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La nostra ipotesi interpretativa è fondata sull’idea che i cambiamenti politici intervenuti a partire dalla
metà degli anni 2000 in varie zone del mondo (ex-Unione Sovietica, nord-Africa, Medio Oriente),
possano farsi risalire alla natura delle élite che se ne sono rese protagoniste. In particolare il focus
sarà rivolto all’area post-sovietica, in primis Russia e Ucraina, i cui più recenti sviluppi denotano esiti politici
molto divergenti. In conclusione si farà un cenno alle élites di due paesi post-sovietici di altre due regioni:
Turkmenistan e Azerbaijan, di grande rilievo nella nuova geopolitica energetica.
La transizione post-sovietica
L’ultimo giorno di vita dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche fu il 31 dicembre 1991. Dal 1°
gennaio 1992 le 15 repubbliche sovietiche divennero stati indipendenti. Tre avvenimenti del 1991
connotarono la fine dell’URSS e gli sviluppi immediatamente successivi:
Kazakhstan
Kyrgyzstan
Russia
Tajikistan
Turkmenistan
Uzbekistan
Le “rivoluzioni colorate”: caratteristiche
Dal 2000 al 2005, una serie di proteste popolari, denominate
“rivoluzioni colorate” vedi, spazzarono via i regimi autoritari
e semi-autoritari in Serbia, Georgia, Ucraina e Kyrgyzstan. In
questi casi, la scintilla che scatenò le proteste, generalmente
pacifiche, fu il tentativo, da parte dei leader autoritari, di
falsificare a proprio favore i risultati elettorali. Anche in altri
stati euro-asiatici ebbero luogo movimenti popolari simili a
quelli che caratterizzarono le “rivoluzioni colorate” (proteste
pacifiche, rivendicazioni popolari di democrazia, il ricorso al
monitoraggio elettorale) ma senza successo: è il caso di
Russia, Belarus, Azerbaijan, e di alcuni stati dell’Asia
centrale.
Va precisato che per “rivoluzioni colorate” di successo si Mappa delle “rivoluzioni colorate”
intende la rimozione dal potere di leadership illiberali o
autoritarie attraverso mezzi non-violenti e/o democratici
(tendenzialmente la sconfitta degli uscenti a seguito di
tornate elettorali organizzate sotto la pressione della
protesta popolare).
Le “rivoluzioni colorate”: cause
L’analisi dei fattori scatenanti delle “rivoluzioni colorate”
è strettamente collegata alle cause del mancato
generalizzato successo di tali movimenti in tutto lo
spazio post-sovietico. L’elenco delle “precondizioni” che
favoriscono il successo delle “rivoluzioni colorate” viene
prevalentemente individuato in sette punti: la presenza
di un regime semi-autocratico; un leader in carica
impopolare; un’opposizione unita e coesa; la possibilità
e la capacità di denunciare pubblicamente le frodi
elettorali; media indipendenti; la capacità
dell’opposizione di mobilitare masse popolari; le
divisioni all’interno delle forze di sicurezza del regime.
La causa più frequentemente addotta dagli studiosi nel
giustificare la non-rivoluzione è stata il ricorso, da parte
di molti leaders autoritari, a politiche tendenti a
scongiurare e prevenire il verificarsi dei fenomeni di
mobilitazione popolare.
Per quanto concerne l’individuazione delle precondizioni
del mancato verificarsi delle “rivoluzioni colorate”, vi è
una versione strutturalista declinata in 3 punti: 1. la
presenza di un partito al potere coeso tenuto insieme
da una tradizione rivoluzionaria o da una solida
ideologia; 2. un apparato coercitivo forte e ben
retribuito; 3. un controllo discrezionale da parte dello
stato sull’economia .
La “rivoluzione delle rose”
Nei giorni che seguirono le elezioni tenutesi a Tbilisi il 2
novembre 2003, migliaia di persone protestarono
davanti il Consiglio cittadino e il Parlamento, contro le
presunte manipolazioni del voto a favore del fronte
elettorale del Presidente in carica Eduard Shevardnadze
vedi. A capo della protesta vi fu il principale oppositore,
Mikheil Saak’ashvili vedi. Anche le principali
organizzazioni che si occupano di monitoraggio
elettorale (OSCE, Consiglio d’Europa, Governo USA,
Parlamento Europeo) rilevarono profonde irregolarità
nel voto georgiano. Dopo ben diciotto giorni dallo
svolgimento delle elezioni, la Commissione Elettorale
Centrale comunicò i risultati ufficiali: il Blocco di
Shevarnadze, insieme al Partito Revival di Abashidze,
furono proclamati vincitori. Il 22 novembre,
Shevarnadze aprì la sessione inaugurale del Parlamento Mikheil Saak’ashvili
ma centinaia di sostenitori dell’opposizione fecero
irruzione nell’edificio, non bloccati dalla forze di polizia
e il giorno successivo rassegnò le dimissioni. Il 4
gennaio 2004 vi fu l’elezione di Saa’kashvili alla
Presidenza della Repubblica con il 96 per cento dei
consensi. Senza dubbio, l’azione e i finanziamenti di
alcune organizzazioni straniere, in particolare USAID e
la Fondazione Soros, furono di stimolo per la
riattivazione della società civile georgiana.
La “rivoluzione arancione”
La “rivoluzione arancione” in Ucraina non fu un fulmine
a ciel sereno ma si inserì in un contesto di profondo
malcontento popolare nei confronti del regime del
Presidente Kuchma vedi. Il ballottaggio delle elezioni
presidenziali del 21 novembre 2004, in base ai
sondaggi della vigilia, avrebbe decretato l’elezione di
Viktor Yushchenko vedi, leader delle opposizioni e filo-
occidentale, con il 54% dei voti; al contrario, la
Commissione Elettorale Centrale dichiarò Viktor
Yanukovych vedi, filo-russo, vincitore con il 49,42% dei
consensi, contro il 46,69% di Yushchenko. Yushchenko
non accettò la sconfitta, accusò l’avversario di brogli ed
invitò i suoi sostenitori a manifestare finché non fosse
riconosciuta la sua vittoria: a Kiev, il 22 novembre,
100 mila persone si radunarono nel centro della città
per manifestare in favore di Yushchenko. Dopo dieci
giorni di mobilitazione, il 3 dicembre la Corte Suprema
dichiarò non validi i risultati del ballottaggio ed ordinò
la ripetizione del solo ballottaggio il 26 dicembre. I dati
della Commissione elettorale centrale non lasciarono
margini a contestazioni: Yushchenko si aggiudicò il
52,45% dei consensi, mentre Yanukovych si fermò al
43,77%. Questa volta nessuna irregolarità venne
rilevata dagli oltre 12.000 osservatori internazionali.
La “rivoluzione dei tulipani”
La “rivoluzione dei tulipani” in Kyrgyzstan presenta
degli aspetti originali rispetto alle due già descritte per
il contesto e la cultura politica. Gli avvenimenti del
marzo 2005 posero fine al lungo dominio del Presidente
Askar Akaev vedi, in carica dal 1991. Consolidando il
suo potere, Akaev rafforzò una cerchia di suoi
fedelissimi, soprattutto provenienti dalla regione
settentrionale del paese, più russificata e integrata
negli schemi di organizzazione politico-sociale dell’era
sovietica; la parte meridionale continuava a essere
piuttosto tradizionale e a base religiosa. Le elezioni
parlamentari del febbraio 2005 furono le più
competitive della storia del paese. Akaev decise, il 23
marzo, dopo una serie di rimozioni ai vertici degli
apparati di sicurezza, di passare alla forza, operando
azioni di polizia contro alcuni esponenti
dell’opposizione. La protesta si espanse e si
registrarono molte defezioni da parte delle forze di
sicurezza che, in numero crescente, passarono a
sostegno dell’opposizione. Il 24 marzo, nella capitale
Bishkek, si svolse una grande manifestazione contro il
regime di Akaev; i manifestanti fecero irruzione
nell’edificio presidenziale e occuparono la sede della
televisione. Akaev e la sua famiglia si diedero alla fuga.
Kurmanbek Bakiev vedi fu proclamato presidente ad
interim.
I tentativi non riusciti (I)
In altri stati post-sovietici, le mobilitazioni popolari della metà degli anni ‘2000 non hanno determinato
alcun ricambio a livello di élite. In Russia, Putin è riuscito a neutralizzare i possibili fattori di rischio di
diffusione delle rivoluzioni colorate: le ONG con legami, politici e finanziari, con l’occidente; le
organizzazioni, interne e internazionali, di monitoraggio elettorale, in primis l’OSCE; i gruppi giovanili di
protesta anti-governativa, anche mediante la mobilitazione di gruppi di giovani pro-regime. Questa
azione di neutralizzazione, esercitata con strumenti autoritari sia all’interno del paese, sia nei confronti
di altri territori di diretto interesse per la Russia, mise al sicuro Putin in occasione delle elezioni
parlamentari del dicembre 2007 e di quelle presidenziali del marzo 2008, e riuscì a prevenire grandi
sconvolgimenti in prossimità delle elezioni parlamentari del 2011 e presidenziali del 2012.
I tentativi non riusciti (II)
In Belarus, una forma di protesta popolare si ebbe con l’allestimento di una
tendopoli sulla Piazza d’Ottobre a Minsk, ad opera di circa 20mila giovani
che protestavano contro la conduzione delle elezioni presidenziali del 2006;
si parlò della “rivoluzione dei jeans”, che ebbe, però, un esito negativo in
quanto fu repressa dall’intervento della polizia. In Azerbaijan, le proteste
popolari verificatesi dopo le elezioni parlamentari del novembre 2005 furono
facilmente represse dal regime: quindi, ogni tentativo di dar vita, come in
Georgia e Ucraina, a una qualche forma di rivoluzione colorata, fallì, anche
perché fu scelto il momento sbagliato. Per quanto concerne l’area dell’Asia
centrale post-sovietica, va sottolineato l’alto livello di pervasività e di
capillare controllo sociale esercitato dalle élites al potere nei confronti della
società e del sistema politico, aspetti poco favorevoli allo svilupparsi e al
successo delle “rivoluzioni colorate”.