell’uomo. E in
Albania sembra essere sceso in forze, con una tale violenza da farci dubitare perfino della giustizia
e della verità…”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Del resto, del pericolo di venir infettati dagli
albanesi si era appena parlato: “Questa, come abbiamo già detto, è piuttosto un’invasione di massa,
[…] una marea capace di esportare sul nostro territorio il virus del disordine e della rivolta”, la
Repubblica, Valentini, 19/3, e ne accennerà ancora il decano dei giornalisti italiani: “…l’Albania
con i suoi virus di decomposizione e di guerra di bande”, Corriere della Sera, Montanelli, 30/3.
Il paradosso comunicativo è evidente. Nei corsivi sembra saltare qualunque tentativo di spiegare
razionalmente una sommossa popolare in gran parte comprensibile data l’entità della crisi
finanziaria, e si cede chiaramente proprio a quel richiamo “illogico” e “irrazionale” che
affliggerebbe gli albanesi: di fronte al Male non resta altro che il silenzio, o il rituale apotropaico,
per allontanarlo (dalle nostre coste, ovviamente).
I corsivisti fanno presente fin dall’inizio quale sia il vero rischio di sottovalutare la crisi
albanese: “È nostro interesse riportare a Tirana un dialogo corretto tra governo e opposizione […]
Se questo non dovesse avvenire aspettiamoci nuove invasioni di profughi. Più di quelle che
quotidianamente già abbiamo” Gazzettino, Cerruti, 2/3. Non è chiaro cosa intenda Cerruti per
“invasioni quotidiane”, ma l’equivalenza tra sottovalutazione della crisi e invasione di albanesi è
ribadita anche sul Corriere della Sera: “L’Italia può e deve stanziare aiuti immediati […] ben
sapendo che costerebbe assai più caro un nuovo assalto alle nostre coste come quello dell’estate
’91”, Corriere della Sera, Venturini, 4/3.
Un’altra voce autorevole: “Adesso c’è il rischio di una invasione alla rovescia, il terrore che la
Guardia di finanza debba lanciare il grido delle vedette della Wehrmacht sul Vallo Atlantico: ‘Sie
kommen’, arrivano”, Corriere della Sera, Biagi, 5/3.
La minaccia dell’invasione conferma la necessità di un intervento italiano, visto che se l’Italia
non entrasse in gioco: “Quelle che vediamo arrivare sulle nostre coste diventerebbero allora le
timide avanguardie di un popolo in fuga che non potremmo né avremmo il diritto morale di
respingere”, Corriere della Sera, Venturini, 15/3.
L’escalation prospettata è terribile: “A questo punto tutto è possibile, anche l’impensabile: cioè
la sparizione di uno Stato, la disgregazione di ogni forma di convivenza. Dal caos può uscire
perfino un’orgia di rissa etnica senza confini ma non senza precedenti”, il Giornale, Pasolini
Zanelli, 14/3. Cosa si intenda per “precedenti” è presto detto: “L’Albania potrebbe trasformare
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Pastori e pinocchi
l’Europa nel ventre molle occidentale, come la trasformò la Bosnia”, Corriere della Sera, Caretto,
17/3. “L’Albania, come la Bosnia, non è un fatto nostro: ma un problema dell’Europa. Può essere
l’inizio di una catena di guai per tutti”, Corriere della Sera, Biagi, 18/3.
Altro pericolo incombente sono le ripercussioni razziste che si potrebbero avere in Italia: “E
speriamo, questo sì, che la loro presenza [in Italia] non inneschi da noi quei furori elettorali che in
Austria hanno fatto la fortuna di Haider, che in Francia soffiano ancora nelle vele del Fronte
nazionale”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3.
Le tinte fosche con cui si raccontano l’Albania e i suoi abitanti si incupiscono ancor più dopo la
metà di marzo, quando l’Italia si “rende conto” di dover affrontare quel che più spesso viene
definito un “esodo”.
“…l’esodo degli albanesi verso le coste italiane ha assunto le proporzioni di una fuga di
massa…”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3. “…esodo albanese, che ha un sapore biblico”, il
Giornale, Sterpa, 21/3. E ormai si parla di “…Puglia invasa dagli albanesi […] La gente [italiana] si
è comportata bene, ha mostrato di capire e compatire malgrado l’impatto tremendo dell’invasione”,
il Gazzettino, Pezzato, 19/3. Forse, a distanza di anni, è utile ricordare che fino a quella data la
cosiddetta invasione riguardava meno di diecimila persone.
Nonostante alcuni appelli alla calma, predomina una visione apocalittica: “Stiamo difendendo la
nostra frontiera, le nostre città, le nostre famiglie e i nostri figli”, il Giornale, Giannattasio, 28/3.
Sono pochissimi gli esempi, in questi giorni, di corsivi improntati alla moderazione dei toni e degli
animi: “È solo che ci saremmo aspettati che tanti anni e tanti fiumi di inchiostro spesi in
predicazioni e sermoni a favore della tolleranza […] avrebbero aiutato un popolo di cinquantasette
milioni di benestanti a mantenere i nervi saldi e a non scambiare diecimila albanesi per l’invasione
dei Visigoti”, la Repubblica, Polito, 27/3.
Mentre si rimodella la questione albanese (da fenomeno in fin dei conti ancora esotico, limitato
all’oltre sponda, a questione interna italiana) si ridisegna anche l’immagine degli albanesi. Prima di
tutto quelli lì, in Albania, che tendono a incupirsi nelle descrizioni dei corsivisti: “La ‘terra delle
aquile’ è in mano agli sciacalli. Bande di uomini mascherati scorrazzano per le città e i villaggi”,
Corriere della Sera, Cingolani, 14/3. Qualcuno tenta un’analisi politica e sociologica per spiegare il
mutamento di prospettiva da cui osservare gli insorti: “…quella che sembrava una rivolta popolare
contro una truffa finanziaria si è rapidamente trasformata in una guerra di bande, gestite da loschi
burattinai: ex dirigenti comunisti, mafiosi locali infiltrati dalla criminalità organizzata
internazionale e soprattutto italiana, cani sciolti della polizia segreta allenati a pescare nel torbido e
a sobillare le masse”, la Repubblica, Garimberti, 14/3. Qualcuno punta invece decisamente sulla
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Pastori e pinocchi
fisiognomica: “Gruppi di rivoltosi presidiano i tornanti che si inerpicano sulle montagne brulle.
Volti di pastori, contadini, sottoproletari urbani si mescolano alle facce sanguigne di ex ufficiali alla
ricerca di un riscatto, o alle sembianze oscure degli agenti disseminati dalla polizia segreta…”,
Corriere della Sera, Cingolani, 14/3.
La natura attualmente feroce degli albanesi può essere messa in risalto anche dal contrasto con la
bontà italiana del 1991: “I pugliesi furono meravigliosi nel protendersi verso questa gente che
arrivava macilenta e stanca. Aprirono le loro case, persino i bagni, e non è mica normale. E ci siamo
ritrovati, dopo pochi anni, migliaia di prostitute e un sacco di ragazzini ai semafori schiavizzati dai
loro zii. Che bella bontà”, il Giornale, Farina, 27/3. Oppure il contrasto si pone tra presente feroce
degli albanesi e loro passato pacifico: “Un tempo avevano la religione, la tradizione, il buon senso
dei contadini. Oggi non hanno più nemmeno queste cose. E meno che mai la fierezza del proprio
passato…”, il Gazzettino, Sgorlon, 15/3.
Se questa è l’immagine sempre più fosca e insieme più vaga, meno dettagliata, degli albanesi
d’Albania, quelli che cercano di arrivare qui sono studiati con più precisione.
Una delle descrizioni assieme più analitiche e più “fantasmatiche” di coloro che stanno arrivando
(a quanto pare albanesi e non, ma Arbasino è di proposito abbastanza ambiguo da far sì che le
accuse agli uni possano cadere anche sugli altri) è quella proposta da un nome di grido: “Ospiti
balcanici che si presentano in compagnia del kalashnikov, per la consuetudine etnica al saccheggio
che (secondo gli storici) precedeva da secoli i traumi per la caduta del comunismo… Ospiti che
sistemano valigie di bustine in casa e in macchina, accompagnano gruppi di piccine minorenni sui
viali ‘del vizio’, si sistemano frotte di pupi laceri e affamati e picchiati ogni giorno ai semafori…
Ospiti che si battono a coltellate con bande di altri ospiti per il controllo del territorio, secondo i
costumi africani descritti dagli antropologi e rivisti spesso in televisione per indurci a sensi di
colpa…”, la Repubblica, Arbasino, 15/3. Notevole, in questo fosco quadro, il ruolo attribuito
all’antropologo…
Sempre su la Repubblica, ma qualche giorno dopo, si tenta invece l’operazione inversa, di
spiegare perché gli albanesi sarebbero così diversi dagli altri immigrati (e così diversamente
trattati): “…gli albanesi sono alquanto refrattari a indossare i panni dei nuovi schiavi
dell’Occidente. Quindi, poco utili. Non sono cristianamente remissivi come i filippini, non amano i
bambini come le colf somale, non fanno i muratori per quattro lire come i polacchi, non vendono
cianfrusaglie come i senegalesi. Più che essere comandati, a loro piace comandare”, la Repubblica,
Polito, 27/3.
Senza essere categorici come Biagi (“Da loro riceviamo, per l’interscambio, marijuana, e anche
braccianti senza diritti, ragazze da avviare al marciapiede, e organizzatissimi criminali. Punto”,
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Pastori e pinocchi
Corriere della Sera, Biagi, 5/3) tutti i commentatori puntano comunque su una questione sentita
come centrale, non appena arrivano le prime navi: come distinguere il grano dal loglio? Coloro che
hanno diritto di asilo da quelli che invece dovrebbero essere scacciati? Il quesito rivela il diritto
degli italiani a sospettare, sempre, in modo sistematico. “Per intervenire efficacemente dovremmo
avere notizie sicure e sapere se chi chiede aiuto e asilo è veramente uno che chiede la carità (oggi si
chiama solidarietà) oppure uno che veste di abiti del derelitto e sfrutta, ingannandolo, chi è pronto a
venirgli in soccorso”, Corriere della Sera, Bo, 20/3. Come a dire che siamo di fronte a una
“…invasione di disperati, ma anche di delinquenti”, il Giornale, Giannattasio, 28/3.
Se per alcuni “…tra mamme e bambini si nascondono gruppi di evasi per i quali è previsto il
rimpatrio automatico”, Corriere della Sera, Venturini, 19/3, dando così l’impressione che tra i molti
poveracci si nasconda qualche criminale, per altri il rapporto è inverso: “…tra i boat-people
dell’Adriatico ci sono più mafiosi che fuggiaschi e accoglierli tutti, aiutandoli perfino ad arrivare in
porto quando le loro carrette non ce la facevano ‘è stata una pazzia’”, il Giornale, Caputo, 22/3.
L’aspetto che colpisce di più in questo tipo di argomentazioni è ciò che potremmo chiamare “la
natura oggettiva e dicotomica del male”. La distinzione tra buoni e cattivi è in questi corsivi sempre
netta e senza appello. È arduo distinguere i due gruppi in concreto, ma nessuno mette in dubbio che
di due gruppi si stia parlando. “Quanti saranno i ‘poco di buono’ arrivati con gli 11 mila albanesi?
Sta di fatto che la fuga caotica di donne, uomini, e bambini verso la Puglia, e di qui verso il resto
della Penisola, si è rivelata quello che il filtro della solidarietà non ci aveva consentito di vedere con
chiarezza: un esodo in parte cinicamente organizzato dalle mafie a un milione pro capite, viaggio
gratis per i bambini perché inteneriscono gli italiani e ammorbidiscono i controlli”, il Gazzettino,
Pezzato, 20/3. È evidente la rappresentazione degli albanesi come popolo miticamente dicotomico
rispetto alla morale, senza le ovvie sfumature, ambiguità e sovrapposizioni che ci caratterizzano:
ognuno di loro può (e quindi deve) essere collocato o tra i buoni o tra i cattivi.
Quando la divisione non si limita ad attraversare le generazioni (bimbi buoni, adulti cattivi)
passa allora anche tra i sessi: “Capisco le donne e i bambini. Capisco i ragazzini di quindici anni,
meglio qui che là a imbracciare Kalashnikov. Capisco i vecchietti, gli storpi e i ciechi. Ma non
capisco quell’orda di uomini d’età compresa fra i 20 e i 50 anni, che arrivano in massa e intervistati
confessano di non avere uno straccio di documento né di voler fornire le generalità e di non essere
arrivati per accompagnare figli neonati o madri ottuagenarie. Invece sono qui per scelta individuale,
e l’ottuagenaria l’hanno lasciata in Albània [sic] a difendere la casa […] Sono giovani, forti. E
scappano. Disertori non solo nell’esercito e nella polizia: disertori nell’animo e nella vita”, il
Giornale, Vigliero Lami, 18/3. Così riporta Livio Caputo una discussione cui ha assistito tra “un
sindacalista della Cgil e un suo amico della stessa parrocchia”: “Essi hanno sostenuto la tesi,
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Pastori e pinocchi
tutt’altro che peregrina, che il governo doveva ammettere sul territorio italiano soltanto le donne, i
bambini e gli anziani, spesso usati dai mafiosi come ‘schermo’ e rimandare invece immantinente in
Albania tutti gli uomini validi che, anche a giudicare dai loro ceffi, non avevano davvero molto
bisogno di protezione”, il Giornale, Caputo, 22/3.
Sono pochi quelli che tentano una difesa “globale” degli albanesi in arrivo: “Via, presi
nell’insieme sono dei poveracci e fanno bene i nostri governanti a non avere il cuore di buttarli a
mare”, la Repubblica, Bocca, 19/3. Affiora un tema che diverrà comune tra qualche giorno, dopo
una tragedia che segnerà uno spartiacque, il tema degli albanesi come nostri antenati, come doppio
grottesco degli italiani: “Li guardi un po’ in faccia, questi immigrati, onorevole Brighella
(onorevole Arlecchino, onorevole Pantalone), non le ricordano nessuno? Non le ricordano, per caso,
suo nonno, quello che mangiava la carne una volta al mese, quello che stava sulla groppa di un
somaro? […] Fanno paura, evidentemente, i ragazzi che assomigliano ai nostri nonni”, Corriere
della Sera, Zincone, 28/3.
Ma i giudizi cominciano a farsi pesanti e verso il 25 marzo si comincia a parlare di “…battelli
stracarichi di falsi profughi (ossia di disperati che in realtà sono soltanto degli emigranti abusivi
reclutati e sfruttati da bande di filibustieri locali)”, il Giornale, Guarini, 25/3. A questo punto, il
dilemma morale di distinguere tra albanesi buoni e albanesi cattivi sembra inclinare verso soluzioni
radicali: “I nostri sentimenti sono confusi: adotteremmo i bambini albanesi, ma i loro padri li
sbatteremmo volentieri in galera, o addirittura in fondo al mare, visto che sparano”, il Giornale,
Farina, 27/3.
Il giorno dopo, infatti, Venerdì Santo, la nave albanese Kater I Rades veniva speronata dalla
nave Sibilia della marina italiana, che cercava di bloccarne l’ingresso in acque italiane. A seguito
dell’affondamento, morirono in mare almeno 58 albanesi. Lo choc è immediato. Sembra che si sia
realizzato qualcosa di terribile, ma che tutti, in Italia, in qualche modo, in qualche anfratto
impresentabile della coscienza collettiva, desideravano che accadesse.
L’affondamento della Kater I Rades del 28 marzo segna un punto di non ritorno nell’analisi dei
corsivisti italiani. Assieme allo sgomento, si affacciano i primi seri dubbi su come è stata
raccontata, fino a quel punto, la “crisi albanese”: “In effetti, nessuno di noi potrebbe spiegare con
un minimo di precisione che cosa stia accadendo in Albania. Tutto quel che ci è chiaro, dopo
cinquanta giorni di convulsioni, è che l’Albania è un paese sconosciuto. Indecifrabile”, la
Repubblica, Viola, 30/3.
Il cosiddetto problema degli albanesi viene riportato alle sue reali dimensioni con più fermezza:
“Ma noi entriamo in crisi psicologica perché dodicimila albanesi sono sbarcati (e già quasi duemila
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Pastori e pinocchi
sono stati riportati al paese di origine con metodi abbastanza spicci). Noi insceniamo ogni giorno
uno psicodramma con sindaci muniti di tanto di fascia tricolore che scavano fossati, rifiutano
accoglienza…”, la Repubblica, Scalfari, 30/3. Ancora: “Mi ribello all’idea che si nasconda
razzismo, intolleranza, meschinità, dietro il paravento della drammatizzazione del problema dei
quindicimila albanesi arrivati in un paese di quasi sessanta milioni di abitanti in cui già si sono fra
un milione e due milioni di extracomunitari. In realtà si tratta di un problema relativamente modesto
trasformato in un caso nazionale”, il Gazzettino, Acquaviva, 3/4.
Nell’insieme si assiste a un ridimensionamento del linguaggio e del tono: l’Albania è un Paese in
crisi, ma non più quella bolgia infernale, quel non-luogo maledetto dagli dei raccontato solo una
settimana prima: “In Albania non esiste una guerra civile, quelli che hanno raso al suolo università,
uffici, caserme, persino i canali di irrigazione erano mossi da una decennale carica di rancore per un
regime ormai morto e non degnamente sostituito […] La stragrande maggioranza degli albanesi
vuole solo ritornare a una vita decente, ha come si è visto dalle trasmissioni televisive, un
rispettabile nucleo di società civile, una tradizione culturale”, la Repubblica, Bocca, 12/4.
Ma col passare dei giorni l’Albania tende a sfumarsi in dissolvenza, per lasciare spazio sempre di
più all’Italia e alle conseguenze in Italia di un possibile intervento armato in Albania. Questo sia sul
versante interno: “Al quinto giorno [dopo l’affondamento] tutto o quasi è finito in politica
interna…”, la Repubblica, Fuccillo, 3/4; sia per l’immagine e il prestigio italiani: “Il successo
dell’Operazione Alba vale dieci ‘manovrine’ per Maastricht. Un fiasco confermerebbe i nostri
partner nel già radicato pregiudizio anti-italiano e ci lascerebbe ai margini dell’Europa per il futuro
prevedibile”, la Repubblica, Caracciolo, 8/4. Per essere chiari: “…l’Italia si gioca più di quanto
creda. Anzi, si gioca tutto. Perché l’incrocio con la tragedia albanese strappa l’Italietta dell’Ulivo
all’eterno teatrino e la pone davanti a un’alternativa grave. Se la missione Alba avrà successo, il
nostro Paese e il governo ne riceveranno enorme prestigio […] E a quel punto, parametri o non
parametri, toccherà a Germania e Francia preoccuparsi di imbarcare l’Italia nel pullman di
Maastricht, anche a prezzo di uno sconto sulla tariffa. Al contrario, se Alba si tradurrà in un disastro
[…] allora non ci saranno parametri o finanziarie o manovrine o larghe intese che possano
tenere…”, la Repubblica, Maltese, 16/4. Paradossalmente, l’Italia di quei giorni sembrò decidere di
andare in Albania come via più diretta per “entrare in Europa”. L’impegno militare degli italiani
veniva assunto, prima di tutto, di fronte alla comunità internazionale e ai partner dell’Unione
Europea, per vedere che l’Italia non era più l’Italietta pavida e bizantina uscita dalle macerie della
seconda guerra mondiale. Assistiamo quindi a una precisa inversione delle identità: non è l’Albania
che deve dimostrare di essere uno Stato e una Nazione. Questo carico simbolico ora grava
sull’Italia.
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Pastori e pinocchi
Non mancano quindi le impennate di orgoglio nazionale fin da quando un editoriale del Times
critica la proposta di un intervento diretto italiano sul suolo albanese: “…l’editoriale del Times
contro l’imminente intervento italiano in Albania […] rispecchiava benissimo il senso di superiorità
e gli stereotipi che da sempre nutrono l’atteggiamento dei sudditi di sua Maestà verso gli
italiani…”, Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. Lo stesso Panebianco sottolinea poi a sua volta le
conseguenze politiche che la futura “operazione Alba” potrà avere non tanto sull’Albania (tema
questo del tutto secondario) quanto sull’immagine dell’Italia all’estero: “abbiamo forse ora la
possibilità, se sapremo comportarci correttamente sia sotto il profilo tecnico che sotto quello
politico, di assestare un colpo ai tanti pregiudizi negativi – spesso non privi di fondamento – sugli
italiani, da sempre sedimentati nelle opinioni pubbliche e nelle classi dirigenti europee (non solo del
Regno Unito)”, Corriere della Sera, Panebianco, 4/4. L’Albania diviene dunque il luogo del riscatto
dell’identità italiana, il pretesto per mostrare ai partner europei la qualità della nazione. La
questione italo-albanese va misurata non tanto per le possibilità che oggettivamente l’Italia ha di
migliorare la situazione politica ed economica del Paese oltre Adriatico, ma solo ed esclusivamente
per quanto l’Albania possa, nel bene e nel male, influire sull’immagine dell’Italia all’estero.
Il nuovo tono nel parlare dell’Albania e l’attenzione sempre maggiore prestata al ruolo che
questo Paese può giocare per l’Italia possono essere visti come gli ultimi sintomi di un’inversione,
di un “carnevale” provocato dagli albanesi con la loro presenza e che aveva iniziato a manifestarsi
già prima dell’affondamento: “…durante la trasmissione di attualità Italia Radio (emittente
notoriamente vicina al Pds), è intervenuta una signora romana: ‘Ho famiglia, siamo otto persone,
tutte di sinistra. Ieri sera ci siamo riuniti per vedere Moby Dick sull’Albania. Ebbene, alla fine
abbiamo convenuto tutti che aveva ragione Gasparri, il deputato di An cui durante la campagna
elettorale mi ero perfino rifiutata di stringere la mano. E su certi punti aveva ragione perfino
Tablandini della Lega. I miei, un disastro”, il Giornale, Caputo, 22/3. Caputo non è l’unico ad
ascoltare Italia Radio, quei giorni: “Provate a sentire Italia Radio, l’emittente del Pds. Ogni mattina,
al suo filo diretto, si scarica la rabbia di abituali buonisti che minacciano sfracelli se non si ferma
l’invasione”, la Repubblica, 27/3.
Un sintomo chiaro è la confusione tra destra e sinistra: “Qui [anche a sinistra] si registra una
ostilità dura e compatta contro gli albanesi. Una pioggia di telefonate esprime sentimenti che
sembrano costole della Lega”, Corriere della Sera, Zincone, 28/3. “‘Buttiamoli a mare, buttiamoli a
mare’. Nei giorni scorsi l’invocazione sibilava tra le labbra di tanti, troppi italiani. La si sentiva nei
bar del Nord, ma anche nei caffè del Centro o del Sud. I sindaci leghisti vogliono alzare le barriere
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Pastori e pinocchi
per difendere la purezza delle loro città. Ma anche quelli di sinistra chiedono al governo di
risparmiarli, per carità, dall’invasione, supplicano di lasciare i barbari alle porte”, Corriere della
Sera, Cingolani, 29/3. “Perché la parte più progressista della nostra opinione pubblica sta riservando
agli albanesi un trattamento che mai si sarebbe permesso nei confronti di somali e marocchini,
senegalesi e filippini?”, la Repubblica, Polito, 27/3. Tra le possibili risposte a questa domanda una
val la pena di essere citata perché ben si accorda con quanto stiamo dicendo sul “carnevale”
albanese: “La prima ragione che ci viene in mente è che gli albanesi hanno la colpa di essere
bianchi, somaticamente non distinguibili da un italiano qualsiasi […] Poco, diversi, troppo simili”,
la Repubblica, Polito, 27/3.
Ci si rende subito conto, dopo l’affondamento della nave, del ruolo attivo che hanno gli albanesi
per la costruzione di noi stessi come italiani: “La vicenda degli albanesi ci ha messo a nudo […]
davanti a noi stessi, come di fronte ad uno specchio che riflette un’immagine reale e non deformata.
Nessuna illusione ottica, siamo proprio così”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Chi non ama questa
immagine, preferisce invece attribuire agli albanesi un ruolo magico, di tricksters in grado
veramente di ribaltare l’Italia: “Con il pianto, e con i soldi di Berlusconi a 34 superstiti,
l’inversione dei ruoli è proprio completata: la destra si fa sinistra e viceversa”, Corriere della Sera,
Merlo, 1/4. Lo stesso identico concetto, lo stesso giorno, ma su un altro giornale: “…la sinistra ha
lasciato a Berlusconi uno spazio suo proprio, quando il Cavaliere ha ripetuto che un Paese di 50
milioni di abitanti non può lasciarsi dominare dal panico politico per l’arrivo di 10 mila profughi.
C’è stata cioè una singolare inversione dei linguaggi, se non delle parti”, la Repubblica, Mauro, 1/4.
Ma tutti – che si parli di svelamento o di ribaltamento dell’identità – sono concordi sul senso
totale di straniamento: “Strani [gli italiani], perché non si era mai visto un governo di centrosinistra,
e per di più sorretto dagli ultimi comunisti, beccarsi del fascista persino dai giovani norvegesi.
Strani perché con la stessa bocca predichiamo la solidarietà e poi gridiamo ‘buttiamoli a mare’.
Strani perché a guardare la tv, pubblica e privata, sembra che il leader dei progressisti sia un
reazionario e quello dei moderati un rivoluzionario”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. Ancora una volta
torna la metafora del contagio: “Sembra quasi che per contagio la disgregazione albanese abbia
colpito la nostra classe politica…”, il Gazzettino, Sensini, 2/4. Fatto sta che “…dove finisca la
maggioranza e finisca l’opposizione è difficile dire”, la Repubblica, Bocca, 3/4, e quando si parla di
“…un Paese governato dall’incertezza, e con una maggioranza inesistente…”, il Giornale, Cervi,
4/4, non è più all’Albania che si fa riferimento, come due mesi prima (“Tutti sono contro tutti. Non
c’è più maggioranza, non c’è mai stata opposizione”, la Repubblica, 11/2) ma all’Italia.
La metamorfosi, per effetto del contatto con gli albanesi, sembra estendersi dal mondo politico
per coinvolgere tutti: “…il nostro strano Paese assiste a troppi rigurgiti di intolleranza. Convinto di
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Pastori e pinocchi
essere cattolico e solidaristico come pochi, all’improvviso si sveglia con la voglia di gettare in mare
un popolo in fuga. E, cosa incredibile, per poco non ci riesce”, il Gazzettino, Pittalis, 1/4. “Italia:
fino a ieri il paese dell’amore e del sole, tutto spaghetti, chitarre e mandolini. Oggi, razzista, cinico
e egoista”, il Gazzettino, Acquaviva, 3/4. “…il ceto politico e la stampa rispecchiano gli elettori e i
lettori che in questa fase della nostra storia non sembrano più gli ‘italiani brava gente’ ma una
collettività ansiosa, che non crede in se stessa, che pensa di sopravvivere innalzando alle frontiere
‘cortine di acciaio’”, la Repubblica, Bocca, 3/4. “Prima c’era un paese che, tutto sommato
compatto, pensava e diceva di trovarsi di fronte a un’immigrazione clandestina e di massa
dall’Albania. Quindi: accoglienza, controllo e rimpatrio. Opinione pubblica, istituzioni, governo,
maggioranza e opposizione stavano tutti più o meno scomodi dentro questo triangolo. Dopo i morti,
gli immigrati sono ridiventati profughi e ciascuno ha mutato la sua parte in commedia […] c’è stata
quella notte, ha sconvolto gli animi e distorto i comportamenti”, la Repubblica, Fuccillo, 3/4.
Un modo interessante di guardare al problema è quello proposto da Ernesto Galli della Loggia,
in un fondo apparso sul Corriere della Sera subito dopo l’affondamento della Kater I Rades: “Ma
come è possibile che una nazione di sessanta milioni di abitanti, che una grande e ricca nazione
europea come l’Italia si faccia spaventare da qualche migliaio di profughi albanesi a tal punto che
sembra quasi non vi sia più una città, un paese, un comune disposti ad accoglierne neppure qualche
decina? […] È possibilissimo, invece: sono il benessere e il timore di perderlo, è la diffusione ormai
senza limiti di valori e di stili di vita ispirati al materialismo e al consumismo […] La realtà è che se
una nazione di sessanta milioni di abitanti, se una ricca e grande nazione come l’Italia si fa
spaventare da una manciata di profughi albanesi è precisamente perché essa non si sente affatto una
nazione. […] Gli italiani, dal canto loro, non si percepiscono come gli abitanti di questo vasto
insieme nazionale quanto piuttosto gli abitanti di una somma di comunità sparse, legate da un
debole e malcerto vincolo. Gli albanesi spaventano e inducono al rifiuto precisamente perché sono
visti non già come dei profughi che arrivano in Italia, in una grande nazione, bensì come degli
intrusi non invitati in questa o quella delle tante comunità di cui sopra”, Corriere della Sera, Galli
della Loggia, 1/4. La tesi trova consensi: “Ernesto Galli della Loggia sul Corriere della Sera ha
analizzato bene gli umori degli italiani nella crisi albanese. Noi, dice l’autore, non siamo né razzisti,
né egoisti, né insensibili, siamo soltanto orbi della nazione e orfani dello Stato […] Tutto questo è
molto triste. Senza nazione e senza Stato non si va lontano, si può essere sconfitti anche in una
battaglia non combattuta contro i pezzenti, nel canale d’Otranto”, il Giornale, Scarpino, 3/4.
È impressionante leggere, ora, degli italiani come di un popolo “senza nazione e senza Stato”,
quando per un mese erano stati gli albanesi ad essere descritti così. Marcello Veneziani riprende
l’argomento di Galli della Loggia esasperando il gioco degli specchi incrociati: “Gli italiani temono
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Pastori e pinocchi
ondate di immigrati albanesi non perché siano razzisti o sciovinisti, ma per due opposte ragioni.
Perché vedono gli albanesi come degli italiani affamati, li temono perché sono la nostra versione
primitiva. E temono di mettere a repentaglio il benessere, la sicurezza, la modernità: li spaventa
l’arretratezza, la puzza del nostro passato. E poi li respingono non per orgoglio nazionalista ma al
contrario, perché temono la fragilità del nostro sgangherato sistema Paese, con tante piccole
Albanie e disoccupazione. Non si fidano dell’Italia e si sentono una comunità nazionale
spappolata”, il Giornale, Veneziani, 5/4.
Albanesi e ballerini
Ma questo ripensamento di sé attraverso l’incontro/scontro con l’altro è esattamente quel che gli
albanesi, nel 1997, stavano sistematicamente vivendo da oltre un decennio, da quando cioè il
cronico isolamento imposto dal regime – ricordo solo che il confine di stato era preceduto da un
confine interno che creava una fascia-cuscinetto spessa alcuni chilometri, cui potevano accedere
solo gli autorizzati – si allentò nella seconda metà degli anni Ottanta per crollare del tutto nel 1990.
L’apertura del confronto con l’altro (è noto in questo senso il ruolo giocato dalla televisione
italiana, soprattutto commerciale) ha prodotto per anni una bassa autostima sociale.
Il più famoso intellettuale albanese, Ismail Kadarè, ha parlato all’epoca di una “…psicosi
pessimista che imperversa da alcuni anni in Albania. Questa volontà di autodenigrazione,
autoavvilimento e di autodistruzione che porta a ripetere giorno e notte che questo paese è
maledetto, non ha un futuro e merita di sparire è diventata una moda in alcuni ambienti”, la
Repubblica, Kadarè, 13/3.
Non vi è dubbio che la dittatura comunista di Hoxha si sia retta, oltre che su uno spietato stato di
polizia, anche sull’orgoglio nazionale, profuso in quantità massicce dal potere attraverso tutti i
canali della propaganda. Gli albanesi nati nel secondo dopoguerra sono cresciuti nella ferma
convinzione (suffragata da continui indizi di tipo linguistico, affermazioni, discorsi, e mai smentita
da una verifica su modelli diversi, invisibili) di appartenere a una Nazione antichissima, fiera quante
altre mai e di gente industriosa e capace.
La fine della dittatura ha riportato gli albanesi di fronte alla necessità di far i conti con il giudizio
degli altri, delle altre nazioni di fronte alla propria. Gli antropologi sanno benissimo quanto questo
giudizio da parte dell’Altro sia un elemento fondamentale per la costruzione di sé come comunità
etnica e/o nazionale (Jenkins 1997). Per ragioni esclusivamente storiche e contingenti la nazione
albanese si era costruita in quasi totale assenza del giudizio altrui. Apparenti eccezioni hanno
costituito il contatto con l’Unione Sovietica prima e con la Cina poi, fino al 1978, ma in entrambi i
casi la possibilità di giudicare ed essere giudicati veniva di molto limitata dall’ideologia inter-
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Pastori e pinocchi
nazionalista che faceva dei sovietici e dei cinesi non un Altro da valutare e da cui essere valutati,
ma piuttosto un Simile. Tanto simile da dover essere tenuto a distanza, in ogni contesto per cui il
contatto non fosse strettamente necessario. Detto altrimenti, gli albanesi avevano un’idea di sé che
si basava solo su un giudizio interno, giudizio assai benevolo e indulgente. Il contatto prima
mediatico e poi diretto con l’Occidente ha letteralmente spazzato via questo giudizio. Il fiero popolo
albanese, cui era stato detto che stava costruendo il Paese più evoluto del mondo, si è reso conto che
gli equivalenti degli scassati trattori cinesi con cui coltivava la terra non erano più usati in occidente
da diversi decenni; che le poche fabbriche nazionali producevano pezzi di qualità peggiore di
qualsiasi concorrente dell’ovest; che insomma la superiorità naturale del popolo albanese veniva
messa in discussione dalla realtà quotidiana che filtrava dalle televisioni e, dopo il 1990 sempre più
frequentemente, dai racconti di chi tornava da viaggi all’estero.
C’è un indizio linguistico evidentissimo di questo tentativo di ricostruire un’immagine di sé
come popolo che tenga conto del giudizio altrui. Come è noto “Albania” è un termine prima romano
poi bizantino per designare una regione chiamata invece dagli abitanti “Shqipëria”. Allo stesso
modo, quelli che tutto il mondo chiama “albanesi” (con le diverse varianti, Albanians, Alvanoi,
ecc.) chiamano se stessi “Shqiptarë”.
Con due amici italiani ero alla fine del 1996 in un villaggio nel sud-est del Paese. In macchina
con noi c’era un ragazzo albanese, Madin. Lo conoscevo da tempo, e normalmente comunicavo con
lui tramite il mio collega Gilles, che però era tornato in Francia. Madin fortunatamente parlava un
po’ di greco, per cui riuscivamo a comunicarci l’essenziale. I due amici italiani vogliono visitare la
moschea, costruita da poco. Con la macchina ci avviamo lungo una strada fangosa che presto si
restringe a sentiero. Forse un chilometro prima della moschea la strada è bloccata da una macchina
in sosta nella direzione opposta alla nostra, con l’autista al volante. Potrebbe accostare alla sua
sinistra, c’è uno spiazzo libero di fronte a una casa, ma si vede che ha difficoltà a far manovra con
scioltezza, e rischia quasi di venirci addosso. Madin guarda con aria di sberleffo mista a disprezzo il
maldestro autista, e lo apostrofa con un “Albanes!” che, dal tono con cui viene pronunciato,
significa con tutta evidenza: “Imbranato!”. Chiedo comunque a Madin di ripetere quel che ha detto,
forse ho capito male, e lui mi spiega in greco che quello “Odigài san alvanòs”, letteralmente:
“Guida come un albanese”.
Mi spiegherà poi che il termine è ormai d’uso comune, per indicare i fessi, gli incapaci, gli
ignoranti. La parola che in tutto il mondo indica gli albanesi è diventata in Albania un termine
spregiativo usato come un insulto. Per la Shqipëria, fare i conti con l’Albania, con le immagini delle
navi cariche verso la Puglia, degli uomini rinchiusi negli stadi, ha significato dover affrontare un
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Pastori e pinocchi
giudizio radicalmente diverso e negativo e gli shqiptarë, tanto orgogliosi d’esserlo, fieri della loro
storia e della loro cultura, capiscono che noi non li consideriamo altro che albanesi.
Ma quest’immagine sbiadita e irrimediabilmente negativa dell’identità albanese si è
lentamente e parzialmente modificata, almeno in Italia. Il mutamento, che riguarda assieme la
categorizzazione esterna (cioè il modo in cui gli italiani vedono gli albanesi) e l’identificazione
interna (cioè il modo in cui gli albanesi vedono se stessi) ha iniziato a prendere forma all’inizio del
terzo millennio, grazie a una serie di eventi in parte casuali.
Tra gli albanesi giunti in Italia con la prima ondata del 1991 vi era anche un ragazzo
diciassettenne di nome Kledi Kadiu. Di “buona famiglia” (madre farmacista e padre docente
universitario), Kledi è appassionato di danza fin da bambino, e i genitori l’hanno iscritto a dieci anni
all’Accademia Nazionale di Tirana, poco distante dalla casa dove è cresciuto. È il 1984, Enver
Hoxha sarebbe morto l’anno successivo, e in Albania diventa sempre più facile guardare i
programmi della televisione italiana, prima per semplice debordamento hertziano, e poi tramite le
parabole in grado di ricevere il segnale satellitare. Kledi balla e guarda la televisione italiana, e le
due attività diventano parte di un solo progetto, che così oggi viene raccontato nelle note
biografiche del suo sito ufficiale (<http://www.kledi.it/Biografia.html>):
Rimanevo affascinato dai grandi artisti Italiani di quel periodo come Heather Parisi, Lorella
Cuccarini, Raffaella Carrà, Raffaele Paganini. Ricordo che mi divertivo a sognare di ballare al
loro fianco, in un grande show.
Come sappiamo, si tratta di un sognare che diventa progetto, un caso esemplare di quel che
Appadurai (1996) chiama “immaginazione come pratica sociale”. Il 12 agosto 1991, “mentre era in
vacanza a Durazzo”, si imbarca su una delle navi che facevano la spola tra l’Albania e la Puglia
cariche di disperati e speranzosi, ma viene mandato allo stadio di Bari, per essere espulso dall’Italia
quasi immediatamente. Rientrerà più di un anno dopo, chiamato da una compagnia di danza di
Mantova che aveva avuto il suo nome dall’Accademia Nazionale di Tirana. Passa rapidamente alla
televisione, diventando nel 1997 primo ballerino del programma pomeridiano Buona domenica,
dove rimarrà fino al 2003. Conosce così Maria de Filippi, che dal 2002 lo vuole con sé sia a C’è
posta per te, sia ad Amici. Mentre il pubblico di Buona Domenica e C’è posta per te è in buona
parte adulto, l’audience di Amici di Maria de Filippi è tendenzialmente giovane e femminile, e ne
decreta il definitivo successo come sex symbol. Nel 2004 Kledi fonda a Roma la “Kledi Academy”,
una scuola di danza e musica che sta riscuotendo un buon successo e che organizza corsi annuali e
stage estivi. Nel frattempo, è diventato anche un attore di successo sia per il cinema (Passo a due,
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Pastori e pinocchi
La cura del gorilla, entrambi del 2005) sia per il piccolo schermo (Domani è un altro giorno,
2006).
In sintesi, la figura di Kledi Kadiu è quella di un albanese “vincente”, il primo a raggiungere
in Italia notorietà per le sue qualità artistiche. Anche senza enfatizzarne il ruolo individuale,
certamente Kledi è stato il prodromo di una nuova generazione di albanesi, disposti a proporre agli
inizi del terzo millennio una forma alternativa di identità rispetto al modello “poveraccio o
criminale” che si era imposto negli anni Novanta e che abbiamo visto essere particolarmente attivo
durante la crisi del 1997. Proprio la loro tendenza a privilegiare la televisione italiana come veicolo
di informazione, sia dall’Albania attraverso le antenne paraboliche, sia una volta giunti in Italia
(Mai 2005, p. 558), ha consentito agli albanesi di fruire di una nuova immagine da articolare in
modelli alternativi di appartenenza. Uno dei veicoli principali di questo nuovo modello identitario è
stato Amici di Maria de Filippi.
Il programma (si è conclusa nella primavera 2007 la sesta edizione e si prepara per l’autunno
la settima) è concepito come un game show in cui un gruppo di giovani partecipa a tempo pieno a
una scuola per artisti (cantanti, ballerini e attori) che prevede una serie di sfide settimanali tra i
partecipanti. Le sfide ripetute portano all’eliminazione progressiva degli studenti/concorrenti in
base al giudizio di una commissione e ai voti telefonici del pubblico a casa, fino alla proclamazione
del vincitore assoluto. Già alla seconda edizione, tra gli studenti vi era una ragazza albanese, Anbeta
Toromani, che proveniva dalla stessa scuola di Kledi e che sarebbe giunta seconda alla finale. Oggi
Anbeta è una ballerina professionista e fa parte del cast stabile del programma. La stagione
successiva (2003-2004) gli studenti albanesi della scuola di Maria de Filippi erano due: Olti Shagiri
(fratello minore di Ilir Shagiri, un altro ballerino da qualche anno nel corpo di ballo di Maria de
Filippi) e Leon Cino, ballerino molto dotato che infatti vinse quell’edizione, entrando anche lui nel
corpo di ballo stabile del programma. La quarta, conclusasi a maggio del 2005, ha visto la
partecipazione di altri due ragazzi albanesi: Tili Lukas e Klajdi Selimi. Quest’ultimo è stato
sicuramente il personaggio chiave dell’anno, anche se non ha vinto la gara: con la sua vena
polemica, la costante rivalità con Marco, un altro allievo della scuola che non esitava a fare appelli
agli “italiani” perché votassero lui invece di un “albanese”, e con il rispetto profondo mostrato verso
il pubblico che numerosissimo lo votava da casa, Klajdi ha catalizzato l’attenzione di un pubblico
sempre numeroso (i dati di ascolto del programma nella sua fase serale si aggirano stabilmente
attorno ai sei milioni di telespettatori; per le fasi finali i voti da casa hanno sfiorato il milione a
puntata, anche se la telefonata costava un euro). Anche le successive edizioni hanno visto la
presenza di concorrenti albanesi, ma il programma ha cercato di internazionalizzarsi ammettendo
nella stagione 2006/2007 anche due concorrenti romeni (entrambi ginnasti) e un ballerino spagnolo.
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Pastori e pinocchi
Kledi non riflette il cliché del divo osannato e capriccioso, ma trasmette l’idea del lavoratore
scrupoloso, preparato e devoto al pubblico che lo apprezza, rispettoso di una gloria raggiunta
con fatica attraverso interminabili ore di preparazione (Seralisa Carbone, sul sito
Leonardo.it).
fare – oltre che per la loro tenacia e forza di volontà. Sono facilmente etichettati come persone
“serie”, che vanno al sodo e non si perdono in smancerie o inutili salamelecchi. Questa versione
alternativa dell’essere albanese oggi sta chiaramente contaminando l’autorappresentazione degli
albanesi in Italia, che seguono numerosi il programma Amici di Maria de Filippi con veri gruppi di
ascolto che partecipano attivamente al voto da casa.
Anche se non posso fornire indicazioni quantitative precise, dato che la mia ricerca è ancora
in corso, mi sembra plausibile ipotizzare un “ritorno” dell’identità albanese tra gli immigrati in
Italia, soprattutto tra i più giovani, che sembrano quindi aver trovato una risposta alla richiesta del
vecchio Dhori di dimenticarsi di essere albanesi. Oggi, sembrano dire i giovani albanesi in Italia, è
finalmente possibile “ricordare” la propria identità. Come è evidente, è un ricordare spurio, che
unisce in una miscela del tutto originale la tradizione balcanica del ballo come espressione sociale,
la scuola albanese di balletto classico, l’espressione di una virilità estremamente fisica e poco
“ciarliera”, lo spirito competitivo e l’orgoglio di un popolo “tribale” con le esigenze del mercato
televisivo, il sex appeal del body fitness, la telegenia e la capacità di assecondare le fameliche
richieste delle audience più giovani, notoriamente refrattarie al richiamo del piccolo schermo. Non
vi è, in tutto questo, nulla di chiaramente orientato al passato (un’opzione impraticabile di fatto per
gran parte degli albanesi) ma piuttosto la voglia di progettare un sentire comune con i frammenti
della modernità e della tradizione, senza temere il mutamento ma accettandolo come parte
inevitabile di un qualunque sano processo di identificazione collettiva che non voglia sclerotizzarsi
nella nostalgia dei bei tempi andati, che per molti giovani albanesi semplicemente non esistono
come ricordo politicamente spendibile sul mercato delle appartenenze.
Conclusioni
L’intento di queste pagine è stato quello di spingere a riflettere su alcune forme recenti delle
appartenenze e delle identità. La “crisi albanese” del 1997 ha costretto alcuni noti opinionisti a
ripensare pubblicamente il senso e il ruolo dell’identità italiana, e le esigenze commerciali di un
programma televisivo italiano hanno contribuito al riposizionamento dell’identità albanese, per gli
attori e per gli astanti. Ancora una volta, seppure con ingredienti insoliti, confermiamo quindi il
sapere degli antropologi, che ci dice la natura necessariamente relazionale dell’identità.
Per quanto riguarda invece lo specifico rapporto tra mezzi di comunicazione di massa e
identità collettive, mi sento di azzardare il giudizio complessivo (ormai acquisito nel dibattito
teorico) che non vi è alcun rapporto causale diretto tra rappresentazione nei media e percezione
della propria identità. Non basta, cioè, vedersi descritti come sciocchi o criminali o ballerini dai
grandi mezzi di comunicazione di massa per percepirsi come tali, dato che il discorso dei media
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Pastori e pinocchi
entra nelle ordinarie spirali comunicative come una delle voci in gioco. In questo senso, possiamo
dire che i mass media paventati da certi approcci teorici “non esistono”, se per mass media
intendiamo un sistema di comunicazione autonomo e tendenzialmente “persuasore”, i cui effetti
sociali possano essere resecati da quelli della più vasta struttura entro cui si inscrivono (Tomlinson
1991). Al contrario, un’analisi di taglio antropologico sui mezzi di comunicazione di massa ci rende
sempre più consapevoli della natura “mediata” della vita sociale in generale (Mazzarella 2004).
Esistono cioè nuclei più o meno densi di comunicazione e aggregazione di significati che
non possono esistere se non in forma mediata, cioè comunicata: gli stili culturali da cui si proviene,
le aspettative sociali, gli incentivi individuali, gli habitus come archivi consolidati e generatori
sperimentali di pratiche, e i capitali culturali ed economici di cui si dispone. Dentro questo quadro,
agiscono i mezzi di comunicazione di massa. L’antropologia ha fatto male, finora, a sottovalutare
spesso il loro ruolo in nome di un purismo dell’“autentica cultura” che non aveva ragione di essere.
Farebbe altrettanto male, credo, se iniziasse ora a sopravvalutarlo, in nome di un determinismo che
è altrettanto ingiustificato, teoreticamente ed empiricamente.
Titolo citati
Piero Vereni, “La soapizzazione dell’anima”, in AA.VV., Best Off. Il meglio delle
riviste letterarie italiane. Edizione 2005, Roma, minimum fax, 2005, pp. 99-106.
Cos’è che fa sì che Maria De Filippi sia così amata dal pubblico generalista e così detestata dai
cosiddetti intellettuali? Prima di stracciarci le vesti e balzare popperianamente sul carro dei mosconi
detrattori del catodo, forse vale la pena di capire come funziona un meccanismo narrativo che ha
implicazioni antropologiche letteralmente sconvolgenti.
Gli sceneggiatori televisivi, gente pratica, dividono il mondo della fiction in due grandi
categorie: low concept, e high concept. A scanso di malintesi, gli aggettivi stanno ad indicare più
l’impegno economico dell’eventuale investimento produttivo che il valore intrinseco delle opere
prodotte, per cui low concept fa il paio con low budget. Comunque sia, high concept indica quel tipo
di fiction in cui i caratteri dei protagonisti sono nettamente definiti e coincidono con un fare
specifico: la caccia al colpevole, la scoperta di nuovi mondi, la ricerca di una via di fuga. Low
concept è invece quella fiction che ruota strutturalmente attorno alla definizione stessa dei
personaggi, perennemente alla ricerca di una loro collocazione sociale o affettiva. Si intuisce quindi
dalle definizioni sommariamente presentate che il tipo principe di fiction high concept è il telefilm
poliziesco, mentre la fiction low concept trova la sua massima espressione nel serial (nella variante
soap opera quando il finale è dilazionato all’infinito; telenovela se il finale per quanto ritardato, è
previsto nella sceneggiatura di base). Low e high sono due idealtipi o caratteri estremi, che
delimitano piuttosto i margini di un continuo narrativo entro il quale è possibile collocare le
specifiche fiction. Così, per fare un esempio a me caro, la serie Star Treck è una fiction high
concept (“alla scoperta di nuovi mondi… lì dove l’uomo non è mai stato prima”), ma il conflitto tra
la razionalità vulcaniana del Dr. Spok e l’emotività dell’umanissimo Dr. McCoy è un tipico caso di
sviluppo low concept che fa da bordone a tutta la serie. Specularmente, il telefilm Ally McBeal è
pensato come un low concept (l’avvocatessa in perenne crisi sentimentale e identitaria) sul quale si
innestano di volta in volta plot basati su casi legali più o meno high (ma mai alla Perry Mason).
Detto altrimenti, una narrazione è high quando punta sulle azioni dei protagonisti (“Presto,
insegua quell’auto!”) che non hanno bisogno di definizioni dato che quello che sono sta tutto nel
loro fare (il tenente Colombo), mentre è low quando si incentra sulla definizione dei personaggi
(“Devo dirti qualcosa, Pedro: tua madre in realtà è la figlia di tuo padre, quindi tuo padre è tuo
nonno, e tua madre è tua sorella”), attività che di fatto costituisce lo scopo primario della fiction di
questo tipo.
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La soapizzazione dell’anima
Stabilite queste coordinate, è utile ricordare che l’opposizione si può applicare al mondo della
letteratura in generale, che costituisce ovviamente il terreno dove l’opposizione si è anzi
originariamente sviluppata. Ma è proprio quando viene restituita a questo campo di applicazione
che l’opposizione tra high e low dimostra inaspettate implicazioni, dato che è proprio qui che le
implicite connotazioni valutative che mi ero premunito di evitare all’inizio di questa discussione
sembrano tornare prepotentemente all’assalto, ma invertite di segno. Intendo dire che la letteratura
high coincide abbastanza bene con quella che si chiama “di genere” (polizieschi, fantascienza,
erotici, ecc.) mentre quella low sembra sovrapporsi con una certa precisione alla Letteratura con la
maiuscola, a quella che – beata lei – arriva a toccare le vette dell’arte.
Anche se cioè un plot high concept può strutturare la trama di molta Letteratura con la
maiuscola, mi pare indubitabile che ciò che ha fatto di un pezzo di “prosa letteraria” un’opera d’arte
è stato, per generazioni di critici, il tono irrimediabilmente low della struttura ideologica
soggiacente. Possiamo cioè dire che senza la ridicola crisi dell’Innominato (e gli stravizi
conventuali della monaca di Monza, e i trascorsi ribaldi di fra’ Cristoforo) i Promessi Sposi non
sarebbero entrati nel canone con il fragore che li ha contraddistinti. Ciò che per due secoli
(l’Ottocento e il Novecento) ha costituito il fattore discriminante della Grande Letteratura è stata
proprio la capacità degli autori di comunicare gli intimi sommovimenti dell’anima del protagonista,
dimostrandone così l’esistenza in un mondo sempre più secolarizzato. La borghesia (classe sociale
di cui il romanzo è la più compiuta espressione estetica, com’è noto) ha costruito la propria
percezione di sé attraverso la rappresentazione narrativa di un soggetto dotato canonicamente di due
fondamentali caratteristiche: è consapevole dei propri stati d’animo, più importanti per la sua vita di
qualunque condizione materiale; i suoi stati d’animo mutano nel corso del tempo a seguito di
diversi motivi, non ultimo il caso.
Non è necessario indicare in questa sede le ragioni strutturali che hanno condotto a una simile
concezione del soggetto, mentre è estremamente importante sottolineare l’aspetto distintivo di
questa identità borghese, che si oppone (tramite la sua interiorità) alla vacua esteriorità della classe
nobiliare e (tramite la sua “profonda” introspezione) alla banale e inconsapevole superficialità delle
classi subalterne e strumentali. Dal Werther di Goethe all’Agostino di Moravia, il protagonista del
romanzo moderno è uno stronzetto che non ha nulla da fare se non struggersi per una qualche
relazione (affettiva o di potere) che gli crea dei problemi di identità. Ora, imparare ad apprezzare le
qualità estetiche di un simile modello narrativo è procedimento estremamente complicato, che
necessita di uno specifico e lungo addestramento: i giovani devono essere educati a identificarsi con
soggetti in crisi il cui scopo ultimo non è fare delle cose con il proprio corpo (vangare, scopare,
mangiare, defecare) ma elaborare una qualche concezione raffinata del proprio sé come espressione
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La soapizzazione dell’anima
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La soapizzazione dell’anima
per troppo breve tempo alla pratica distintiva dell’educazione formale, hanno fatto in tempo a
cogliere l’allure del soggetto borghese senza riuscire veramente a farlo proprio. Gli ex liceali
distratti, i geometri con il panico da compito d’italiano, i forzati delle 150 ore e i coatti del Cepu
hanno con Maria De Filippi l’opportunità irrinunciabile di prendersi una clamorosa rivincita di
classe, potendo esprimere con tutto il loro corpo quel che la Cultura ha fatto loro solo assaggiare.
Lacrime e sudore, aloni ascellari e scarmigliature, posture goffe e voci roche da scarsa pratica
telegenica, assieme al calcolato vizio della conduttrice di non guardare mai verso la telecamera,
costituiscono lo stile “realista” della televisione di Maria De Filippi (non per nulla il genere cui
appartiene, oggi dominante nelle televisioni di tutto il mondo, è detto reality) che garantisce a chi
guarda la certezza della partecipazione e dell’identificazione. Le classi popolari, che non hanno
tempo da perdere a leggersi pallosissimi bildungsroman senza sugo per giungere a quel
raffinamento della coscienza necessario a percepirsi come “soggetto fragile”, possono attraverso il
tubo catodico fare un corso accelerato di pensiero occidentale, e condensare in un paio d’ore la
filosofia del soggetto da Hegel a Heidegger.
Gli stessi motivi che fanno di Maria De Filippi un vero guru delle classi subalterne stanno alla
base del disprezzo che verso di lei ostentano i colti, quelli appunto che sono in qualche modo
riusciti a incorporare il modello del soggetto fragile per via letteraria o filosofica. Costoro subiscono
il gravissimo dispetto di vedersi svelare il trucco sotto il naso, il trucco – si badi bene – fondativo
della loro identità. C’è posta per te (ma l’argomentazione si può estendere ai reality show in
generale) costituisce infatti l’anello di congiunzione tra L’Ulisse di Joyce e Un posto al sole,
svelandone così la comune matrice low concept. Prima del reality i sostenitori della cultura alta (che
abbiamo visto essere in effetti low concept) potevano ribadire la distanza del loro modello narrativo
dal serial insistendo sulla patemizzazione esasperata di quest’ultimo, che invece non sarebbe
presente nei romanzi d’Arte. A parte il fatto che l’argomentazione è alquanto speciosa (che cos’è il
flusso di coscienza di Molly se non un effettaccio paragonabile allo slow motion in un film di
Zeffirelli?), la messa in scena dei corpi proletari invasi da anime fragili dimostra senza possibilità di
smentita che quel soggetto raffinato che si supponeva frutto di un incessante lavorio interiore può
esistere anche in contesti del tutto incongrui, vanificando quindi il processo di distinzione.
Maria De Filippi quindi è la profetessa della vera laicizzazione della crisi laica del soggetto, la
divulgatrice di un modello che era nato per essere elitario. Inevitabile quindi che si attirasse gli
strali e gli anatemi di chi di quel modello è vissuto (in senso letterale). Ma ci importa poco delle
piccinerie invidiose della borghesia, mentre ci sembra più interessante seguire gli sviluppi
antropologici e politici di questo modello identitario. Cosa succede cioè nelle pratiche sociali
quando il soggetto non è più raccontabile per il suo fare, ma solo definibile per il suo sentire?
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La soapizzazione dell’anima
Quando il narcisistico modello strutturalista (il soggetto è un fascio di relazioni) diviene pratica
quotidiana? Cosa succede veramente quando Luisa non è più quella che fa i vestiti, ma la “madre
degenere”; Lucio non è più il barbiere ubriacone, ma il “padre in crisi”; Antonella non è più la finta
verginella che fa impazzire i tardoni, ma la “ballerina”? Il passaggio da un concetto high (basato
sulla narrazione) a uno low (basato sulla definizione) del soggetto occidentale è avvenuto circa
duecento anni fa (era già compiuto con Fichte), ma la divulgazione alle masse di questo modello sta
avvenendo ora, sotto i nostri occhi. Il revival etnico, la smania delle radici, il culto del farro e della
cucina biologica sono le ricadute ideologiche e mercantili più evidenti di questo mutamento
ontologico radicale. Se io non sono più quello che sono per quello che faccio, ma per quello che
sento e per come mi rappresento di fronte agli altri, se insomma non ha più alcuna importanza
raccontare chi sono, mentre diventa fondamentale definirmi (gay, skater, trans, pacifista, liberal,
scrittore, artista, del Cancro), questo modello identitario veicolato dal piccolo schermo è comunque
troppo esile per darmi sicurezza, spingendomi a barattare la mia storia personale (fatta di azioni che
sul mercato delle identità non valgono più nulla) con qualche favoletta collettiva (i Celti, gli
antenati, le radici).
Vi è quindi un’indubitabile consonanza di fini tra reality Tv e revival etnici e localistici, dato che
in entrambi i casi i soggetti sono sottratti al loro fare individuale (alienati in un modo che Marx non
aveva previsto), disossati come cosce di tacchino, per essere restituiti alla macchina mediatico-
produttiva nella totale convinzione che ciò che conta veramente è il “considerarsi” (mi considero un
buon padre, mi considero un artista, mi considero un padano). Questa assunzione apparentemente
consapevole della propria soggettività ha un effetto destabilizzante proprio in quanto sottrae al
modello delle classi la propria naturalità (critica della borghesia). Ma non è in grado di sottrarre i
soggetti all’alienazione da sé, dato che sostituisce le narrazioni individuali con una serie di
definizioni (c’ho un trauma infantile) pescate più o meno appropriatamente dal mercato della
patologia mentale. Se quindi sul piano ideologico il reality show sbugiarda la borghesia e la sua
distinzione fasulla, su quello politico la deriva rischia di essere reazionaria. Appena imparano a
sentirsi “nuragici in crisi”, anche i minatori sardi perdono nerbo. In un mondo in cui le domande
principali non sono più: “Come arrivo a fine mese?” o “Come faccio a scoparmela/o?” ma “Chi
sono io, veramente?” e “Come posso superare il mio complesso edipico?”, non rimane molto spazio
per progettare (o imporre con la forza) mutamenti strutturali delle condizioni di produzione. La
borghesia è in crisi, quindi. Ma non è che le classi subalterne stiano granché meglio. Vorrà dire che
ci faremo sopra un bel talk show.
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Rambo’s Wife Saves the Day
DON KULICK, MARGARET WILLSON, “Rambo’s Wife Saves the Day: Subjugating the Gaze and
Subverting the Narrative in a Papua New Guinean Swamp”, Visual Anthropology, X, 2, 1994, pp.
xx-xx; ristampato in KELLY ASKEW, RICHARD R. WILK (a cura di), The Anthropology of Media. A
Reader, Malden-Oxford-Carlton, Blackwell Publishing, 2002, xi-416 p. [pp. 270-285].
Si tratta di un saggio per alcuni versi paradossale, dato che da un lato ci mostra gli ennesimi
“selvaggi” incapaci di distinguere tra tecnologia e “magia”, ma dall’altro attribuisce a quegli stessi
uomini “primitivi” acute qualità di costruttori di narrazioni a partire dalla materia bruta fornita dalla
rappresentazione filmica. L’intento degli autori è quello di dimostrare la dimensione attiva della
pratica semiotica implicata dalla visione di immagini che transitano su di uno schermo. La domanda
che si pongono gli antropologi statunitensi Don Kulick e Margaret Willson e che emerge dal loro
resoconto etnografico non è quindi “Come i soggetti si collocano entro le strutture di significato
della narrazione filmica?” quanto piuttosto: “Quali sono i meccanismi di produzione di senso che
gli individui applicano al continuum visivo e sonoro (sostanzialmente insensato) del filmato?” Ora,
non è questa la sede per discettare sulla natura del significato dell’opera d’arte, ma è evidente che
un tale ribaltamento della classica domanda degli studi sulla ricezione può avvenire solo se si è
recepita la critica semiotica del significato elaborata dalla riflessione filosofica fin dagli inizi del
Ventesimo secolo ma che ha preso piede nelle scienze sociali solo a partire dalla “svolta linguistica”
degli anni Sessanta e Settanta. Gli abitanti di Gapun, il piccolo e isolatissimo villaggio di Papua
Nuova Guinea studiato in questo saggio, non hanno una frequentazione costante con i mezzi di
comunicazione di massa: non leggono giornali, non hanno apparecchi radio o televisivi, e solo la
metà di loro ha visto almeno una volta una proiezione filmica, pur se tutti sanno di che si tratta.
Nonostante questa loro scarsa dimestichezza con i mezzi di comunicazione di massa, i gapunesi
non sembrano in soggezione di fronte alla tecnologia occidentale, almeno per quanto riguarda le
“storie” veicolate (e sempre secondo l’interpretazione degli autori, che contesteremo tra poco).
Come nella vita reale gli abitanti del villaggio riprendono, discutono e “reinventano” gli eventi
accaduti ai singoli raccontandoseli e producendo macchine di significazione collettiva (magistrale il
caso di una donna la cui infedeltà coniugale secondo tutti sarebbe stata smascherata da uno stregone
durante una visita che però la donna aveva solo annunciato di voler fare, senza mai realizzarla
effettivamente), così sembrano fare con le narrazioni “artistiche” cui hanno assistito nel corso della
loro vita. Apparentemente incuranti, quindi, dell’intenzione autoriale (CITARE QUI ECO Lector in
Fabula) questi uomini che poco o nulla hanno visto la draivisen (televisione in lingua Tok Pisin, il
creolo da loro utilizzato a fianco della lingua nativa) o i mubin piksa (moving picture) si muovono
agilmente tra le strutture narrative alle quali sono esposti, reinserendole entro quadri cognitivi e
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Rambo’s Wife Saves the Day
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Rambo’s Wife Saves the Day
questo secchio venivano immerse statue di legno, e ne uscivano masta, uomini bianchi vivi e vegeti.
Non sappiamo cosa Kruni avesse visto “in realtà”, quale fosse il film di cui fu spettatore, ma
sappiamo che trent’anni dopo, nel 1985, raccontando a Don Kulick quel che aveva visto, il vecchio
non resistette dal porgli queste “speranzose domande: ‘Sai qualcosa di questa macchina?’ e,
soprattutto: ‘Se io entrassi nella macchina, anche la mia pelle diverrebbe bianca? Diventerei un
masta anch’io?’”59. La “sovversione” del racconto occidentale che i gapunesi effettuano
indigenizzandone la fabula avviene inevitabilmente entro questo quadro di sottomissione, di
subalternità radicale inscritta nei corpi guineani. L’incapacità occidentale di “sottomettere lo
sguardo” gapunese non deriva solo dalla capacità di resistenza indigena al processo di
occidentalizzazione, ma forse con maggior forza dalla distanza profondissima che separa gli abitanti
della palude dal mondo dei masta. Se c’è una qualunque ideologia in Rambo, e se qualcuno interno
al circuito produttivo cinematografico (l’autore, il produttore, il regista) sperava di veicolare
quell’ideologia attraverso le immagini, il fallimento di fronte ai gapunesi di questa prospettiva è
mastodontico fino al ridicolo. Ma più che celebrare la capacità di resistenza dei popoli indigeni, a
me pare che questo amaro apologo di barcollante critica cinematografica ci dica qualcosa di
interessante sulle condizioni minime di efficacia persuasiva del messaggio: qualunque sia quel che
vogliamo veicolare, e quale ne sia la forza intrinseca di verità, come emittenti (e qui gioco
sull’ambiguità del termine, a cavallo tra teoria linguistica e tecnologia delle comunicazioni)
abbiamo bisogno di verificare la struttura semiotica del sistema ricettivo se vogliamo formulare
qualche plausibile previsione sulle modalità di ricezione di quello specifico messaggio. La
dimensione collettiva della costruzione del racconto è, ad esempio, un tratto culturale specifico del
guineani che stride quant’altri mai con la concezione tipicamente occidentale della costruzione
“autoriale” del racconto. Se non si tiene in debita considerazione questa variabile (narrazione intesa
come “imposizione” autoriale agli spettatori opposta a narrazione come costruzione cooperativa tra
un narrante principale e gli ascoltatori), qualunque narrazione occidentale sarà giudicata come
incomprensibilmente distorta. Se invece si accetta di far i conti con la diversità culturale (intesa
come diversità dei sistemi cognitivi di riferimento) la domanda che un emittente serio dovrebbe
porsi è: a quali condizioni posso far sì che gli spettatori di Rambo lo vedano secondo le intenzioni
dell’autore?
Questa semplice domanda sposta immediatamente i termini della discussione generale. Invece di
concentrarmi sulle forme della produzione massmediatica presupponendo di essere, in quanto
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DON KULICK, MARGARET WILLSON, “Rambo’s Wife Saves the Day: Subjugating the Gaze and Subverting the
Narrative in a Papua New Guinean Swamp”, Visual Anthropology, X, 2, 1994, pp. xx-xx; ristampato in KELLY ASKEW,
RICHARD R. WILK (a cura di), The Anthropology of Media. A Reader, Malden-Oxford-Carlton, Blackwell Publishing,
2002, xi-416 p. [pp. 270-285]. La citazione è da pagina 281.
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analista o produttore, un ricettore “tipico”, lo sforzo analitico dovrà puntare sulle strutture
interpretative dei riceventi: sono adeguate a leggere Rambo secondo le intenzioni dell’autore? Se
non lo sono, cosa posso fare per renderle adeguate?
Ecco quindi che il mondo della produzione di messaggi trasmessi senza conoscere il destinatario
(messaggi veicolati cioè attraverso i mezzi di comunicazione di massa) si articola, dal punto di vista
della ricezione, attorno a tre grandi nuclei. Al fondo della scala si collocano i gapunesi, quanti cioè
– per le più diverse ragioni – non sono in grado di recepire il messaggio secondo il codice
dell’emittente e, se proprio devono farlo, articolano un’interpretazione tutta interna ai loro
riferimenti culturali e simbolici. All’estremo opposto si collocano invece i professionisti
dell’interpretazione, gli intellettuali in grado di mettere a nudo le strutture narrative e ideologiche
del messaggio. Tra questi due estremi del “non potere” e del “volere” possiamo individuare la
grande area del “dovere”: si tratta di quanti hanno acquisito le strutture essenziali del codice
comunicativo ma non sono in grado di articolare letture alternative rispetto alle preferred readings,
alle “interpretazioni preferenziali” di cui parla Stuart Hall60. Mitica figura dell’immaginario dei
massmediologi, questa massa mediatizzata riceve il messaggio decodificandolo secondo le
intenzioni dell’autore e non riesce a sbloccarsi da lì, incastonata nel gioiello della perfetta lettura
massificante.
60
Stuart Hall, Representations: Cultural Representations and Signifying Practices, London, Sage Publications,
1997.
59
The Tongan Tradition of Going to the Movies
ELIZABETH HAHN, “The Tongan Tradition of Going to the Movies”, Visual Anthropology
Review, X (1), Spring 1994, pp. 103-111, ora in ora in KELLY ASKEW e RICHARD R, WILK, a cura
di, The Anthropology of Media. A Reader, Malden, MA - Oxford, UK - Carlton, Victoria, Australia,
Blackwell, xi-416 p. [pp. 258-269].
Almeno fino ai primi anni Ottanta del Novecento, i Tongani inserivano la visione dei film al
cinema nel più ampio contesto locale della fruizione del faiva (spettacolo). Come infatti le feste
tradizionali erano guidate da un maestro di cerimonie che contestualizzava l’evento anche per
piccoli sottogruppi di partecipanti (ad esempio rivolgendo una serie di allusioni solo a una parte
precisa degli astanti, senza per questo destare il risentimento di quanti non potevano cogliere i suoi
riferimenti) così la visione dei film (sempre occidentali, quasi sempre americani) era mediata
culturalmente da un “narratore” che adattava la strutturazione narrativa al “contesto di
enunciazione”. In pratica, il film veniva visto da un pubblico vociferante e non necessariamente
interessato a coglierne la struttura narrativa completa, mentre il “narratore” forniva le sue
interpretazioni, spesso libere se non del tutto autonome, di quel che accadeva sullo schermo. La
migliore conoscenza dell’inglese e l’uso sempre più diffuso del videoregistratore nel corso degli
anni Novanta hanno ridotto questa forza contestualizzante e ricondotto la visione tongana a più miti
e più occidentali consigli. Ma fino a quando è stata in uso, la pratica indigena di vedere i film con
l’accompagnamento del “traduttore” dava conto di una specificità culturale non trascurabile, che
possiamo sintetizzare nella necessità della contestualizzazione. Nella concezione tongana del faiva,
la dimensione spettacolare si produce anche attraverso l’interazione tra gruppi di spettatori, e il
narratore, come il maestro di cerimonie nei contesti festivi tradizionali, ha prima di tutto il compito
di attivare la rete comunicativa tra gruppi e sottogruppi dei presenti. Mentre cioè il modello
produttivo entro cui nasce il cinema reifica la produzione di senso entro il messaggio e incapsula il
divertimento all’interno del mezzo di comunicazione, il faiva di Tonga ha bisogno di essere attivato
tra coloro che ne fanno parte. Comparando divertimento e faiva, risalta con particolare evidenza la
tendenza isolante dei mezzi di comunicazione di massa che – diversamente da quel che
sembrerebbe indicare il loro nome – sono rivolti ad un consumo sostanzialmente individuale61.
61
Mentre è infatti evidente che il consumo di radio e televisione si rivolge ai singoli, anche il cinema – con la sua
retorica del religioso silenzio, del buio assoluto e della sala di periferia dove i veri cinefili gustavano in solitudine i
capolavori del passato – non sfugge a questa tendenza individuante della produzione semiotica occidentale. L’ispiratore
dei cultural studies, il britannico Rayomond Williams, aveva chiara la pulsione individuante, nonostante il nome, dei
60
The Tongan Tradition of Going to the Movies
narratore
entertainment faiva
mezzi di comunicazione di massa: “Questa innovativa forma di comunicazione sociale – il broadcasting – fu oscurata
dalla sua stessa definizione in termini di «comunicazione di massa», che concettualizzava la sua caratteristica di
rivolgersi a molte persone, le «masse» appunto, ma oscurava il fatto che il modo scelto era l’offerta di apparecchi
individuali, metodo descritto molto meglio dal precedente termine broadcasting”, in RAYMOND WILLIAMS, Televisione.
Tecnologia e forma culturale e altri scritti sulla tv. A cura di Enrico Menduni, traduzione di Enrico Menduni, Roma,
61
The Tongan Tradition of Going to the Movies
Editori Riuniti, 2000, 206 p. [il passo è da p. 44]. Edizione originale Television: Technology and Cultural Form,
London, Fontana, 1974, 160 p.
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La forza delle immagini
HEVAN O DELL’IMMAGINAZIONE
A Olmo di Martellago ci andavo in bici con la morosa a quindici anni. Eravamo tutti Piero,
Mario, Maria Grazia, Antonio, Germano, Anna, Maurizio, Cristina. Le Jennifer erano ancora di là
da venire, anche se sapevamo che il nome esisteva, in qualche telefilm americano. Di Hevan,
invece, ancora nessuna traccia.
I nomi, i nostri genitori non avevano bisogno di inventarseli. A loro bastava quasi sempre il
parco disponibile dei nonni, dei santi, dei padrini o di qualche morto speciale da onorare.
Jennifer no. Ha sentito il nome Evan da qualche parte, ma ancora non le bastava, non era suo a
sufficienza, e ci ha aggiunto l’acca, come certi ristoratori che una ventina d’anni fa s’inventarono
dal nulla le hosterie. Jennifer aveva fame di immaginazione, aveva bisogno di immaginarsi nomi
alternativi, amori impossibili, futuri da allattare.
La mamma di Jennifer non so se fosse già nonna, non so se potrà mai esserlo. Certo ha vestito
Hevan come fosse il suo nipotino. Con la scuffia. La mamma di Jennifer si era già immaginata
nonna, vedeva carrozzine e pappette, sentiva pianti notturni e ruttini. Come avesse accolto quella
gravidanza della figlia ventenne è sentimento che lascio alla decenza delle storie private. Ma certo
la mamma di Jennifer si era immaginata nonna, e infatti così oggi è chiamata dai giornali: la nonna
di Hevan. La Fallaci divenne (ancor più) famosa per aver scritto (e fatto pubblicare) una
lunghissima lettera a un quasi figlio, cioè a un suo aborto. La mamma di Jennifer è ormai famosa
per aver scattato (e fatto pubblicare) una foto (con il cellulare, immagino) a un quasi nipote.
Anche il direttore del Gazzettino ha un sacco di immaginazione. E quella foto l’ha pubblicata,
scatenando il panico. Ci ho pensato un po’ su. Durante i bombardamenti dell’Afghanistan ho girato
per mesi con in tasca una foto ritagliata da Repubblica: si vedevano, accatastati dentro un carro,
ripresi dall’alto, diversi corpicini massacrati (non so più se direttamente “per errore” o come “danno
collaterale”) da qualche aereo americano. Un bimbo di due o tre anni somigliava pericolosamente a
mia figlia, allora neonata. Stesso labbro sporgente, stessa curva della fronte.
No, lo choc della foto di Hevan non dipende da una morte esposta. Il vero motivo è che non
abbiamo un nome generico con cui parlare di Hevan. Il suo astruso nome proprio è un feticcio cui ci
aggrappiamo o dal quale fuggiamo per non parlare della vera cosa: il nome della specie di Hevan.
Cos’è Hevan? Non è giuridicamente un essere umano, altrimenti l’omicidio sarebbe duplice. Lo
hanno seppellito nella stessa bara di Jennifer, Hevan, e non solo per cedere al patetico. È che non
essendo mai nato non avrebbe uno spazio suo nello spazio dei morti. Per essere sepolti al cimitero ci
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La forza delle immagini
vuole un certificato di morte, che non si può stilare per uno che non ha mai avuto un certificato di
nascita.
La scuffia in testa, il vestitino, l’espressione corrucciata che si vede nella foto pubblicata sul
Gazzettino sembrano dirci l’opposto: che quello era un bambino, che è stato ammazzato, che ha
diritto come ogni essere umano a una sepoltura e ad avere giustizia.
Ci sono cose che possiamo solo immaginare. Altre che non immagineremo mai. Altre cose,
infine, diventano parte del nostro immaginario solo nel momento in cui le vediamo. L’immagine di
certe cose ce le rende affettivamente plausibili, ci obbliga a pensarle, o almeno muta il nostro modo
di immaginarle. L’immagine dà corpo alla nostra immaginazione. Mio padre ha avuto sette figli e di
nessuno sapeva il sesso prima della nascita. Io ho iniziato ad avere un rapporto affettivo con la mia
unica figlia quando ho visto l’ecografia del suo volto al quarto mese di gravidanza. Quando l’ho
presa in braccio per la prima volta l’ho riconosciuta, perché erano cinque mesi che sapevo che
faccia aveva. Avevo un nome generico di specie, un nome proprio e un’individualità somatica: le
cose che ci servono per creare una relazione. Se adotti un cane randagio, la prima cosa che fai è
quella di dargli un nome. E se la tua cagna fa una cucciolata, darai i nomi ai cuccioli solo quando
inizieranno ad essere riconoscibili uno dall’altro. Specie, nome, soma.
Lo scandalo di Hevan è questo: ora, oltre a un nome proprio bislacco, ha anche un volto, ma
continua a non avere un nome di specie. Se fosse rimasto un flatus della madre o una speranza della
nonna potremmo lavarcene le mani, inveire quel che basta contro l’omicida e tornare a farci gli
affari nostri. Ci torneremo, certo, ma non potremo più fare finta di nulla, ora che abbiamo visto il
volto di qualcosa che possiede un suo nome, ma a cui noi non sappiamo dare un nome.
FOTO CHOC
Mjtia, 9 anni, di Berlino, viene sequestrato da un uomo mentre va a scuola in tram. L’uomo lo porta
a casa sua, lo violenta e lo uccide. Dopo una caccia forsennata, la polizia riesce a catturare il mostro
(non c’è un’altra parola, in questo caso) che tenta di ammazzarsi buttandosi sotto un tram, quasi a
voler finire lì dov’era iniziata questa storia spaventosa per chiunque, e forse un po’ di più per chi
abbia figli.
Si potrebbe discutere sul fatto che il pedofilo assassino fosse stato “più volte condannato per atti di
pedofilia” e sul confine sempre incerto tra pena come tentativo di recupero e reclusione come
protezione per la società, ma oltre a questo necessario e ovvio punto da dibattere, vorrei portare
l’attenzione su un aspetto forse meno appariscente.
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La forza delle immagini
Molti giornali (il Corriere a pagina 23 del 2 marzo) hanno pubblicato una “foto choc”, descritta
proprio dal Corriere come “il documento più agghiacciante del delitto”. È una foto ripresa da una
telecamera istallata sul tram. Si vede un bambino dai capelli corti, seduto sul sedile del tram, con la
spalla sinistra appoggiata al finestrino. Guarda fuori dal vetro, le mani in grembo. Forse (la foto è
sgranata) indossa un impermeabile col cappuccio calato dietro il collo. Forse sorride. La sua spalla
destra tocca il braccio sinistro dell’uomo che gli siede a fianco. Questi indossa un paio di jeans, una
maglia con la zip (potrebbe essere il pezzo superiore di una tuta da ginnastica) e un giubbotto
giallognolo. L’uomo guarda appena a sinistra della telecamera che lo sta riprendendo. Come il
bimbo, ha le mani in grembo e, forse, sorride.
Se non sapessimo che quel bimbo tra poche ore verrà violentato e massacrato, e se non sapessimo
che a compiere una simile mostruosità sarà proprio l’uomo che gli siede a fianco, l’immagine non
avrebbe nulla di scioccante. Sarebbe una foto a bassa risoluzione di un uomo e un bambino seduti in
tram. Anzi, le espressioni che si possono intuire dietro i pixel grossolani sono confortanti. I due
hanno espressioni complici, un padre e un figlio che magari si stanno facendo beffe di qualche
passeggero buffo. Viene loro da ridere ma un po’ si trattengono per pudore. Distolgono lo sguardo
uno dall’altro per non scoppiare a ridere. Il bimbo guarda fuori come fosse attratto da qualcosa per
la strada, l’uomo guarda di traverso come chi pensa ai fatti suoi...
L’orrore profondo che sentiamo guardando la foto, il senso di frenesia e il groppo alla gola che ci
assale, dipendono tutti da quello che in questa immagine non c’è ma che sappiamo ineluttabile.
Dentro di noi quella foto ci costringe a visualizzare l’approccio: sarà stato amichevole, l’avrà
convinto a seguirlo con quale trucco, con quali moine? E ci costringe a visualizzare il momento in
cui quel sorriso amichevole dell’uomo si è trasformato in ghigno mostruoso, mentre il viso disteso e
sorridente del bambino veniva devastato dalla paura.
La foto, con tutta l’assenza che contiene, ci costinge ad essere testimoni oculari di quel che è
successo. E questo nostro essere testimoni si carica inconsciamente di senso di colpa. Scappa! urla
una voce dentro di noi mentre guardiamo la foto. Vattene! Scendi da quel tram! Lo sai che non devi
dare ascolto agli sconosciuti. Te l’ha detto mille volte la mamma. Lo sai, mannaggia a te. E
vorremmo essere lì, uno di quei passeggeri di cui nel fotogramma si scorgono le gambe dietro
l’uomo e il bambino. Prendere quel bambino per mano, strapparlo via di lì, abbracciarlo dopo averlo
sgridato per la sua imprudenza. Proteggerlo. Questo ci costringe a pensare quel che vediamo. Che
non abbiamo fatto nulla di tutto questo, non lo abbiamo protetto.
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La forza delle immagini
Certo, a livello cosciente sappiamo benissimo che non potevamo fare niente, che quella foto ha
senso oggi solo per il dramma che si è consumato dopo, ma dentro ci rimane questo terribile destino
di essere stati testimoni impotenti di una mostruosità. La forza devastante delle immagini è questa,
che ci interpellano, ci chiamano per nome portandoci davanti alle cose, anche a quelle di cui non
portiamo responsabilità. Se avessi solo letto la storia disgraziata di Mitja avrei avuto un filtro più
sottile con cui elaborarla. I nomi non sono le facce, e nessuna ricostruzione giornalistica di questo
orrore totale avrebbe avuto mai l’impatto emotivo dello sguardo di Mitja che lancia il suo sorriso
oltre il finestrino, mentre il suo prossimo carnefice storce quasi la bocca per trattenere il riso.
Non so da dove venga questa forza dell’immagine che ci impone il ruolo di testimoni impotenti (da
antropologo culturale, dovrei dire che sta nella storia della nostra cultura dell’immagine, ma ho il
forte sospetto che la base biologica sia dominante, che molto dipenda dal modo in cui ci siamo
evoluti dando priorità a quel che vedevamo) ma so che a volte si fa proprio intollerabile.
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